Le nozze di Figaro: un’esemplare rappresentazione della dialettica servo-padrone

La messa in scena, da diverso tempo attesa, al Teatro dell’opera di Roma del capolavoro mozartiano Le nozze di Figaro è nata sotto i peggiori auspici, segno senz’altro dei tempi bui in cui siamo stati gettati.


Le nozze di Figaro: un’esemplare rappresentazione della dialettica servo-padrone

Nonostante la serrata “mutiana” è andato in scena a Roma il capolavoro mozartiano, riprendendo la classica regia di Giorgio Strehler. La meticolosissima ricerca filologica che tende a riprodurre nel modo più fedele possibile l’opera di Mozart, finisce per sacrificare a tale fedeltà alla lettera lo spirito rivoluzionario dell’opera. L’anima dell’opera è, così, immolata sull’altare dell’armonica forma esteriore. La traduzione letteraria, per quanto attenta, non tradisce a sufficienza la lettera per consentire allo spirito di rimanere rivoluzionario attualizzandosi. 

di Renato Caputo e Rosalinda Renda

Voto: 7

La messa in scena, da diverso tempo attesa, al Teatro dell’opera di Roma del capolavoro mozartiano Le nozze di Figaro è nata sotto i peggiori auspici, segno senz’altro dei tempi bui in cui siamo stati gettati. Il direttore d’orchestra Riccardo Muti che avrebbe dovuto dirigerla, infatti, per non smentire la sua fama di reazionario, ha pensato bene di tirarsi indietro per esporre al pubblico ludibrio della società civile borghese i lavoratori che scioperavano contro la privatizzazione ed esternalizzazione della forza-lavoro portata avanti dalla giunta Marino con la consueta copertura a sinistra di politiche di destra garantita da Sel. La determinazione dei lavoratori in lotta ha poi costretto almeno in parte la giunta Marino a fare marcia indietro e l’opera è stata regolarmente messa in scena, anche se Muti non è tornato sui suoi passi, rifiutandosi di lavorare con ex scioperanti, per mantenere vivo lo spirito di serrata. 

Poco male, perché liberati dalla tirannica direzione organica mutiana, i cantanti hanno potuto offrire liberamente il meglio di sé, superando il sacro terrore che troppo spesso ha impedito di esprimersi al meglio dinanzi al grande Maestro. Inoltre proprio dai travagli sorti da tale defezione, prodotto di una attitudine ancora più vergognosa di quella del crumiraggio, è sorta presumibilmente l’idea di recuperare la “classica” regia strehleriana per la prima volta messa in scena a Roma. 

In tal modo, Le nozze di Figaro di Mozart andate in scena hanno rappresentato un significativo salto di qualità dal punto di vista della regia rispetto a diverse delle ultime rappresentazioni viste sia al Teatro Costanzi che alle Terme di Caracalla, dove a farla da padrone erano troppo spesso trovate televisive, le scene troppo “piene” e ricche di particolari insignificanti e poco calzanti e che portavano lo spettatore a perdersi in una miriade di distrazioni senza, invece, concentrarsi sulla cosa stessa. Non a caso è stata ripresa la regia di Giorgio Strehler, una regia essenziale e pulita che permette allo spettatore di concentrarsi meglio sulla musica, sul canto e sull’intricata trama fatta di mille trovate e colpi di scena. 

Non esaltante l’interpretazione musicale, che appare in alcuni casi incapace di restituire il brio rivoluzionario dell’opera. La cosa più notevole è indubbiamente la scenografia: i vari “quadri” che si susseguono sono estremamente raffinati, il superfluo è bandito. In particolare, colpisce il bellissimo gioco tra luci e ombre, che ricorda la grande arte neoclassica del ‘700 da David a Canova e i costumi, anch’essi davvero notevoli, che si fondono con un bel gioco di accostamento cromatico con le varie scene. 

Estremamente rigorosa, senza mai scadere nel ridicolo (ma si sacrificano troppo gli aspetti buffi dell’opera di Mozart), questa versione de Le Nozze di Figaro ha però un limite che coincide paradossalmente con il suo maggior pregio. In altri termini. la meticolosa cura anche dei minimi particolari per restituire nel modo più rigoroso possibile l’opera mozartiana, finisce un po’ troppo per sacrificare lo spirito rivoluzionario de Le nozze di Figaro alla riproduzione filologicamente corretta della lettera. In tal modo va perduta quella profonda lezione dell’estetica hegeliana per cui il frutto, ossia la grande opera classica del passato, è comunque meno importante della fanciulla, l’interprete del presente, che la raccoglie, ossia in questo caso la mette in scena. L’interpretazione, proprio perché rivolta al presente, è qualcosa di vivo, creativo, produttivo, come la giovane evocata da Hegel, mentre il frutto, per quanto eccelso, appartiene al passato ed ha ormai perduto per sempre ogni contatto con la viva pianta, ossia la cultura storica di cui è stata il prodotto. Dunque, piuttosto che sottoporsi alla vana fatica di Sisifo di riattaccare il frutto caduto alla pianta, ossia di riprodurre filologicamente l’interpretazione originaria che, staccata dalla vivente cultura storica da cui è sorta, è inevitabilmente qualcosa di morto, sarebbe stato opportuno guardare avanti, proiettando attraverso un’interpretazione produttiva il nostro presente nella dimensione del futuro, in cui vive l’utopia del principio speranza [1]. Anche perché riattaccare un frutto al ramo da cui è caduto non significa affatto restituirgli la vita perduta ma comporta produrre qualcosa di artificiale, di estraneo allo spirito della cosa stessa e che implica il necessario distacco del frutto dall’albero da cui proviene, che solo in tal modo potrà continuare a vivere nel futuro, attraverso la fanciulla, ossia l’interprete che lo raccoglierà accogliendolo nel proprio vivente mondo storico. 

Non a caso anche la regia di Strelher, che la messa in scena romana riproduce, aveva questa peculiarità: il regista milanese, infatti, cercando a tutti costi di riprodurre l’opera “fedelmente” ovvero come l’aveva messa in scena Mozart, ne perde, a nostro avviso, alcuni elementi essenziali. Nelle note di regia Strehler scrive: 

È un errore pacchiano fare delle “Nozze” un pamphlet rivoluzionario, con i sanculotti (che d’altra parte non compaiono), che minacciano una società in procinto di andare in rovina. Ed è pure falso farne una conversazione galante e raffinata con un vecchio Conte che cerca di maneggiare una cameriera. Su un piano un po’ più elevato sarebbe pure troppo semplice farne un fuoco d’amore e di imbroglio o troppo enfatico interpretarlo come l’incrociarsi del fuoco di caratteri umani. 

È vero che Da Ponte, d’accordo con Mozart, nel tradurre in italiano la commedia di Beaumarchais Le mariage de Figaro per farne il libretto dell’opera, rimosse molti degli elementi di satira politica presenti nella storia. Ma ciò avvenne perché l’opera, potenzialmente rivoluzionaria, era stata vietata dall’imperatore, tant’è che Mozart fu costretto a comporla in gran segreto. L’opera poté essere rappresentata solo dopo che Mozart riuscì a persuadere l’imperatore di aver eliminato le scene più politiche. 

Essere troppo filologici oggi vorrebbe dire paradossalmente, auto-imporsi, secoli dopo, e dopo la realizzazione di quella grande Rivoluzione, auspicata tanto da Beaumarchais quanto da Mozart, quella stessa autocensura cui era stato al contrario costretto il compositore salisburghese per poter mettere in scena quest’opera rivoluzionaria. In tal modo viene meno proprio la vivente astuzia della ragione alla base della geniale trascrizione operistica realizzata da Mozart, e alla vana ricerca di ridar artificialmente vita alla morta lettera si sacrifica il vivente spirito che rende immortale Le nozze di Figaro

Allora, se ha ragione Strehler nell’affermare che “la grandezza degli scrittori realisti – e in questo senso Mozart è un compositore realista – è di essere situati nella storia sensibili al rapporto dialettico della vita che passa e nello stesso tempo di avere la capacità di proiettare questa storia dialettica su un piano universale”, ciò vale a maggior ragione nell’interprete. Quest’ultimo, infatti, se intende essere un grande artista, necessariamente quindi realista, deve porre il proprio operare nel proprio tempo storico, dandone in tal modo una rappresentazione universale, in quanto ne coglie lo spirito assoluto, cioè privo di legami con gli aspetti empirici e accidentali dell’epoca presente e passata dell’opera. 

Ciò vale a maggior ragione per quello che è marxianamente l’elemento propulsivo della storia passata e del nostro presente, ossia il conflitto di classe. Questo aspetto dinamico, vero e proprio motore del progresso storico per delle società ancora legate alla divisione in classi sociali non solo diverse ma anche fra di loro necessariamente opposte, è stato a ragione enfatizzato da quel grande scrittore realista rivoluzionario che è stato Beaumarchais. Tale spirito rivoluzionario è ben presente anche nell’opera di Mozart, anzi, come ha notato giustamente Adorno, è proprio ciò che fa di quest’opera un capolavoro assoluto e, in quanto tale, immortale. Vivendo però in uno Stato dispotico, per quanto illuminato, Mozart è stato costretto a tradurre l’opera apertamente rivoluzionaria di Beaumarchais in quello che Lenin definiva il linguaggio degli schiavi, senza perderne lo spirito rivoluzionario. È proprio questo, invece, che ha ormai definitivamente perduto il “socialista” Streheler, che ha in questo seguito la tragica parabola del PSI, dagli anni eroici della resistenza, alla Milano da bere del craxismo trionfante, dal cui humus sarebbe poi sorto il berlusconismo, che attraverso la sua fase superiore, renziana, continua ad avvelenare lo spirito del nostro popolo. Nella regia di Streheler, come nella sua riproduzione romana, così lo scontro fra le classi sociali, vero e proprio filo rosso della prospettiva storica, è tenuto sempre in secondo piano, è sminuito fino a essere naturalizzato e smarrendo così, ridotto a una componente inerte della scenografia, il suo spirito vivente, il suo carattere storico universale. 

Come è noto, l’opera è in quattro atti, e ruota attorno al tema del dispotismo illuminato: il Conte d’Almaviva si vuole spacciare per un “signor liberale, prudente e saggio” per aver eliminato il diritto feudale e in particolare uno dei suoi aspetti più brutali, lo ius primae noctis. Si tratta di un diritto palesemente ingiusto (tanto che noi lo chiamiamo oggi privilegio), la cui ignominia è stata fatta emergere dal giusnaturalismo, che gli ha contrapposto il superiore diritto naturale, vero e proprio fondamento del diritto moderno. Quest’ultimo, grazie all’illuminismo, è divenuto, infine, senso comune nelle classi colte, al punto che il Conte non può fare a meno dal proclamarsene seguace, tanto da affermare “di non meritare elogi” dai suoi sottoposti per l’abolizione di un diritto ingiusto come il feudale [2]. In realtà il conte, come molti aristocratici del tempo, non poteva non dirsi liberale, ma in realtà voleva mantenere intatti, anche se in modo non più esplicito, i propri privilegi feudali, cercando di riacquistare con il nuovo dio denaro, ciò che aveva perduto, lo ius primae noctis, nel momento in cui mammona sia era sostituita alla divinità medievale [3]. A tale scopo, come è noto, il conte mira a sedurre la sua serva Susanna, promessa sposa del suo servo Figaro. 

Anzi, dal momento che il “lupo perde il pelo ma non il vizio”, il conte continua a sfruttare la sua posizione, che resta dominante dal punto di vista economico, per sedurre tutte le donne al proprio servizio che considera selvaggina del suo territorio di caccia, tanto da non accettare né che il seduttore più giovane, il paggio Cherubino, né che il suo servo Figaro possa avere Susanna, che lui, invece, non riesce ad avere [4]. Perciò il conte si permette di fare irruzione e frugare senza permesso nelle stanze delle sue sottoposte, oltre che della stessa consorte, alla ricerca di un bracconiere, ossia di un seduttore che, come Cherubino, usurpi il suo diritto feudale. In un crescendo di folli intrecci uomini e donne, servi e signori si danno battaglia nel corso di una giornata pazzesca fatta di passione, di toni drammatici e comici che si alternano, dove alla fine saranno i servi, come nella famosa dialettica servo-padrone nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel (o anche nel grande film il Servo di Losey), a mostrarsi come i veri “signori” e le donne a mostrarsi più scaltre e sveglie dei loro maschili signori. Il Conte d’Almaviva dovrà vedersela con la scaltra e vivacissima intelligenza di Figaro, personaggio rivoluzionario, che ricorda per l’astuzia e la duttilità il Ligurio della Mandragola: anche in questo caso un sottoposto che nell’altrettanto rivoluzionaria commedia di Machiavelli si dimostra decisamente superiore al signore per il quale lavora. È evidente che Mozart (come già Beaumarchais) nell’opera si prende gioco di quelle classi sociali, in particolar modo l’aristocrazia, che verranno di lì a poco spazzate via dalla Rivoluzione francese [5]. 

La minuziosa ricostruzione filologica presente nelle versione delle Nozze, in scena al teatro dell’Opera di Roma, ne fa, dunque, perdere lo spirito rivoluzionario. Così, ad esempio, è ammirevole il costume fiammingo da beghina indossato da Marcellina, come è impeccabile il travestimento del paggio Cherubino che pare veramente un uomo (anche se è una donna che interpreta la parte di fanciullo, dal momento che, grazie alla Rivoluzione francese, sono venuti meno i castrati): ma questa perfezione fa perdere interesse nella sua figura teneramente androgina [6]. Il travestimento troppo riuscito quindi, come la ricostruzione troppo filologica finiscono per essere di ostacolo alla riuscita dell’opera. I cantanti/attori sembrano troppo prigionieri dei loro personaggi, non li guardano da fuori, manca l’effetto di straniamento e la distanza ironica (e temporale). Essi appaiono molto ieratici, formano dei quadri anche molto significativi, ma perdono la vis comica e tagliente anche nella critica sociale. 

Così, emergono poco le contraddizioni storiche e sociali: sono attenuate quelle di classe fra Figaro e il Conte, quasi assenti quelle di genere (specie del genere Klassenkampf) fra Figaro e Susanna, che esplodono, però, in modo improvviso, nel IV atto. Qui assistiamo all’invettiva del Figaro mozartiano contro le donne, che è una ripresa in chiave comica, scelta obbligata dalla censura, della tragica invettiva del Figaro di Beaumarchais contro gli aristotelici. Al solito, però, Mozart, facendo di necessità virtù mediante l’astuzia della ragione, è in grado di aggirare tanto la censura quanto l’autocensura, rovesciando mediante l’effetto di straniamento i luoghi comuni maschilisti gettati contro le donne in un boomerang. In effetti la vena comica fa emergere che le invettive di Figaro sono appunto pregiudizi, che portano i maschilisti ad avere scarsa fiducia nelle partner, in quanto proiettano in loro la propria aspirazione al tradimento. In tal modo violano doppiamente la fiducia, componente fondamentale insieme all’amore del rapporto di coppia, perché dimostrano di dubitare a torto della partner e di compiere immediatamente dopo quel tradimento, ossia quella violazione della fiducia, che gli avevano imputato. Tale disparità è appunto il prodotto di un rapporto non paritario, un rapporto servo-signore presente fra i generi, per cui alle donne non è rimproverato il presunto tradimento che l’uomo compie “naturalmente”. Tale rapporto è però rovesciato da Mozart, infatti come il servo Figaro si prende gioco del padrone, così Susanna, serva a sua volta del partner Figaro, si prende gioco di lui, rovesciando il precedente sfavorevole rapporto di forza e costringendolo con il reciproco riconoscimento alla resa. 

Figaro, quando affronta il Conte, non si porta dietro i contadini, come avveniva nelle rappresentazioni dell’opera ancora fino agli inizi degli anni ’90. Perciò egli appare come gli odierni sindacalisti o politici di sinistra che pensano di poter trattare con i padroni e la borghesia senza avere alle spalle lotte sociali di massa [7]. 

Lo spettacolo, perciò, produce certo godimento estetico, ma lascia troppo poco da pensare alla maggioranza degli spettatori: non si va a fondo né nella tipizzazione storica e sociale dei personaggi, né nella vicenda. Questa rappresentazione appare perciò simile all’arte greca: la magnificenza, la perfetta armonia delle forme esterne nasconde un certo vuoto interiore, la mancanza di spessore di personaggi e vicende tutte risolte nella loro splendida apparenza fenomenica. La profonda interiorità dello spirito rivoluzionario dell’opera di Beumarchais-Mozart è del tutto sacrificato alla perfezione esteriore della forma, per salvaguardare la classica armonia della quale si sacrificano tutte le viventi contraddizioni della sostanza dell’opera. La messa in scena non può dunque che apparire bella senza anima, in quanto la cura minuziosa dei particolari perde di vista le caratteristiche fondamentali dell’opera, l’ironico effetto di straniamento garantito dall’attitudine comica, la critica sociale e lo spirito di scissione, che fanno di Le nozze di Figaro una grande opera in quanto tale realista. 

La furia da collezionista del filologo, che tende a considerare con uno sguardo positivista da entomologo i propri personaggi, porta così con sé una concezione della storia antiquaria che, come osserva persino Nietzsche nella Seconda inattuale, guarda al passato con soverchia fedeltà e amore. Ma la venerazione del passato (vera e propria ossessione del collezionista) si traduce generalmente in una attitudine conservatrice che rifiuta il cambiamento. Manca così del tutto una concezione critica della storia che può evitare l’eccesso di storia e la conseguente paralisi dell’azione, perché riesce a utilizzare il passato come strumento per il cambiamento [8]. 

Così, tornando alla nostra messa in scena e volendo, in conclusione, ricapitolare: in essa le masse, invece di irrompere sulla scena (della storia) anticipando la Rivoluzione francese e forzando il despota illuminato a essere conseguente con la veste riformista che gli fa comodo indossare -come avveniva nell’opera di Beaumarchais (e nelle intenzioni di Mozart perciò censurato) e come avveniva nelle messe in scena delle Nozze fino all’inizio degli anni ’90, quando il popolo irrompeva in scena con cartelli e forconi- sono relegate sullo sfondo. Le odierne masse hanno completamente smarrito nel nostro paese il loro spirito di scissione, seguendo, anche in questo, i propri smidollati dirigenti e si limitano servilmente a esaltare le buone intenzioni del Conte, anche se a queste non seguono i fatti. In tal modo un popolo pre-rivoluzionario torna a essere ridotto ad una moltitudine plebea sempre all’opra china senza ideali in cui sperare. 

Note

[1] L’esigenza naturalistica di riprodurre pedissequamente l’epoca storica messa in scena, porta regista e di conseguenza spettatori a naturalizzare gli eventi, senza considerarli con lo sguardo straniato e necessariamente critico di chi li guarda da fuori, da un’epoca storica maggiormente evoluta. Così ad esempio non emerge in tutti i suoi limiti, allo sguardo di uno spettatore consapevolmente contemporaneo, i limiti della concezione illuminista del matrimonio che lo secolarizza al punto di farne un mero contratto, come appare in modo evidente nel tentativo di Bartolo e Marcellina di incastrare Figaro.

[2] Di ciò si dovrebbero ricordare gli attuali estimatori di intellettuali che, seguendo la moda di questa nostra epoca di restaurazione, tendono a rivalutare romanticamente il medioevo, svalutando in ogni modo l’illuminismo. Si pensi come questa compiuta egemonia del pensiero reazionario su intellettuali “progressisti” abbia portato diversi intellettuali della a-sinistra a richiamarsi acriticamente a giganti dell’ideologia reazionaria come Nietzsche e Heidegger, o a modesti epigoni come Gadamer. Così come dall’illuminismo è sorta la Rivoluzione francese e da Rousseau Robespierre, dall’infatuazione post- moderna per Nietzsche e Heidegger, o per i loro epigoni Gadamer e Foucault, è sorto prima il craxismo e poi Berlusoni e gli epigoni Renzi e Grillo.

[3] Per quanto riguarda i limiti della cultura illuminista e il suo utilizzo distorto quando la borghesia da classe rivoluzionaria è divenuta classe dominante non possiamo che rinviare a quel grande classico del pensiero critico moderno che è Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno.

[4] Non è un caso che l’attuale principale erede della Democrazia cristiana, vero e proprio ossimoro, oggi attraverso il Jobs act vuole restituire ai suoi mandanti tali privilegi “feudali”. La legislazione attuale, che rimette completamente il coltello dalla parte del manico nelle mani del padronato, disarmando completamente la forza-lavoro, non può che riprodurre, alla lunga, quella situazione del mitico capitalismo originario, tanto esaltato dalla piccola borghesia, in cui gli imprenditori utilizzavano il proprio potere assoluto sulla forza lavoro più debole per restaurare dei veri e propri harem, come ebbe a notare il giovane rampollo di una famiglia industriale tedesca negli anni quaranta del diciannovesimo secolo (Cfr. F. Engels, La condizione della classe operaia in Inghilterra, Editori Riuniti, Roma).

[5] Ciò è intuito per quanto confusamente dallo stesso conte quando esasperato dal costante rovesciamento del rapporto servo padrone, a cui lo costringe il sapere pratico del lavoratore Figaro, esclama: «Questo birbo mi toglie il cervello Tutto, tutto è un mistero per me».

[6] La stessa scena, in altre interpretazioni meno filologiche geniale, in cui Cherubino, interpretato da una donna travestita da uomo, si traveste da donna e si sforza invano di sopprimere la propria mascolinità per imitarne il portamento, perde gran parte del suo vigore, dal momento che la meticolosità del travestimento non rende costantemente consapevole lo spettatore che si tratta in realtà di una donna travestita. In tal modo anche la cantante-attrice tende a sprofondare fino a sparire come donna nell’interpretazione del proprio personaggio, facendo venire meno quel produttivo effetto di straniamento in cui l’attrice donna si distacca e osserva anche dall’esterno il suo travestimento in abiti mascolini.

[7] Al contrario di quanto avevano imparato a fare fino agli anni settanta, portando così a casa risultati oggi impensabili, ossia riforme reali, e non contro-riforme spacciate per riforme.

[8] Ovviamente in questo caso condividiamo l’aspetto critico, la dialettica negativa della Seconda inattuale e non la sua concezione positiva, ossia il suo contenuto profondamente reazionario, che critica l’attitudine conservatrice in nome di una radicale e aggressiva attitudine reazionaria. 

05/06/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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