A dimostrazione di quanto siano ancora pesanti i pregiudizi razziali e le conseguenti discriminazioni degli afroamericani – all’interno di una più generale criminalizzazione della povertà, nella terra natale della moderna liberal-democrazia – all’inizio del film Il coraggio della verità, basato su un fatto di cronaca, un padre è costretto a spiegare ai propri figli, ancora bambini, come comportarsi nel caso in cui fossero fermati da un tutore dell’ordine costituito. Come è noto, infatti, un numero altissimo di afroamericani viene ancora ai nostri giorni ucciso o gravemente ferito – come nel caso esemplare alla base del film – nel corso di “normali” controlli di polizia, organo dello Stato che in teoria dovrebbe tutelare la sicurezza e la libertà dei cittadini da ogni forma di violenza e arbitrio.
D’altra parte gli afroamericani, dopo essersi conquistati il diritto di cittadinanza con una terribile guerra civile e poi con lunghe e sanguinose battaglie per i diritti civili – contro lo stato di apartheid vigente nei loro confronti – sono tutt’ora considerati a tutti gli effetti cittadini di quart’ordine. Tant’è che persino fra i pochi poliziotti afroamericani è generalmente presente il pregiudizio che ogni afroamericano fermato, per un controllo di routine, costituisce un immediato pericolo per i tutori dell’ordine costituito, tant’è che se non eseguono alla lettera i loro ordini – che generalmente violano nel modo più sfacciato lo stesso habeas corpus – si sentono nel pieno diritto di sparargli per uccidere. Cosa che, del resto, per loro stessa ammissione – come di evince da un emblematico dialogo del film – non si sognerebbero mai di fare nei riguardi di un cittadino bianco.
Tanto più che nelle nostre liberal-democrazie, come ha dimostrato ancora una volta il caso Cucchi, un membro degli apparati repressivi dello Stato si sente in diritto di poter uccidere, per i più futili motivi, un povero cristo, in quanto è consapevole che molto difficilmente sconterà una pena per il delitto compiuto, in quanto, in casi del genere, i tutori dell’ordine costituito invece di indagare gli assassini – come si evince negli eventi narrati da Il coraggio della verità – faranno di tutto per trovare prove capaci di mettere in cattiva luce la vittima, giustificandone l’esecuzione senza processo. In tal modo, appare evidente come la libertà e la democrazia in uno Stato capitalista siano reali solo all’interno della classe dominante, al servizio della quale – per difenderne proprietà e privilegi per quanto ingiusti e irrazionali – le forze dell’ordine sono sempre pronte a scattare sull’attenti, mentre un membro delle classi subalterne, una volta fermato vive nella condizione di un prigioniero di guerra nelle mani dei suoi nemici.
Tale duplice comportamento non è affatto – come vorrebbe darci a intendere l’ideologia dominante – l’eccezione, che sarebbe dovuta alla isolata mela marcia, ma la regola, proprio perché nello Stato borghese la democrazia è effettiva solo nei riguardi della classe dominante e si rovescia in dittatura nei confronti della classe dominata. Il problema è che tale verità enunciata dal marxismo – che gli stessi sedicenti comunisti dei paesi a capitalismo avanzato, tendono generalmente a ignorare o a occultare – è in realtà del tutto chiara, a livello intuitivo s’intende, ai poveri cristi fermati delle forze dell’ordine dello “loro” stesso Stato, che sarebbero pagate per tutelare la sicurezza dei cittadini. Questo spiega, ad esempio, il perché Cucchi abbia negato in ogni modo le terribili percosse subite senza apparente motivo e che lo avrebbero portato alla morte, rifiutando addirittura ogni forma di cura medica. In altri termini, Cucchi era perfettamente consapevole che se la verità fosse venuta a galla le forze dell’ordine costituito non avrebbero certo indagato i colpevoli, ma si sarebbero rifatti sulla vittima.
Ecco perché, come vediamo ne Il coraggio di dire la verità, un padre afroamericano negli Stati Uniti si sente in dovere di spiegare ai propri figli come comportarsi in caso di fermo da parte delle forze dell’ordine, norme di comportamento che non si distinguono da quelle che dovrebbe seguire ogni combattente una volta finito nelle mani dei propri nemici. D’altra parte, e questa è l’eccezione che purtroppo conferma la regola, il padre in questione dopo averli spiegato il funzionamento della dittatura di classe della borghesia e la sua conseguente criminalizzazione della povertà – per di più, come sempre più spesso avviene pure in Italia, su basi razziali – gli insegna quali dovrebbero essere i loro diritti in quanto esseri umani. In tal modo, richiamandosi alla più avanzata letteratura in materia, quella elaborata dalle Pantere nere, gli insegna la dignità che devono sempre rivendicare come appartenenti al genere umano. In tal modo, avendo la fortuna di avere un padre – per quanto membro delle classi subalterne e discendenti dagli schiavi rapiti dal continente africano – dotato di coscienza di classe, nel momento in cui verranno fermati per il più futile motivo dalle forze dell’ordine, non faranno il fatale errore di assumere un’attitudine strafottente (data dalla consapevolezza di non aver in nessun modo violato la legge) ma assumono tutte le necessarie norme di prudenza di chi è costretto a vivere sotto la dittatura della borghesia.
Al contempo, però, quando i guardiani dell’ordine borghese diventano apparati repressivi dello Stato nei confronti dei subalterni – violando in maniera palese la loro stessa legge, tanto da uccidere un povero cristo per la pura e semplice ideologia dominante che li porta a criminalizzare la povertà – la figlia protagonista del film ha la forza etica e morale di assumersi tutti i rischi connessi al coraggio di dire, in casi del genere, la verità. In altri termini, si tratta di denunciare, attraverso il singolo caso, la faccia antidemocratica che ha lo Stato borghese nei riguardi dei subalterni – e che tutti generalmente per quieto vivere fanno finta di non vedere – in quanto solo per preservare la propria egemonia sulle classi dominate, i ceti dominanti possono, in casi molto particolari, essere disponibili a sacrificare una “mela marcia”, ovvero l’autore materiali del delitto, per meglio coprirne i reali mandanti. Il caso particolare in questione è quando si riesce a costruire – come vediamo esemplarmente nel film - una mobilitazione di massa dei subalterni, mostrando loro come il caso in questione non è isolato, ma costituisce un pericolo reale per tutti i dominati. La legge, infatti, è solo formalmente uguale per tutti, ma nella realtà è uno strumento elaborato dalla classe dominante per legalizzare la situazione irrazionale e ingiusta per cui essa si è appropriata dalla massima parte dei beni comuni, lasciando le briciole alla massa dei subalterni.
Proprio per questo, nel caso in cui un tutore della legge commette un delitto, le forze dell’ordine costituito e i mezzi di comunicazione di massa – strumento essenziale per l’egemonia sulla società civile – come ci mostra esemplarmente il film invece di mettere alle strette gli assassini, indagano le vittime e i testimoni. In quanto le leggi debbono essere rispettate come dei dogmi divini dai subalterni, mentre come le stesse leggi divine debbono essere rispettate dalle classi dominanti solo quando sono funzionali ai loro interessi. Per questo, mentre è essenziale che i subalterni considerino le leggi umane e divine come assolute e involabili, le classi dominanti e coloro che svolgono la funzione di tutelarne i privilegi debbono essere sempre ben coscienti che tali leggi sono per loro da rispettare solo formalmente, per mantenere l’egemonia, ma debbono essere violate nella realtà per mantenere la propria dittatura nei riguardi delle classi subalterne.
Naturalmente se non si capisce questo, tutta la spaventosa violenza apparentemente gratuita, esercitata dagli apparati repressivi dello stato, verso i poveri cristi – nel caso esemplare del film gli afroamericani – apparirebbe del tutto insensata e irrazionale. D’altra parte, il fatto che gli stessi subalterni intuiscono – mentre i sedicenti comunisti negano – che la legge vale solo per i dominati, mentre proprio violandola le classi dominanti esercitano il loro potere, ha spesso delle conseguenze disastrose per i poveri cristi. Dinanzi a una società che li sfrutta al massimo, per poi scaricarli – non appena non sono più uno strumento necessario al perpetuarsi dei privilegi della classe dominante – una parte dei dominati si illude che, passando dalla parte di chi viola la legge, si conquisteranno un posto all’interno dei lupi, riuscendo così ad abbandonare molecolarmente il gregge di agnelli all’interno del quale hanno avuto la mala sorte di nascere e crescere. Ecco così che molti giovani afroamericani, viste le difficoltà che incontrano a farsi sfruttare legalmente, credono di poter diventare a loro volta liberi imprenditori di una delle principali fonti di ricchezza della società capitalistica, ovvero l’industria degli stupefacenti. In tal modo, finiscono inconsapevolmente per divenire corresponsabili della dittatura che grava sulla loro stessa classe. In effetti, da tempo, la stessa industria della droga ha spazzato via la libera concorrenza e per sostituirla con i monopoli. Per cui, chi decide ingenuamente di mettersi in proprio, finisce per essere travolto dai monopoli, o dagli apparati repressivi al loro servizio. Quindi, l’unica alternativa, nella stragrande maggioranza dei casi, è di essere assunti come manovali dell’industria dello spaccio, in cui vengono sfruttati per fare il lavoro più sporco, duro e pericoloso, facendo così arricchire chi controlla in modo monopolistico il traffico della droga.
Inoltre la droga è solo apparentemente – ovvero solo nella versione mistificatoria spacciata dalla classe dominante – uguale per tutti. Al contrario, come è evidente a chi ne ha un minimo di conoscenza empirica, o non è del tutto egemonizzato dall’ideologia dominante, esistono droghe per la classe dominante – generalmente funzionali a fargli svolgere nel modo almeno apparentemente migliore la loro funzione – e droghe per i dominati, per farli permanere in tale stadio. In tal modo i dominati, che cadono nel tranello di credere di poter sfuggire assumendo e spacciando droga dalla loro condizione di oppressione – come ci mostra esemplarmente il film e tende a fargli credere l’ideologia dominante – finiscono in realtà per contribuire a perpetuare la condizione di oppressione della loro classe e, generalmente, anche di loro stessi. In effetti la credenza ingenua di potersi sottrarre con l’assunzione e lo spaccio di stupefacenti dalla miseria reale, non fa altro che perpetuare la loro oppressione, fornendo ai dominanti uno strumento per renderli del tutto proni ai loro ordini e interessi e per criminalizzare la povertà, giustificando la dittatura di classe anche a livello egemonico. In effetti, tossicodipendenti e spacciatori delle classi subalterne, attività che di solito tendono a compenetrarsi nella stessa persona – i poveri sono infatti spesso “costretti” a spacciare per poter continuare a drogarsi – dipendono completamente dai grandi monopolisti dell’industria della droga, che appartengono generalmente alla classe dominante e, quindi, sono protetti dalle forze dell’ordine costituito, che invece sono sempre apparati repressivi nei riguardi dei piccolo spacciatori da loro sfruttati.
È, quindi evidente, tornando al tema principale di quest’ottimo film, che il coraggio di dire la verità lo può avere solo chi ha sviluppato una coscienza di classe, per cui ha il buon senso di mantenersi del tutto estraneo al traffico e al consumo degli stupefacenti. Come abbiamo visto, il subalterno che soltanto osi mettere in discussione l’operato di un manovale dell’ordine costituito – che ha compiuto un tale abuso di potere da mettere in discussione la capacità di egemonia della classe dominante – avrà comunque di contro lo Stato e la società civile borghese, in quanto come mostra esemplarmente il film, mezzi di comunicazione e forze dell’ordine costituito, invece di indagare sull’autore del delitto, indagheranno sulla vittima e il testimone. Così, una vittima e un testimone che fa uso e/o spaccia stupefacenti sarò considerato nel primo caso comunque colpevole, nel secondo inattendibile, oltre a essere facilmente ricattato da chi ha il monopolio dell’industria degli stupefacenti e dagli apparati repressivi in quanto tossico dipendente o in quanto povero cristo che ha per di più violato la legge. Anzi, la mosca bianca che, come nel caso del film, in una tale situazione dovrà avere il coraggio di dire la verità, finirà sotto il ricatto e con il subire la stessa repressione aperta – in quanto meno limitata dalla necessità di mantenere l’egemonia – di quei settori dei subalterni che gestiscono lo spaccio di stupefacenti fra la loro gente e che diventano, nei fatti, dei collaborazionisti direttamente dei monopolisti e indirettamente degli apparati repressivi dello Stato, con cui devono mantenere buoni rapporti per portare avanti i loro traffici. Ecco così che i nostri eroi, i protagonisti del film che si assumono la responsabilità etico-morale del coraggio di dire la verità – in una società talmente ingiusta e irrazionale che ti costringe a essere un eroe per farlo – avranno come primi antagonisti, oltre l’intera filiera degli apparati repressivi dello Stato e degli strumenti di egemonia della classe dominante sulla società civile, gli stessi mafiosi afroamericani che controllano lo spaccio della droga e svolgono nei fatti la funzione di collaborazionisti della classe dominante.
Alla luce di tutto ciò non può che lasciare di stucco, a chi non conosce i meccanismi dell’industria culturale statunitense, la conclusione del tutto irrealista e inverosimile della vicenda narrata nel film. Dove la scelta pacifista, di non rispondere alla dittatura di classe con ogni mezzo necessario, consentirebbe alla protagonista – che ha avuto il coraggio di denunciare le forze dell’ordine costituito nella loro funzione di organi repressivi dello Stato nei riguardi delle classi subalterne – di avere il loro appoggio per arrestare i mafiosi spacciatori di droga del ghetto, che la perseguitavano proprio perché ha avuto il coraggio di dire la verità. Per chi non lo conoscesse, il meccanismo dell’industria culturale è presto spiegato, ossia si basa sul consentire agli intellettuali che realizzano la merce-film la massima libertà di denuncia del (dis)ordine costituito, a patto però che nella conclusione quest’ultimo si riaffermi rafforzato, proprio perché è così egemonico da potersi permettere, entro certi limiti, persino di denunciarne a livello fenomenico delle nefandezze, a patto beninteso che ciò consenta di accrescere i profitti vendendo tali merci di nicchia ai sinceri democratici o ai pochi subalterni che hanno un barlume di coscienza di classe.
D’altra parte però, dietro la chiara imposizione di un finale edulcorante imposto dalla produzione, è possibile intuire, aguzzando l’ingegno, una possibile interpretazione realista. La resa della protagonista – che impedisce ai suoi di reagire con le armi alla duplice oppressione dei mafiosi e degli apparati repressivi dello Stato – potrebbe essere dettata da una sana consapevolezza dei rapporti di forza reali, per cui sarebbe da suicidi avventuristi pensare di vincere sul piano della violenza. Il suo fermare la risposta violenta dei subalterni, consente di raggiungere un compromesso con lo Stato, il quale salva il proprio membro degli apparati repressivi, ma in cambio, per mantenere l’egemonia, sacrifica i mafiosi afroamericani che gestiscono il traffico di droga nel ghetto.