Hegel Vs Schelling, Schopenhauer e la scuola liberale

Concludiamo la nostra analitica recensione alla grande e poco considerata opera di Domenico Losurdo: L’ipocondria dell’impolitico.


Hegel Vs Schelling, Schopenhauer e la scuola liberale Credits: https://www.arteworld.it/3-maggio-1808-goya-analisi/ 3 Maggio 1808 di Francisco Goya

Segue da “Le critiche conservatrici e reazionarie alla filosofia di Hegel”, articolo pubblicato nel numero precedente di questo giornale.

Il tredicesimo capitolo de L’ipocondria dell’impolitico è dedicato da Domenico Losurdo all’involuzione politica dell’ultimo Schelling. Losurdo intende criticare le tesi di chi ha voluto fare dell’ultimo Schelling un pensatore moderatamente progressista sostenitore della monarchia costituzionale. Già dopo la Rivoluzione del 1830, netta e quasi immediata è la polemica di Schelling contro le “pretese” dei costituzionalisti francesi di limitare con leggi scritte – dunque fredde, artificiose, morte – la ricca personalità del sovrano.

La critica di Schelling si allarga ben presto al pensiero astratto con il suo primato del politico e delle sue istituzioni che “pretende” di limitare a sua volta l’interiorità del sovrano. Come dio è superiore all’ente ed a ogni universale, così il re deve essere superiore al potere astratto della legge. Le uniche prese di posizione di Schelling a favore di Luigi Filippo sono legate alle polemiche contro il suo moderatismo che gli rivolgevano gli ambienti radicali.

Un discorso analogo può essere fatto rispetto alla posizione di Schelling nei confronti della Rivoluzione del 1848. Se da una parte restano nette le critiche ai costituzionalisti e, più in generale, alle posizioni liberal-democratiche, Schelling sostiene invece gli aspetti nazionalisti che mirano a superare il frazionamento dell’impero tedesco. Anche in questo caso, però, la posizione di Schelling è per lo meno conservatrice, dato che considera impensabile tale unità senza l’Impero asburgico e vede in esso un antidoto alla debolezza dei sovrani dei piccoli principati tedeschi dinanzi alle “pretese” dei liberali. Così Schelling saluterà con soddisfazione la controrivoluzione che pone finalmente termine al dominio di “forme politiche straniere” come il costituzionalismo.

Allo stesso modo, se Schelling esalterà il colpo di stato di Luigi Bonaparte, additandolo ad esempio a tutti i sostenitori dell’ordine come misura necessaria per bloccare sul nascere ogni movimento rivoluzionario, tuttavia vi vedrà solo un mezzo per la restaurazione completa della monarchia dinastica. In queste considerazioni si inserisce da una parte la polemica sempre più accesa contro il socialismo, di fronte al quale anche la disprezzata borghesia può diventare un indispensabile alleato del partito dell’ordine, dall’altra la polemica contro l’hegelismo e, più in generale, il razionalismo colpevoli di fomentare la rivoluzione sostenendo la superiorità del pensiero sull’essere. Così, sempre di più gli avvenimenti politici appaiono a Schelling frutto di impostura e di arbitrio e risultato delle assurde pretese della realizzazione dell’ideale, a dimostrazione del fatto che per lui acquista sempre maggiore forza l’idea cristiana di un mondo terreno condannato all’apocalisse.

Il quattordicesimo capitolo è dedicato ad arte, metafisica e economia politica in Schopenhauer. Losurdo, citando dall’epistolario del filosofo, mostra la sua attitudine dichiaratamente impolitica, dovuto a un atteggiamento di sprezzante superiorità rispetto alla storicità dell’agone politico. Da una parte Schopenhauer ha maturato dai viaggi in gioventù – al seguito della famiglia in Inghilterra e Francia – una vivissima concezione della drammaticità della questione sociale, che lo aveva portato a un rifiuto scettico delle concezioni legate all’ideale di armonia universale e di progresso. Dall’altra, portando alle estreme conseguenze la distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno, Schopenhauer è giunto a un totale dispregio e del piano conoscitivo, ridotto alla rappresentazione, e del piano storico, scientifico e politico anch’essi semplici strumenti del mondo della mera parvenza, in cui l’uomo non può liberarsi dal dolore esistenziale.

Di contro a questo mondo di dolore e pure apparenze si staglia il mondo noumenico della volontà, che può essere raggiunto tramite il distacco dal mondo storico-politico della rappresentazione, mediante il superamento del continuo riprodursi in esso della sofferenza per mezzo della rassegnazione. Essa consente di togliere la lacerante scissione all’interno del soggetto tra la limitatezza della sfera rappresentativa e l’infinitezza negativa della volontà. Su questa via, che deve condurre all’ascesi, tappe fondamentali sono quelle dell’arte – priva di significato, strumentale, in cui il soggetto si libera di se stesso nell’assoluta contemplazione – e la compassione.

Da qui Schopenhauer ne deduce una violenta critica a l’intera tradizione culturale del mondo occidentale, vittima a suo parere della strumentalità della ragione e del dominio dell’ingenua e antropocentrica idea di progresso, a cui il filosofo contrappone il radicale pessimismo rivolto alla sfera del mondo storico-finito della tradizione orientale, fondata sulla compassione universale, la rassegnazione, il Nirvana. Tuttavia Losurdo afferma che la filosofia di Schopenhauer non è in sé una filosofia orientale: “il mondo delle caste, della rassegnazione e della negazione della volontà di vivere è solo il punto d’approdo della fuga da un Occidente, preda degli incessanti sconvolgimenti rivoluzionari provocati dalla rovinosa superstizione della storia” [1]. Anzi il paradigma è infine rovesciato dato che l’occidente deve ritrovare se stesso nelle sue radici nella cultura indoeuropea rigettando la cultura estranea dell’ebraismo che, attraverso il cristianesimo, avrebbe portato alla degenerazione della “originaria religione patria”. Ciò non toglie l’importanza di alcune pionieristiche posizioni potenzialmente anticolonialistiche di Schopenhauer che condanna duramente la depredazione e distruzione del resto del mondo da parte degli europei.

Tutti questi elementi rendono ragione del favore oggi incontrato dal pensiero di Schopenhauer, come osserva Losurdo, in effetti, “a partire già dal fallimento della rivoluzione del ’48, Schopenhauer assurge a simbolo di un pensiero che, rifuggendo da ogni forma di auto-celebrazione, non esita a pensare la crisi, il negativo, le lacerazioni del reale” (458). Tuttavia nonostante il suo afflato anti-metafisico, rivolto in particolare contro il vacuo ottimismo delle filosofie della storia, elementi metafisici sono ben presenti nel pensiero di Schopenhauer. L’individualità, la differenza è infatti pienamente ricondotta, è dominata dalla necessità assoluta della catena della volontà e del dolore, vera e propria manifestazione del divino giudizio universale. Così la teodicea storicistica hegeliana è semplicemente rovesciata nella sostanza, nell’essere stesso del mondo, una volta considerato non dal punto di vista fenomenico.

Dunque, benché impregnato di elementi tipici della restaurazione, come la critica della politica, della scienza e, almeno in nuce, della modernità, a parere di Losurdo il pensiero di Schopenhauer non può essere considerato come reazionario. Netta è la polemica contro gli ideologhi della restaurazione e Schopenhauer opta per una monarchia certo ereditaria, ma fondata sul principio del costituzionalismo. Così, da una parte vi è la denuncia dello schiavismo negli Stati Uniti e della condizione poco differente dei lavoratori industriali, d’altra però la denuncia di ogni tentativo di lenire la miseria del proletariato, considerata come assolutamente necessaria per l’esistenza umana in quanto tale. Allo stesso modo pur dichiarandosi ateo il filosofo mette in guardia dai pericoli di sovvertimento sociale nella critica della religione. Dunque, se da una parte Schopenhauer è legato alla tradizione liberale, dall’altro loda lo stato d’eccezione che permette di tenere a bada la “sovrana canaglia”.

Avversario principale di Schopenhauer resta così l’hegelismo, colpevole di esaltare il piano politico e della filosofia della storia, nella sua incapacità di elevarsi dal piano del mondo della rappresentazione, tanto da credere possibili il porre rimedio al soffrire ontologico ed esistenziale dell’uomo. Del resto, cosa di cui Schopenhauer era pienamente consapevole, il successo della sua pessimistica visione del mondo era inversamente legato alla fiducia di raggiungere dei miglioramenti sul piano dell’azione storico-politica. Così la nota tesi hegeliana della razionalità del reale, in quanto sancisce la legittimità del moderno e la centralità del mondo della rappresentazione dello Stato, è condannata da Schopenhauer come il preludio del materialismo e dello statalismo di cui si nutre il nascente socialismo.

Il quindicesimo ed ultimo capitolo intende considerare Hegel e la filosofia classica tedesca in una prospettiva comparata. Losurdo muove dalla considerazione che nessun paese ha accolto con più entusiasmo della Germania la Rivoluzione francese. Egli ne individua i motivi all’interno della filosofia tedesca. In particolare, a suo parere, la centralità della categoria dell’universalità sarebbe un chiaro segnale del pathos antifeudale presente nel pensiero kantiano. Lo stretto legame tra universalità e rivoluzione era stato colto tanto da Hegel quanto da Tocqueville. Di ciò si erano ben presto resi conto i fautori della reazione, che la avevano messa al centro delle loro critiche in difesa delle libertà, ovvero dei privilegi particolari. Particolarmente importante da questo punto di vista è la figura di Burke, la cui critica alla Rivoluzione francese, presto tradotta in tedesco, sarà una delle fonti principali delle critiche tedesche. A essa si richiameranno tanto A. Müller, che F. Schlegel, Sthal e, addirittura, von Haller. Come in Burke, in tutti questi autori la critica politica si lega alla critica ideologica, per cui sono presi di mira sempre i princìpi astratti, universali a cui si contrappongono, sempre secondo il modello fornito da Burke, la particolarità, lo storicamente positivo, il mito astorico e organicistico della comunità e, infine, la critica della modernità.

Certo questo richiamo a Burke e al modello inglese, da parte dei conservatori tedeschi, è palesemente selettivo, in quanto permane il rifiuto del costituzionalismo britannico e dell’economia politica. Ancora di più i teorici tedeschi, a cominciare da von Haller, portano alle estreme conseguenze il pensiero di Burke. È il caso della sua critica al concetto di eguaglianza, condannato dallo statista inglese per la sua pretesa violazione delle leggi sociali immutabili della natura. Nel giurista tedesco questa tematica è spinta fino ad anticipare alcune delle tesi del darwinismo sociale, come l’ineluttabilità naturale, tra l’altro divinizzata, del dominio del più forte sul più debole. Allo stesso modo proprio le critiche di Burke e il ruolo antirivoluzionario svolto dall’Inghilterra sarebbero alle origini delle prese di posizione critiche di Kant e di Hegel rispetto a questo paese, fermi restando l’ammirazione per l’economia politica e il costituzionalismo.

Ugualmente aspra è la polemica, più o meno diretta, tra Burke da una parte e Kant e Fichte dall’altra sulla nuova figura dell’intellettuale, non più legato organicamente alla nobiltà o alla chiesa. Nella polemica contro questa nuova figura dell’intellettuale, anche per il ruolo da molti di essi svolto nella Rivoluzione francese, ai teorici conservatori e rivoluzionari si uniscono spesso autori liberali come Constant. Al contrario Hegel loda la nuova figura intellettuale, anche se la vuole integrata allo Stato, come sua forza motrice. Da qui deriverebbero le critiche rivolte dai conservatori, da Stein a Bismark, agli intellettuali e funzionari, condannati per gli stessi princìpi astratti, sovversivi rispetto all’ordine positivo costituito. Così il riconoscimento dei diritti politici agli intellettuali contrappone ancora Kant e Hegel ai teorici della scuola liberale, sia inglese che francese. Allo stesso modo i filosofi sostengono la necessità di riconoscere i diritti politici agli artigiani, contro i princìpi di gran parte della scuola liberale. Ancora più radicale è la differenza dal punto di vista epistemologico. La scuola liberale a partire da Tocqueville tende, infatti, alla condanna del primato del genere sull’individuo e, quindi, del realismo degli universali, ma il “realismo”, commenta Losurdo, “il pathos del genere caratterizza la filosofia classica tedesca nel suo complesso” (492). Così schiavitù e servitù della gleba costituiscono già per Kant una inaccettabile violazione del genere umano nel suo complesso. Ovviamente questa celebrazione del genere non è affatto in contraddizione, come pretendeva un Tocqueville, con l’individuo, dato che per questi pensatori ne costituisce l’ineliminabile presupposto.

Ciò non toglie che ci siano state fasi di oggettiva alleanza tra settori liberali e scuola hegeliana, come ad esempio nella fase immediatamente precedente alla Rivoluzione del 1848. Ma, appunto, come tiene a sottolineare Losurdo, solo settori liberali – dato che la parte moderata del liberalismo anche in questo periodo è critica dell’hegelismo – in determinate fasistoriche, dal momento che già dopo il fallimento della Rivoluzione del 1848 i liberali tedeschi assumeranno posizioni sempre più critiche verso la suola hegeliana. Queste critiche si accompagnano sempre più a quelle della tradizione rivoluzionaria francese, colpevole di aprire la porta a sconvolgimenti sociali, a cui viene a sostituirsi il modello della rivoluzione inglese. Particolarmente evidente il legame tra gallofobia e rifiuto dell’hegelismo si mostra nella nota critica di Haym. Nodo centrale è qui l’accusa a Hegel di aver sostenuto la politica napoleonica e di aver sviluppato la sua statalistica idea di eticità all’interno dello stesso ambito culturale della Rivoluzione francese. In Hegel viene condannata dal nazional-liberale Haym l’idea di una parte della borghesia tedesca che aveva creduto nella possibilità di un’unione tra i principi rivoluzionari francesi e la rinascita della nazione tedesca, idea già messa gravemente in crisi dall’espansione napoleonica e destinata definitivamente a tramontare dopo il 1848 e con l’ascesa al trono di Napoleone III.

Note:

[1] Domenico Losurdo, L’ipocondria dell’impolitico, Milella Edizioni, Lecce 2001, p. 453. D’ora in avanti inseriremo direttamente nel testo, in parentesi tonde, i rinvii alle pagine di quest’opera.

30/08/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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