Segue da “Valentini, Hegel e Weil”
Anche la categoria illuministica e positivistica della Condizione genera una reazione, quella della Coscienza, categoria riferibile alla filosofia fichtiana in cui si pone l’esigenza di risalire al fondamento incondizionato del condizionato. Il problema è la struttura riflessiva di questa categoria che pretende di astrarre nel suo puro soggettivismo da ogni determinatezza, dal mondo come condizionato e, quindi, diviene l’attitudine ironica dell’estetica fichtiano-schlegeliana. Da qui avviene il passaggio alla categoria successiva dell’Intelligenza. Se l’uomo della Coscienza portava in sé un atteggiamento veritativo, in quanto pretendeva di pensare e agire sulla base di principi puri, ora interviene l’uomo dell’Intelligenza, nelle sue molteplici sfaccettature, che coglie in ogni agire e pensare un’attitudine, un interesse. Da qui ne deriva il ritorno di questa categoria al silenzio delle primissime, dato che altrimenti rischierebbe di trasformarsi a sua volta in un’attitudine particolare e non nell’Intelligenza che, astraendo da tutte, si crede in grado di comprenderle. Quando questa categoria, da semplicemente interpretativa dei diversi interessi al fondamento delle diverse attitudini, vuole porsi come attiva, mantenendo la sua onnilateralità, diviene la Personalità. Questa categoria, tipicamente nietzschiana, si batte contro tutto ciò che è costituito, precedentemente alla sua azione, come regola o valore. L’agire creativo, poietico si oppone violentemente al dato, manifestandosi in un’immagine che si impone da sé in modo non discorsivo. Con ciò con la negazione di ogni valore, di ogni logica, di dio, si perviene anche alla titanica negazione di se stesso, che genera a sua volta la nostalgia dell’assoluta trascendenza di dio. A questa posizione si oppone così quella hegeliana dell’Assoluto, che relativizza l’unicità della personalità storicizzandola all’interno di una più vasta comprensione della totalità. Con questa categoria Weil mette in evidenza proprio gli aspetti più generalmente criticati della filosofia hegeliana, il suo porsi come sistema assoluto che ricomprende in sé tutti gli sforzi precedenti, la assoluta trasparenza della conciliazione tra universale e particolare, di Essere e Pensiero. “Dunque il cerchio è chiuso, la ragione è realizzata, non rimane che riconoscerla” [1]. Il problema è che si finisce in questo modo per storicizzare e sistematizzare tutte le posizioni precedenti meno la propria che si pone, almeno secondo Weil, in un metafisico al di là della storia stessa. Con questa trasformazione della filosofia in storia della filosofia nascono tutti i problemi per i seguenti filosofi che non vogliono più ridursi a semplici applicatori del sistema, a semplici discepoli della nuova fede. Da qui la seguente storia della filosofia come lotta contro il padre e poi come serie di parricidi mai compiuto fino in fondo.
Le due categorie seguenti, l‘Opera e il Finito, tuttavia non mirano tanto a riaprire il discorso apparentemente chiuso dell’Assoluto, ma si pongono in immediata opposizione a esso, distinguendosi così dalle restanti categorie che operano sempre un superamento dialettico nei confronti delle precedenti. Perciò sono definite da Weil categorie della rivolta, contrastando l’intera tradizione apertasi con la categoria del discorso. L’Opera è la categoria dell’azione nella sua purezza, del fare che ha in sé soltanto la sua misura e la sua giustificazione, che fonda di volta in volta la storia. Il linguaggio di cui si serve è imperativo, è mitico e valutabile unicamente nei termini strumentali della sua efficacia. Così l’Opera “contrappone al discorso coerente la violenza del fare” mentre il Finito gli opporrà “le esigenze (e le lamentazioni) del particolare e, per un altro verso, contesta all’Opera che l’azione violenta possa avere un qualche senso o essere fonte di soddisfazione” (315). Per lo scacco inevitabile che ne risulta, Il Finito è, dunque, per Valentini non una vera e propria altra categoria, ma il risultato della delusione prodotta dall’Operain un mondo che rifiutando l’Assoluto è abbandonato dal senso. Questo spaesamento esistenziale del Finito tende all’infinito pur sapendo di non poterlo raggiungere, in quanto lo pone come un vuoto trascendentale, una mera possibilità inesauribile e, quindi, indicibile nella sua astrattezza. Così all’uomo del Finito non resta che interpretare questo limitato darsi del trascendente e poeticamente fondare il reale dal nulla della possibilità.
La categoria dell’Azione cerca di unificare dialetticamente le categorie della rivolta con quella dell’Assoluto, ricercando un discorso coerente capace di azione, una categoria che si ponga immediatamente come attitudine all’interno di un mondo che esclude ogni trascendenza. In tal modo il discorso si toglie nell’agire razionale in grado di comprendersi. Weil ha in mente Marx, un Marx in cui è centrale la rielaborazione della tematica kantiano-fichtiana del primato della filosofia pratica, una pratica però fondata sulla certezza di avere alle spalle l’Assoluto; non si tratta, dunque, che di realizzarlo. Tuttavia questa realizzazione differisce dalla semplice applicazione dato che qui la razionalità è fondata dall’atto stesso della sua posizione. Il dover essere dell’assoluto, dunque, è un’illusione necessaria, dato che l’essere, il reale è già presente in questo fare che lo libera dal contingente empirico. Il discorso dell’azione è dunque coerente, ma la sua è una coerenza nella finitezza, che per Weil è il suo fattore progressivo rispetto all’Assoluto hegeliano in quanto ingloba in sé la critica delle categorie della Rivolta, mentre per Valentini si pone come una ripresa del motivo hegeliano dell’impossibilità per l’azione di conoscere a priori il suo esito.
L’Azione ha dunque un carattere esaustivo, in quanto ricomprende le categorie precedenti, sa l’assoluto e lo realizza, o almeno come ultima categoria filosofica lascia all’uomo il compito di realizzarlo. Tuttavia questa categoria non spiega se stessa, ma è spiegata dalla categoria del Senso, una categoria, a differenza delle precedenti, prettamente formale, priva di una sua attitudine. Si tratta del punto di vista del per noi della Logica della filosofia, sorta di supercategoria che spiega le precedenti interpretandole come suoi momenti. Se per Valentini questa categoria sembra essere una semplice ripresa dell’Assoluto hegeliano, per Weil sembra invece porsi come una categoria riflessiva, sorta di coscienza della storia della filosofia. Tuttavia la categoria di Weil non è esaurita da questo aspetto storicista, ma si pone come radicalmente aperta al divenire posto dall’azione e alla comprensione non solo di se stessa, ma anche del non senso. Da questo punto di vista la categoria del Senso non è solo riflessiva, ma anche poietico-produttiva, essa è in senso largo linguaggio, che si pone al di là dell’azione e ne dice il senso.
A questa categoria segue quella della Saggezza, l’ultima della Logica della filosofia. Questa categoria ricorda quella dell’azione sensata anche se essa è in qualche modo una metacategoria in quanto rappresenta il senso presente in tutte le attitudini incontrate. La Saggezza come già il Senso chiude il circolo ritrovando la prima categoria, la Verità, ma non in forma riflessiva come il Senso, bensì come attitudine. Il saggio ha la certezza dell’unità di mondo e verità, ma sa che tale unità è dal punto di vista dell’individuo necessariamente un dover-essere, che implica per passare all’essere il togliersi dell’individuo stesso. Per Valentini questa conclusione è di sapore più kantiano che hegeliano, la particolarità dell’individuo non è conciliata con l’universale, ma solo educata a esso in un progresso all’infinito. Inoltre in Weil come in Kant l’azione ha la preminenza sulla riflessione, è portatrice e istitutrice di razionalità, mentre per Valentini, che in ciò si richiama ad Hegel, la ragione è sempre posteriore al momento, mai del tutto trasparente a se stesso, dell’agire.
Per Valentini il problema è, dunque, che la vera chiusura del cerchio è possibile solo nella categoria dell’Assoluto e non in quella della Saggezza, affetta dalla cattiva infinità. Le categorie di Opera e Finito, unificate da Valentini, in quanto racchiuse in una dimensione individuale, non superano l’assoluto, ma ne costituiscono un momento. L’Azione non è una categoria ulteriore, ma è l’azione dell’assoluto. Così il superamento dell’Assoluto segna in Weil un ritorno a Kant, un Kant post-hegeliano come ebbe a dire Ricoeur, in cui la ragione è essenzialmente pratica e l’azione ha la preminenza sulla riflessione. Senso e Saggezza infine, anch’esse unificate da Valentini, non sarebbero altro che una ripresa del “Sapere assoluto” alla fine della Fenomenologia o dell’ “Idea assoluta” alla fine della Scienza della logica.
Quello che sembra perdere di vista Valentini, anche se poi finisce inconsapevolmente per riconoscerlo, è che queste ultime categorie non sono tanto o solo quelle di Hegel, quanto quelle che Weil ha colto in Hegel attraverso la sua interpretazione, finissima dice Valentini, produttiva diremo noi. Inoltre, si potrebbe aggiungere che tale interpretazione non è dovuta a un confronto con il puro testo hegeliano, ma è stata resa possibile proprio dal suo aver fatto i conti con le filosofie post-hegeliane che trovano la loro espressione nelle categorie dell’Opera-Finito e dell’Azione. Questa possibile critica non va considerata come un ritorno alla “verità” dell’opera di Weil, in qualche modo tradita da Valentini, ma, a sua volta, come lettura produttiva della Logique de la Philosophie resa possibile proprio da questa interpretazione. Certo, in questo Valentini ha indubbiamente ragione, Weil si pone come un continuatore dell’opera hegeliana, anche se diremmo noi non come un interprete passivo. Se una parte importante della filosofia post-aristotelica non è stato altro che un ripensamento produttivo dei risultati raggiunti dallo Stagirita, lo stesso discorso si potrebbe fare per la filosofia post-hegeliana, Weil compreso. Anche se, come nel caso del ripensamento della filosofia aristotelica un ruolo centrale è stato svolto dalla ripresa, oltre che di tematiche post-aristoteliche, di motivi platonici, lo stesso ci sembra valere per la Logique de la philosophie dove la filosofia di Hegel è riconsiderata alla luce e della filosofia post-hegeliana e della filosofia kantiano-fichtiana, nel tentativo più o meno riuscito di una fusione di entrambe.
In conclusione si potrebbe sostenere che Valentini non si rende conto che la sua interpretazione della filosofia hegeliana – che oppone al tentativo di superamento di essa da parte di Weil attraverso l’ulteriore sviluppo della storia della filosofia – non si ponga a sua volta storicamente, riflessivamente, ossia non tenga conto del fatto che quella sua interpretazione radicalmente deteologizzata e omnicomprensiva nel suo storicismo è debitrice proprio degli sviluppi post-hegeliani tanto della storia che della filosofia. Dunque la critica a Weil non avrebbe senso se posta dal punto di vista necessariamente dogmatico dell’hegelismo, ma solo dal punto di vista dei debiti, non adeguatamente riconosciuti, della categoria del Senso nei confronti di Hegel.
Nota:
[1] Francesco Valentini, Soluzioni hegeliane, Guerini e associati, Napoli 2001, p. 313. D’ora in avanti inseriremo direttamente nel testo, in parentesi tonda, il rinvio alla pagina di questo testo da cui la citazione è desunta.