Oro verde - C'era una volta in Colombia di Cristina Gallego e Ciro Guerra, Colombia e Danimarca 2018, voto: 6,5; il film vorrebbe offrire uno sguardo realistico sul tragico passaggio di tribù di nativi colombiani da una visione del mondo mitologico-religiosa alla spietata dinamica del capitalismo, ma scade spesso nel naturalismo e non è in grado di individuare la necessaria catarsi.
Parasite di Bong Joon-ho, Corea del sud 2019, voto: 6,5; certamente sopravvalutato dalla critica internazionale (palma d’oro quale miglior film al Festival di Cannes e ben sei candidature ai più significativi Premi Oscar [miglior film, miglior regia, miglior film straniero etc.], cosa davvero inconsueta per un film non statunitense, 3 candidature e premio come miglior film straniero ai Golden Globes, 4 candidature a BAFTA, 7 candidature e vinto 2 Critics Choice Award, etc.), anche per questo Parasite è alquanto deludente. A tratti sembra una ripresa di Miseria e nobiltà, anche se la conclusione trascende nello splatter per denunciare la “cattiveria” dei poveri e la guerra fratricida allo scopo di poter vivere al servizio dei signori. Il conflitto sociale è naturalmente distorto dalla contrapposizione fra alta borghesia e sottoproletariato e così il film resta senza catarsi, privo di una prospettiva, tanto da apparire conservatore come una commedia.
The Front Runner - Il vizio del potere di Jason Reitman, Usa 2018, voto: 6,5; discreto film di denuncia del condizionamento dei media e della CIA sulla politica statunitense e sulle drammatiche conseguenze dell’egemonia in quel Paese del puritanesimo più ipocrita.
Che fine ha fatto Bernadette di Richard Linklater, Usa 2019, voto: 6,5; discreto film che scava a fondo nei rapporti familiari e critica la profonda ipocrisia della società americana, con una protagonista d’eccezione: Cate Blanchett. Peccato che il film non collochi adeguatamente la vicenda nel contesto storico e sociale, se non per una polemica – che rimane sostanzialmente generica e superficiale – contro gli aspetti più grossolani della società a stelle e strisce.
Good bye, Lenin! di Wolfgang Becker, Germania 2003, voto 6,5; interessante e godibile film sulla tragica fine della Repubblica democratica tedesca. In generale il film è ambivalente, con momenti denigratori ideologici anticomunisti e momenti commoventi, come in particolare la scena finale con il meraviglioso inno nazionale di Hans Eisler.
Martin Eden, di Pietro Marcello, Italia 2019, voto: 6,5; notevole film dal punto di vista formale – presumibilmente il migliore fra i film italiani di quest’anno – alquanto discutibile dal punto di vista del contenuto. Contraddizione tipica delle giovani generazioni di cineasti italiani cinefili, ultra specializzati nel proprio campo, ma non adeguatamente formati in quasi tutto il resto. Perciò finiscono per ripetere, in modo sostanzialmente pedissequo, l’ideologia dominante, senza nemmeno esserne pienamente consapevoli. Così il senso che lo scrittore, sotto certi aspetti rivoluzionario, J. London aveva voluto dare al suo romanzo – senza riuscirvi in pieno, per la verità – non è certamente trasmesso dal film. In effetti il personaggio principale – che per London e anche per il regista sarebbe dovuto essere un prodotto esemplare dell’individualismo reazionario nietzschiano, da conoscere per poterlo criticare – finisce per apparire, sotto certi aspetti, allo spettatore quasi come un eroe con cui impersonarsi e da emulare. Ora, se è vero che tale ambiguità era presente già nel libro e dipende dalla stessa contraddittorietà dello scrittore legato sentimentalmente ai subalterni, ma pesantemente condizionato dall’ideologia dominante, tali limiti storici si riproducono tali e quali nel film. A tale scopo sarebbe stato assolutamente necessario utilizzare il brechtiano effetto di straniamento da parte del protagonista, interpretato da Luca Marinelli, il quale contribuisce a rendere ambiguo il film e quasi incomprensibile la tragedia finale, proprio perché mira, a torto, a immedesimarsi con il personaggio e a farci immedesimare anche lo spettatore. In tal modo, la maggioranza del pubblico privo di coscienza di classe finisce per fare propria la grande confusione mentale del protagonista. In tal modo un’opera che avrebbe dovuto essere tanto per l’autore quanto per il regista funzionale alla critica dell’ideologia reazionaria dominante, finisce per contribuire – involontariamente – alla sua parziale diffusione nella maggior parte dell’odierno pubblico, anche perché la stragrande maggioranza dei critici, essendo anche loro ciecamente cinefili, non fanno nulla per chiarire l’equivoco di fondo.
Fosse/Verdon miniserie televisiva statunitense del 2019 in otto episodi, ideata da Steven Levenson e Thomas Kail, voto: 6,5; prodotto essenzialmente culinario, anche se ben condito, dell’industria culturale statunitense, che affronta in modo abbastanza realistico i rapporti dei protagonisti sul piano etico della famiglia e della società civile (ovvero del mondo dello spettacolo) anche se scompare quasi del tutto lo sfruttamento. Purtroppo, come ormai generalmente avviene, la serie pretende di astrarre completamente dal piano della grande storia, dimostrando implicitamente la propria avversione al materialismo storico. Così, ì continui salti temporali del film hanno un valore puramente soggettivistico e perdono qualsiasi rapporto con il mondo economico, sociale, politico e storico. Le puntate successive alla prima riescono a razionalizzare e a rendere decisamente più efficace la costruzione dell’episodio con significativi passaggi temporali, che tendono a mostrare, a ragione, le radici del presente nel passato, più o meno rimosso, anche se resta un passato puramente individuale, del tutto destoricizzato. La serie approfondisce in particolare, in maniera alquanto sofisticata, i rapporti famigliari e parzialmente i rapporti all’interno della società civile, dove emerge lo sfruttamento sessuale delle donne da parte del regista. La serie resta godibile, ma rischia, al solito, con il passare delle puntate di apparire alquanto ripetitiva e scontata. Nella quinta puntata, in particolare, si esce dallo stereotipo della donna che si sacrifica del tutto all’uomo che ama, il quale la sfrutta senza ritegno. Emerge, in effetti, la volontà di affermarsi all’interno della società civile anche della protagonista e questo non farà che contribuire a sfinire completamente il protagonista, sfiancato dai ritmi disumani di lavoro che si autoimpone in una società che tutto sacrifica alla produttività del lavoro, al successo individuale e alla necessità di affermarsi dinanzi a una concorrenza sempre più spietata. Nella puntata conclusiva si afferma sempre più il tema del seduttore, piuttosto ripetitivo, che finisce per porre in secondo piano gli aspetti creativi che hanno reso famoso il protagonista: Bob Fosse.
Joker di Todd Phillips, Usa 2019, voto: 6,5; film ben recitato e valido dal punto di vista formale, ma intollerabile dal punto di vista del contenuto. Più o meno inconsapevolmente rappresenta un’apologia indiretta del modo di produzione capitalistico, anche nella sua fase di putrefazione, di ispirazione nietzschiana, dove una scrittura fascinosa media un contenuto decisamente reazionario. Non a caso premiato – a proposito della miseria dell’acritica dominante, anche nella sinistra radical – come miglior film al festival di Venezia. Premio troppo spesso assegnato al film più radicalmente reazionario. Non stupisce la solita apologia diretta dei nipotini di Nietzsche sull’unico quotidiano che si definisce comunista.
Charlie says di Mary Harron, Usa 2018, voto 6,5; questo interessante e illuminante film andrebbe visto prima di vedere l’ingenuo reazionario film di Tarantino, che nella sua profonda ignoranza di cinefilo, si beve in pieno la strategia della tensione orchestrata dalla setta nazistoide di Manson per criminalizzare il movimento del Sessantotto. Nel film c’è una significativa ricostruzione storica del sessismo, del fondamentalismo cristiano, del razzismo, dell’ideologia nietzschiana di Manson e della sua setta di accoliti, giovanissimi talmente oppressi dalla società e dalle famiglie ultra conformiste e puritane statunitensi da credere di trovare in questa banda di assassini seriali un movimento di liberazione. Interessante anche come la serie di barbari assassini fosse orchestrata e pianificata per incolpare il movimento afroamericano rivoluzionario e scatenare una nuova spaventosa guerra civile razziale.
La gabbianella e il gatto di Enzo d'Alò, animazione, Italia 1998, voto: 6,5; valido prodotto per bambini dal contenuto decisamente avanzato per questo genere di film.
Mademoiselle di Chan-wook Park, Corea del sud 2016, voto: 6,5; film estremamente curato dal punto di vista formale, ma senza scadere mai, come è stato ingiustamente criticato dalla solita idiota critica cinefila, nel calligrafico e tanto meno nel pornografico. Al contrario, la sessualità viene analizzata come strumento di dominio patriarcale dell’uomo verso la donna e come modo di riscatto che consente di unire due donne oppresse, consentendogli di liberarsi dai loro oppressori. Il limite è, al solito, che l’amore romantico interclassista pretende di superare nel modo più semplicistico e, quindi, falso i rapporti di classe. Inoltre il film è romanticamente tutto incentrato sull’amore e considera la dinamica dello sfruttamento quasi esclusivamente nel rapporto fra i generi, lasciando sullo sfondo il conflitto di classe. Così, sebbene vi siano dei vaghi riferimenti all’oppressione coloniale del Giappone sulla Corea e al ruolo dei collaborazionisti, il film riesce piuttosto inefficace nell’allargare lo sguardo dalla contraddizione patriarcale in seno alla famiglia, alla contraddizione di classe in seno alla società civile e al conflitto di classe a livello internazionale fra potenze imperialiste e popoli in lotta per l’autodeterminazione nazionale.
Benvenuti a Marwen di Robert Zemeckis, Usa 2018, voto: 6,5; rappresentazione realistica delle difficoltà che incontra un uomo reale a rielaborare il trauma subito, a opera di belve naziste, mediante una sublimazione artistica.
a giovane età di Jean-Pierre Dardenne e Luc Dardenne, Belgio 2019, voto: 6,5; film che affronta in modo molto discutibile un tema sostanziale, come lo sviluppo nel continente europeo del fondamentalismo religioso. Lanciare l’allarme sulla necessità di contrastare il tentativo di restaurare la visione del mondo mitologico-religiosa è certamente meritevole, ma incentrare tutto sulle colpe degli arabi immigrati in Europa è quantomeno fuorviante, se non criminale. Per altro la nefasta scelta poetica dei registi, assurdamente premiati al festival di Cannes, di girare il film con il solito espediente dei primi piani del protagonista, non fa cogliere gli aspetti universali della vicenda, dalla tragica condizione dei figli degli emigrati del terzo mondo in Europa, ai finanziamenti dei despoti del Golfo alla versione più fondamentalista dell’Islam (in modo particolare intenso proprio in Belgio).
Bangla di Phaim Bhuiyan, Italia 2018, voto: 6,5; piacevole film sul quartiere più multietnico di Roma e su una storia d’amore, che rappresenta anche il superamento delle barriere nazionali, etniche, religiose imposte dall’ideologia dominante. Il film ha il difetto di essere avanzato dal punto di vista della sfera dell’eticità immediata della famiglia, ma di essere qualunquista per quanto concerne le superiori sfere etiche dei rapporti sociali e politici. Si finisce così per far propria la visione dominante, per cui i giovani lavoratori farebbero sostanzialmente bene a disinteressarsi delle grandi questioni sociali e politiche. Non affrontando sul serio le gravi contraddizioni dell’ambiente socio-economico in cui si svolge la storia, il film finisce per offrirci una mera istantanea naturalistica di una realtà sotto diversi aspetti tragica, che andrebbe affrontata con strumenti maggiormente adeguati. Al contrario, volendo far apparire la storia come veristicamente narrata da un protagonista privo di qualsiasi coscienza storica e sociale, si finisce per esaltare la visione della realtà dal punto di vista maggiormente inadeguato a una sua corretta valutazione, ovvero il punto di vista del cameriere.
Rolling Thunder Revue A Bob Dylan Story di Martin Scorsese, documentario Netflix, Usa 2019, voto: 6,5; da un maestro del cinema ci si sarebbe aspettati di più, il documentario è valido più che altro dal punto di vista musicale, visto che la storia è raccontata quasi esclusivamente da musicisti che naturalmente sono i meno indicati a dare un giudizio storico ed estetico su loro stessi. Manca un qualsiasi elemento critico o uno sguardo straniato su questa estrema propaggine della Beat Generation e della dimensione collettivistica del Greenwich Village, appena prima del grande riflusso degli anni ottanta, di cui sono in realtà già presenti quasi tutti gli elementi devastanti. Ciò appare evidente già a partire dai testi delle canzoni, in generale inni al disimpegno, dal nonsense e dai discorsi senza capo né coda dei protagonisti.
Dilili a Parigi di Michel Ocelot, animazione, Francia 2018, voto: 6+; nonostante Dilli a Parigi contenga diversi aspetti funzionali a farne un gran bel film, la pellicola non decolla e finisce per deludere, considerate le aspettative che aveva suscitato. Certo i disegni sono belli e suggestivi e il film prende decisamente posizione contro i pregiudizi razziali e il machismo. Potrebbe essere utile anche da un punto di vista didattico, mostrando tutte le grandi personalità che vivevano a Parigi fra fine la fine del XXI e l’inizio del XX secolo, inserendoci meritoriamente la comunarda e passionaria rivoluzionaria Louise Michel. Il film denuncia anche le connivenze degli apparati di sicurezza di uno Stato imperialista con le forze che si battono contro l’emancipazione del genere umano. D’altra parte, l’aspetto didattico fin troppo sottolineato finisce per esasperare. Anche perché di tutte le grandi personalità che rappresenta finiscono per restare poco più che i nomi, riducendo l’in sé positivo intento didattico a una sorta di manuale delle giovani marmotte. Inoltre Dilli a Parigi finisce con l’essere troppo schematico e semplicistico nella separazione e contrapposizione fra chi si batte per l’emancipazione del genere umano e chi contro. Infine non coglie né mostra minimamente la contraddizione fondamentale, la contraddizione di classe, scadendo in una dichiarata e urtante apologia dell’interclassismo.
The Great Hack - Privacy Violata di Karim Amer e Jehane Noujaim, documentario Netflix, USA, 2019, voto: 6+; per quanto sia molto discutibile per il punto di vista tutto interno alla visione del mondo dominante nel mondo occidentale, questo documentario è comunque importante, in quanto costituisce una prima significativa documentazione di come enormi imprese come Facebook siano non solo in grado di catturare una quantità enorme di informazioni sui milioni di utenti che vi si connettono, ma non esitano a cederli a imprese ancora più spregiudicate, come Cambridge Analitica, che li ha utilizzati per influenzare l’andamento delle campagne elettorali in ogni parte del mondo, generalmente a vantaggio di forze populiste antidemocratiche.
Euforia di Valeria Golino, Italia 2018, voto: 6+; non male per essere un film italiano in questo anno particolarmente oscuro. Euforia evita tanto il grottesco quanto il postmoderno e ha significativi spunti realisti, anche se in un impianto generalmente naturalistico. Fra i candidati ai David avrebbe meritato il premio per la miglior regia, mentre fra i candidati a miglior film lo collocheremo al secondo posto, dopo l’inarrivabile Sulla mia pelle.
Il segreto di una famiglia di Pablo Trapero, Argentina e Francia 2018, voto: 6+; interessante film sui devastanti effetti etico-morali in una famiglia della classe dominante argentina, arricchitasi sfruttando il colpo di Stato militare dell’estrema destra. Peccato che il regista finisca anche lui per sfruttare tale tragedia per realizzare un film morboso e ambiguo, come il lieto fine surreale che propone.
Il gioco delle coppie di Olivier Assayas, Francia 2018, voto: 6+; film interessante quando affronta le problematiche della digitalizzazione, in particolare in riferimento all’editoria e le problematiche anche di ordine etico e morale che solleva. D’altra parte nella prima sezione de Il gioco delle coppie in cui queste questioni prevalgono, il film dal punto di vista formale pare paradossalmente regredire a un mero teatro filmato. Il film, parzialmente, si anima nella seconda parte, anche se diviene decisamente meno interessante, in cui affronta con un tono alla Woody Allen il tema della disgregazione della famiglia borghese, ampiamente preannunciato da Marx ed Engels.
Maigret e il caso Saint-Fiacre di Jean Delannoy, Francia 1958, voto: 6+; discreto giallo che restituisce alcuni contenuti sostanziali di critica sociale del grande Simenon, mentre dal punto di vista formale appare piuttosto convenzionale.
I racconti di parvana - The Breadwinner di Nora Twomey, animazione Canada e Irlanda 2017, voto: 6+; discreto film di animazione, che denuncia efficacemente la persecuzione delle donne da parte del fondamentalismo islamico, in particolare da parte dei Talebani in Afghanistan. Finanziato da Angelina Jolie e realizzato da una regista irlandese sulla base di un romanzo canadese, viene da chiedersi se l’oppressione femminile esista solo nella forma estrema dei Talebani, o non sia presente, anche se in forme diverse, in particolare negli Usa e nella cattolica Irlanda. Per altro anche in Canada, se si parlasse dei nativi, ce ne sarebbero a iosa di storie da raccontare sull’oppressione della donna. Inoltre, il tragico fenomeno dei Talebani è nel film del tutto decontestualizzato dalla storia del paese, di cui si dà una versione semplicistica e di comodo che cancella completamente l’importanza dei comunisti per l’emancipazione della donna anche in questo paese e il ruolo nefasto svolto dai paesi imperialisti e filo-imperialisti, compresi Usa, Canada e Irlanda nell’affermazione del fondamentalismo in Afghanistan e del suo sostegno a livello internazionale attraverso le alleanze con le petromonarchie del Golfo.
Light of my life di Casey Affleck, Usa 2019, voto: 6+; discreto film post-apocalittico che indaga a fondo i rapporto fra padre e figlia, sottolineando in particolare l’importanza di un giusto approccio pedagogico. Resta il problema di questo genere di film, che dà implicitamente per scontato l’impossibilità di risolvere le contraddizioni strutturali di un capitalismo sempre più in crisi con un modo di produzione più razionale e giusto come quello socialista. Per cui si dà per scontato un futuro necessariamente catastrofico, con una crisi generalizzata della civiltà umana.