Figli – regia di G. Bonito, con V. Mastandrea, P. Cortellesi, Italia, 2020. Uscito nelle sale cinematografiche il 23 gennaio, giusto in tempo prima che l’epidemia di Coronavirus ci costringesse tutti a privilegiare l’isolamento casalingo e a sfruttare l’abbonamento a qualche videoteca on line, questa commedia made in Italy è tratta da un originario monologo di Mattia Torre intitolato “I figli ti invecchiano” e, sebbene il rimando alla tematica della genitorialità sia centrale nella pellicola, essa non rinuncia a parlare in maniera scanzonata anche di relazioni affettive e di altre tematiche di natura sociale e attuale. Chiaramente non possiamo certamente dire di essere di fronte a un capolavoro cinematografico né a qualcosa che anche solo lontanamente ci si avvicini tuttavia l’ora e tre quarti circa trascorsa al cinema non è sembrata tempo perso, essendo il film godibile, divertente, ben interpretato e in una certa misura anche in grado di lanciare qualche spunto di riflessione specialmente tra il pubblico meno cinico.
Un plot vero e proprio è pressoché assente, in quanto il film narra le vicissitudini di una coppia alle prese con l’arrivo improvviso di un secondo figlio che, al di là della scontata gioia, viene tuttavia ad aggiungersi, pesando come un macigno, ad una routine quotidiana fatta di intenso lavoro (e di tempo sprecato sui mezzi pubblici per arrivarci), bollette, scadenze, burocrazie, relazioni amicali scandite spesso da rapporti di necessità più che di affetto, incomprensioni e discussioni di coppia, necessità di ricavarsi i propri spazi vitali, ecc. e, non ultima, capacità di far fronte a determinate convenzioni sociali per i futuri genitori.
Questo aspetto risulta particolarmente vincente nel film che non lesina senz’altro nel rappresentare, sempre in maniera divertente e spassosa, riflessioni e stati d’animo che normalmente scompaiono, quando si tratta di figli, nella retorica cui siamo abituati, in modo particolare a cui vengono abituate e relegate le donne. Pertanto normalmente è ancora socialmente sconveniente ammettere che una donna si possa trovare in difficoltà dinanzi all’esperienza della maternità, non reputandola necessariamente il fulcro apicale della propria esistenza e non essendo disposta a rinunciare, in quanto madre, a perseguire la propria realizzazione professionale; così come è ancora socialmente deplorevole il fatto che una madre possa avvertire una sensazione di sollievo e di felicità anche stando lontana, anche solo per l’arco di una sera, dal proprio figlio o dal focolare domestico del quale non deve sentirsi la sola responsabile – nonostante la tendenza degli uomini, abituati socialmente a delegare questo genere di incombenza, a reputarsi addirittura dei supereroi per aver gestito in autonomia parte del lavoro da fare.
Rispetto alla possibilità delle madri e dei padri di sgravarsi di un poco della responsabilità che il dovere stare appresso ad ogni aspetto quotidiano della gestione familiare comporta, il regista opta per una rappresentazione particolarmente surreale dei tentativi fatti dai protagonisti in questo senso, probabilmente al fine di enfatizzare un senso di isolamento nel quale plausibilmente in molti si ritrovano all’interno di una società che vediamo essere sempre meno a misura di welfare. Così i nonni si ribellano attraverso grottesche scenette al loro ruolo di principali sostituti dell’assistenzialismo sociale mancante, le baby-sitter tuttofare e onnipresenti si scoprono dolorosamente essere appannaggio delle poche tasche che se le possono permettere e i pediatri iper-referenziati servono solo a prescrivere onerosissimi rimedi contro le normali problematiche neonatali e a suggerire, con aria di sdegno, ai genitori di procrastinare senz’altro la ripresa del lavoro (o sostituirlo con qualche non meglio precisata “rendita”) in virtù della priorità rappresentata dal benessere psicofisico del bambino troppo frignone. Insomma come ogni aspetto della vita sociale anche quello della gestione della prole è un problema che ha ripercussioni diverse a seconda della classe sociale di appartenenza. E se i protagonisti, pur appartenendo senza dubbio ad un ceto medio piccolo borghese, accusano economicamente ed emotivamente il colpo del secondogenito, figuriamoci come può essere critica la gestione della prole per i ceti popolari più deboli.
L’antidoto allo stress che spingerebbe i protagonisti a lanciarsi senza indugio fuori dalla finestra sembra, pertanto, essere una sana dose di reciproca empatia e capacità di dialogo tra i genitori e una necessaria organizzazione e divisione del lavoro, incentrata sulla libertà di discussione ma unità d’azione.
Il film pur lasciando nello spettatore la speranza che anche le difficoltà più apparentemente insuperabili sono affrontabili, non riesce tuttavia ad uscire dal particolarismo del nucleo familiare e a dare una chiave di svolta universale. Ciò che finisce per trasformarsi esattamente nell’opposto dei propositi degli autori e cioè nell’incutere un senso di profonda paura per l’avvenire sempre più gravato da una barbarie economica incombente dinanzi alla quale non paiono prefigurarsi soluzioni generali al livello sociale e politico. Forzando il paragone si potrebbe a tal proposito citare “l’Onorevole Angelina” con Anna Magnani, film di ben altro spessore, su un tema più generale legato alle condizioni di vita nelle borgate romane, ma che riusciva al contempo a coniugare con grande realismo la critica dell’esistente alla necessità di lottare per la costruzione di un mondo nuovo sviluppando una volontà collettiva.