Da “La cenerentola” a “Il figlio di Saul” a “Una giornata particolare”

Tre modesti tentativi di rilanciare l’acribia critica del materialismo storico nell’analisi di tre opere d’arte tornate alla luce della ribalta.


Da “La cenerentola” a “Il figlio di Saul” a “Una giornata particolare”

Presentiamo tre modesti tentativi di rilanciare l’acribia critica del materialismo storico nell’analisi di tre opere d’arte tornate la scorsa settimana alla luce della ribalta. In primo luogo La Cenerentola di Rossini, riproposta a Roma nel bicentenario della sua prima. In secondo luogo disamineremo criticamente un notevole film finalmente distribuito in Italia dopo i grandi riconoscimenti internazionali. Ci confronteremo, infine, con una delle pellicole più significative del regista Ettore Scola recentemente scomparso.

di Renato Caputo e Rosalinda Renda

La Cenerentola

A duecento anni esatti dalla sua prima, torna a Roma La Cenerentola di Rossini. Dal punto di vista formale l’opera non appare invecchiata, anzi assicura un discreto godimento estetico a un pubblico estremamente variegato e in ciò risiede uno dei suoi aspetti più significativi. Da questo punto di vista nettissima è la distanza dal mondo moderno dove la musica popolare e quella intellettuale tendono sempre più a divergere. Al contrario un’opera come quella di Rossini ha uno statuto veramente nazional-popolare, pur rimanendo godibile anche per i palati più raffinati. Certo non siamo dinanzi a un capolavoro assoluto, spesso l’aspetto popolare e anche “culinario” hanno troppo spazio. Inoltre l’opera di Rossini appare quanto mai programmaticamente manierista, visto che l’autore ricicla disinvoltamente sia dal proprio repertorio che da quello di altri grandi compositori.

D’altra parte l’opera lascia davvero poco da pensare allo spettatore. L’opera bene esemplifica il concetto di “morte dell’arte” nel mondo moderno, ossia l’arte in quest’epoca non ha nemmeno più l’ambizione di rappresentare lo spirito di un’epoca, i suoi contenuti sostanziali, ma mira a divertire e a far evadere lo spettatore in un mondo fantastico dove i sogni divengono realtà. Da questo punto di vista, l’opera si colloca a metà strada fra l’effetto narcotizzante e artificialmente liberatorio della religione e i prodotti della moderna industria culturale. L’opera è espressione del tutto acritica del proprio tempo, della Restaurazione, ed è prodotta e messa in scena in uno dei suoi centri propulsori: lo Stato pontificio dominato dal papa re. Protagonista maschile dell’opera è il principe che si traveste da servo per premiare, sposandola, la donna che meglio incarna i valori etici costituiti, ossia quelli funzionali alla riaffermazione dello spirito della Restaurazione.  

Dunque, il ritorno alla società divisa in caste dell’Ancien regime è trasfigurata grazie alla capacità e volontà del sovrano di riconoscere i reali meriti dei suoi sudditi, anche dei più umili, ben inteso se adempiono in maniera zelante e senza un lamento al proprio ruolo di servizio rimanendo al proprio posto della gerarchia sociale, per quanto questo possa apparire ingiusto, gravoso e assolutamente contrario alla propria vocazione e al proprio merito. Sarà poi il signore che premierà il servo fedele non solo nell’altro mondo, ma già in questo. Tuttavia, la stessa possibilità di ottenere dalla grazia del signore il passaggio a una classe superiore è in realtà realizzabile solo perché la serva è apparentemente tale, e sebbene abbia adempiuto ai propri miserandi compiti con spirito di sopportazione, è in realtà di sangue nobile e buon sangue, non mente.

Dopo troppo opere realizzate mirando solo a risparmiare le risorse da destinare alla cultura, nel disperato tentativo di ovviare con l’intervento pubblico al calo del tasso del profitto privato, abbiamo finalmente assistito al Teatro Costanzi a una messa in scena originale. Non solo, si tratta di una messa in scena pregevole, dove cantanti e orchestra non sfigurano e in cui spiccano i costumi, le luci e la regia di Emma Dante. Questa valente regista riesce a realizzare una messa in scena innovativa aggiungendo un corpo di ballo ai cantanti, consentendo a questi ultimi di fare senza troppe incombenze la propria parte, senza che per questo ne risenta la messa in scena che resta vivace e godibile esteticamente.

Detto questo, la regia non si misura nemmeno con il tentativo di rendere più attuale il contenuto dell’opera, ritenendolo presumibilmente uno sforzo di Sisifo. L’opera infatti sceglie il tono comico, ma ne utilizza solo la forma esterna senza alcuno spirito critico. I personaggi sono delle macchiette e i loro aspetti ridicoli sono quasi del tutto scevri di una significativa critica sociale, al di là di alcuni elementi da critica di costume.

 

Il figlio di Saul

Il film, sebbene si tratti di un’opera prima di un regista ungherese, ha avuto un’eccezionale successo di critica a partire dal Festival di Cannes, dove è stato selezionato in concorso vincendo il Gran Premio speciale della giuria. Ai Golden Globe si è imposto come miglior film straniero e rischia di bissare anche agli Oscar essendo in pole position fra i film nominati a questo ambito premio. La critica mainstream lo ha osannato e, nonostante si tratti di un film privo di star, e di non certo facile fruizione ha avuto anche un soddisfacente successo di pubblico, anche grazie alla sua presentazione a ridosso della giornata della memoria.

Il film è certamente un prodotto di qualità, che lascia molto da pensare allo spettatore, riportando l’attenzione sulla barbarie dei campi di sterminio nazisti. In un’epoca come la nostra in cui troppi intellettuali di “sinistra” esaltano incondizionatamente autori reazionari come Nietzsche o convinti sostenitori del nazismo come Heidegger o Carl Schmitt, è comunque utile un film come questo che denuncia, senza compiacimento, l’abominio di un’ideologia che rifiuta ogni forma di riconoscimento per l’altro, per il diverso, per chi non fa parte della ristretta cerchia dei superuomini. L’assoluto disprezzo e la totale mancanza di pietà verso migliaia di altri uomini di tutti i popoli e le età è il frutto avvelenato di un’ideologia fondata sull’esaltazione della violenza e la critica all’universalismo, alla ragione, alla libertà dell’individuo, all’eguaglianza e alla fratellanza, ossia a quei grandi valori dell’illuminismo e della Rivoluzione francese da sempre messi alla gogna dal pensiero reazionario, oggi purtroppo egemone anche in ampi settori intellettuali di “sinistra”.  

Tuttavia, sono gli stessi pregi formali del film a costituire al contempo i suoi punti deboli dal punto di vista del contenuto. Per quanto possa apparire pregevole e innovativo dal punto di vista formale presentare la terribile realtà dei lager nella prospettiva soggettivistica di un membro del Sonderkommando, ciò impedisce allo spettatore il necessario distacco critico per poter riflettere sulle tragiche azioni che costui è portato a compiere.  

La spaventosa sorte di chi era costretto dai nazisti a fare in loro vece il lavoro sporco nei campi di sterminio, la totale disumanizzazione di questi uomini che, per poter sopravvivere, devono divenire strumenti efficienti e privi di sentimenti di questa micidiale meccanismo di annichilimento dell’umanità, per salvare un modo di produzione ormai superato dalla storia e dalle sue stesse contraddizioni, passa del tutto in secondo piano dinanzi al dramma individuale del protagonista. Si tratta di un dramma, per altro, che appare poco realistico e scarsamente tipico, incentrato com’è tutto nella ricerca di una salvezza individuale attraverso l’adesione incondizionata al rituale tradizionale della religione. Per seguire il quale il protagonista non esita a provocare la morte di chi non lo segue in tale via di fuga del tutto autistica, che lo porta a contribuire al fallimento del coraggioso tentativo di resistere e di ribellarsi al male dei suoi compagni.

Tale agire tanto disumano da sacrificare i vivi al culto di un singolo morto, in mezzo a un numero spaventoso di cadaveri e di persone pronte a essere massacrate, finisce per essere naturalizzato dalla mancanza di qualsiasi effetto di straniamento. Dietro questa scelta pare celarsi un aspetto particolarmente discutibile dell’ideologia dominante, quello di presentare questo terrificante e sistematico sterminio degli Untermensch, ovvero di quelli uomini che non erano riconosciuti come tali dalla “razza” dominante dei signori, come un qualche cosa di sacro, di mistico, come un sacrificio reso in qualche modo necessario dall’imperscrutabile volontà dell’onnipotente. Ciò finisce per cancellare le colpe individuali e di classe, le responsabilità dei collaborazionisti e di chi per sopravvivere qualche in giorno in più si è prestato a fare il lavoro sporco per le belve naziste. Ancora di più porta a considerare vane le azioni al contrario eroiche di chi ha cercato di ribellarsi, di resistere collettivamente, senza cedere alla tentazione di cercare una via di fuga individuale attraverso l’effetto narcotizzante della religione.

 

Una giornata particolare

Concludiamo con alcune riflessioni su questo film generalmente considerato uno dei capolavori del regista Ettore Scola recentemente scomparso. Nel fare ciò eviteremo di cadere nella sindrome del santo subito, per cui qualsiasi personalità di un certo rilievo al momento della morte viene spacciata dall’industria dello spettacolo come un personaggio storico universale. Allo stesso modo, non incenseremo questo regista in modo acritico, come ha fatto spesso anche la “sinistra” radicale considerandolo un uomo di cultura “esemplarmente” comunista. Cercheremo di guardare alla sua certamente importante e interessante opera con spirito critico e costruttivo.

Torniamo comunque a questo noto film, che rivisto oggi a quarant’anni dalla sua realizzazione non ha perso la sua attualità e la sua capacità di dar da pensare allo spettatore. Innanzitutto colpisce per la sua eccezionale efficacia la riproduzione di documenti dell’epoca, a cominciare dal cinegiornale presentato integralmente all’inizio del film, da cui emerge da sola tutta la bassezza crudele, la bestiale ciarlataneria dell’Italia fascista pronta a inneggiare a Hitler in nome dei comuni “ideali”. Basterebbe questo per comprendere in quali tempi oscuri siamo costretti a vivere, un’epoca in cui gli storici possano costruire la propria brillante carriera proprio sul rovescismo storico volto a fare di un ridicolo e sanguinario ducetto un grande statista. 

D’altra parte non può che colpire come già in questo film troviamo quella corrente ideologica che ha portato al centro dell’attenzione la vittima “innocente”, al posto una volta occupato dal resistente, dal partigiano. Tanto più che in questo caso la vittima non è tanto l’esponente delle classi subalterne, che appaiono complici, per quanto in modo subalterno della tirannia nazi-fascista, ma il raffinato intellettuale tradizionale di successo. Costui, sebbene si fosse reso strumento docile, se non complice, del totalitarismo al potere, tanto da prendere la tessera del partito fascista, finisce per essere vergognosamente discriminato e perseguitato per la sua omosessualità. 

Ora è evidente che tale assurda persecuzione dell’omosessuale in quanto diverso è purtroppo ancora oggi attuale e certamente il film è stato coraggioso e importante per aver denunciato tali persecuzioni già nel 1977. Altrettanto evidente è però la parabola che ha portato gli intellettuali da posizioni comuniste, a posizioni democratiche, passaggio obbligato per l’approdo alle attuali posizioni liberali che hanno sostituito completamente il sostegno alla lotta di emancipazione dei ceti sociali subalterni con la lotta, per altro da non trascurare, per i diritti civili.

29/01/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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