Cinque film per non dimenticare la Shoah

Nei giorni della Giornata della memoria sono usciti in Italia cinque film sulla Shoah.


Cinque film per non dimenticare la Shoah

Con esiti diversi The Eichmann Show, Il labirinto del silenzio, Remember, Una volta nella vita, Il figlio di Saul si sono confrontati con il delicatissimo compito di rappresentare la Shoah. Per quanto non si tratti nella maggioranza dei casi di prodotti all’altezza del complicatissimo obiettivo che si erano riproposti, hanno comunque contribuito a tenere alta l’attenzione su questo spaventoso crimine perpetuato da quelle stesse forze nazi-fasciste che oggi, in modo populistico, cercano di riemergere speculando sulla tragedia dell’immigrazione.

di Renato Caputo e Rosalinda Renda

Nei giorni della Giornata della memoria sono usciti in Italia ben cinque film meritevolmente dedicati a tenere alta l’attenzione su questo spaventoso genocidio perpetuato dai nazisti e dai loro tirapiedi fascisti. Se da un lato può sorgere il sospetto che si sia sviluppato un vero e proprio genere, volto a mercificare, sfruttando l’attenzione a esso rivolta dai media in quei giorni, un crimine così spaventoso, dall’altro ricordare e rielaborare le spaventose tragedie del passato resta comunque il modo migliore per evitare di perpetrarne diabolicamente delle analoghe. Come ricordava in celebri versi Bertolt Brecht: Questo mostro stava/ una volta per governare il mondo! / I popoli lo spensero, ma ora non / cantiam vittoria troppo presto/ il grembo da cui nacque è ancora fecondo. Ciò è particolarmente vero proprio oggi in cui il revisionismo rovescista è non solo stato sdoganato, ma sta divenendo in troppi paesi capitalisti mainstream.

Proprio questo è uno dei temi su cui si interroga The Eichmann Show di Paul Andrew Williams (valutazione 7,5), il film meno distribuito, ma certamente più significativo e interessante. Per quanto possa essere discutibile la modalità della cattura di Eichmann, il suo processo e la sua mediatizzazione, come emerge in modo chiaro dallo stesso film tutto ciò ha dato un contributo essenziale a far divenire senso comune la barbarie del nazionalsocialismo. Anzi se oggi l’affrontare tali tematiche può apparire a qualcuno come poco significativo, considerato quanto negli ultimi anni si sia insistito nella denuncia di questo crimine, ciò lo si deve anche a questo storico processo che ha per altro lasciato così tanto da pensare a chi vi ha assistito, dalla Banalità del male di Hannah Arendt fino appunto a The Eichmann Show.

Tanto più che, come appare meritoriamente dal film, costringere il mondo intero, e in primo luogo i paesi capitalisti a prendere atto della barbarie compiuta da questo loro figlio naturale, il nazi-fascismo, dopo che si era fatto di tutto per occultarlo, anche per potersene di nuovo servire in funzione anti comunista e più in generale anti proletaria, non fu affatto facile come oggi potrebbe sembrare. Non solo c’erano i nostalgici sostenitori dell’ancien régime che perfino in Israele, nei giorni del processo, avevano la forza per poter pesantemente intimidire anche chi si stava apprestando a documentare tali crimini. Tanto più che gli stessi magistrati impegnati nel processo erano inizialmente totalmente contrari alla sua documentazione filmica. Non a caso la regia della documentazione del film dovette essere affidata a un regista filocomunista di origini ebraiche finito sulla lista nera e, dunque, impossibilitato a lavorare in questi anni di caccia alle streghe nel suo paese. Del resto anche nella troupe israeliana messa a sua disposizione spiccavano figure di ex deportati o di comunisti.

Del resto è proprio questa regia comunista a impedire il prevalere della mediatizzazione, della mercificazione del processo, a evitare che fosse presentato come un unicum irripetibile, come la punizione di un essere tanto mostruoso e ripugnante da apparire disumano e, dunque, più uno scherzo di natura che il prodotto di un certo contesto storico, sociale, economico, ideologico e politico. Al contrario delle scuse addotte dai servizi israeliani, per cercare di impedire la presenza comunista nella documentazione filmica del processo, che sostenevano che l’odio cieco dei comunisti avrebbe posto a rischio la stessa sopravvivenza fisica dell’imputato, il regista non è affatto animato da odio e rancore personale. Al contrario, come mirabilmente mostrato dal film Hannah Arendt di Margarethe von Trotta del 2012, i veri antifascisti, gli unici interessati a fare realmente il possibile affinché tali spaventosi crimini non si ripetano, furono costretti a battersi eroicamente per far emergere la banalità del male. Anche perché tale produttiva e progressista interpretazione si collocava agli antipodi di quella preponderante nell’ideologia dominante liberale che, come mostrava esemplarmente il campione dell’ideologia liberale Benedetto Croce, mirava al contrario ad assolutizzare e quindi a decontestualizzare e rendere incomprensibile e, dunque unica e imprevedibile, la barbarie nazi-fascista.

I liberali come Croce cercavano di far obliare come fossero stati proprio loro a far crescere e sviluppare il morbo nazi-fascista pensando di poterlo strumentalizzare in chiave anti comunista e anti proletaria, interpretando l’avvento del fascismo come l’invasione degli Hyksos, ossia l’imprevedibile e inspiegabile prorompere dal nulla di un rigurgito di barbarie che rischia di sommergere la civiltà. Al contrario gli autentici anti-fascisti, come il regista protagonista del film, e la stessa Arendt della Banalità del male – non certo quella che esalta il pensiero nazista di Heidegger – mirano proprio a mostrare come persino Eichmann fosse tutt’altro che un mostro, un titano. Si potrebbe dire che lo stesso Eichmann, come già Hitler nel dramma di Brecht La resistibile ascesa di Artuto Hui, sia in realtà, per così dire umano, troppo umano, ossia forse portatore di quel male radicale presente naturalmente in ogni essere umano, considerato da un punto di vista materialistico-scientifico e non idealistico-religioso, che in determinati contesti socio-economici, invece di essere frenato e sottoposto al controllo della ragione, della morale, si scatena proprio per impedire una razionalizzazione dell’esistente che metta in discussione dei privilegi ormai non più giustificabili se non sul piano della violenza.

I limiti di questo meritorio film consistono nell’essere rimasto troppo legato alla cronaca dei fatti, il che non ne favorisce, come evidenziava già Aristotele, una piena comprensione, a cui invece l’autentica opera d’arte dovrebbe mirare. Ciò nonostante resta, indubbiamente, il migliore della serie presentata quest’anno nelle sale italiane.

Altrettanto meritorio, ma non altrettanto bello, è Il labirinto del silenzio di Giulio Ricciarelli (valutazione 7-). Il regista tedesco, di padre italiano, ha il coraggio di denunciare la vera e propria congiura del silenzio ordita nella zona della Germania “liberata” dagli anglo-americani, per non far emergere i crimini del nazismo. Si trattava di una “necessità” storica dovuta non solo e non tanto alla necessità di utilizzare i nostalgici del regime contro la contraddizione principale, i sostenitori del socialismo, ma perché buona parte della classe dominante e dirigente era ampiamente compromessa con i crimini del passato regime.

Da qui le pressioni fortissime che fanno di tutto per impedire, al giovane procuratore di portare sul banco degli imputati gli autori materiali degli spaventosi crimini perpetuati ad Auschwitz. Anche in tal caso pur non mancando le violenze e le intimidazioni dei nostalgici dell’ancien régime, più pesanti e significative sono le pressioni contrarie che vengono dall’alto, dai settori dominanti della classe dirigente e dominante e dagli “alleati” statunitensi. Ancora più difficili da superare sono poi gli ostacoli interiori, dovuti in primis dall’appartenenza a una generazione educata a un’attitudine omertosa nei riguardi del proprio passato, e ancora di più le problematiche della propria appartenenza, in primo luogo sociale e familiare, a quella classe dirigente che si è ampiamente compromessa con il regime nazista.

La cosa per noi più drammatica è come si sia fatto di tutto, in un paese in prima linea in lotta per la difesa della liberal-democrazia contro il fantasma del totalitarismo, per preservare dalla necessaria punizione non solo come è ovvio i mandanti dei crimini, dal momento che sono gli stessi che si ostinano a difendere i propri privilegi a discapito della stessa civiltà umana, ma gli stessi intellettuali che hanno diretto i campi di sterminio, Mengele – “il medico della morte” – in primis, e persino gli esecutori manuali, gli unici alla fine, dopo il clamore della denuncia dei loro crimini nel processo Eichmann, infine “sacrificati”.

Il grande limite del film è che un tema così sostanziale e decisivo per il proprio paese, e più in generale per tutti quei paesi in cui continua a dominare l’imperialismo, sia stato realizzato da un’equipe non all’altezza, troppo abituata a lavorare per quella arma di distrazione di massa che è la televisione.

Dei relativi meriti di film come Remember di Atom Egoyan (valutazione 6+) e Il figlio di Saul di László Nemes Ung (valutazione 5-) abbiamo già distesamente trattato in questo settimanale. Non resta, dunque, come occuparci del film più debole della serie, Una volta nella vita di Marie-Castille Mention-Schaar (valutazione 4,5). Il film pur muovendo da un nobile intento, mostrare come un insegnante non classista e razzista, possa portare anche una classe-ghetto, piena di giovani con enormi problemi psicologici e sociali, possa superare una parte significativa dei proprio limiti svolgendo un lavoro di ricerca collettiva sul tema del genocidio perpetuato nei campi di sterminio.

Purtroppo questa significativa occasione finisce con l’essere del tutto sprecata per la quasi completa incapacità della regista, in primis, a mettere in discussione l’ideologia dominante e i relativi pregiudizi peculiari della sinistra borghese. Il film finisce per essere enormemente appesantito dai luoghi comuni del politically correct, per cui questi spaventosi crimini appartengono a un passato tutto sommato irripetibile e incomparabile con gli spaventosi avvenimenti della storia più recente, di cui i responsabili sono essenzialmente gli altri, ossia i tedeschi nazisti di quella passata generazione. Per cui il compito presente deve limitarsi essenzialmente a ricomprendere i singoli eventi di questo tragico passato a un livello principalmente emotivo, per dare il giusto tributo alla memoria delle vittime innocenti. Le giovani generazioni sono così invitate a immedesimarsi nelle altrettanto giovani e inconsapevoli vittime del nazismo senza però sviluppare adeguatamente lo spirito critico che ne consentirebbe di ricomprendere razionalmente le cause storiche, ideologiche, sociali ed economiche per fare davvero che crimini analoghi non possano ripetersi. Da tale punto di vista la colpa principale del film è di escludere a priori la ricomprensione di questo abisso di nefandezza nella più ampia storia del colonialismo e dell’imperialismo, facendone un unicum destinato a un passato sempre più remoto, che sempre meno potrà richiamare l’attenzione e l’interessa delle giovani generazioni, dal momento che è programmaticamente reso estraneo al proprio mondo storico e sociale e al proprio vissuto.

01/04/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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