“Vede Fantozzi, è semplicemente una questione di intendersi, di terminologia…lei li chiama “padroni”, io “datori di lavoro”…lei li chiama “sfruttatori”, io “benestanti”…lei li chiama “morti di fame” e io “classe meno abbiente”…ma per il resto, io la penso esattamente come lei!”
“Mi scusi, sua santità, ma quindi lei è…comunista?” (tuoni e fulmini).
“Beh, proprio comunista…nno. Vede, io sono un medio progressista!”
Questo è il dialogo, ormai arcinoto, tra Fantozzi e il “mega direttore galattico con la poltrona in pelle umana e l’acquario dove nuotano dipendenti estratti a sorte” nel film del 1975 di Luciano Salce. Lo sventurato ragioniere, contagiato dalla propaganda comunista del collega Folagra, prende coscienza del proprio sfruttamento e dello sfruttamento della intera classe lavoratrice e una mattina, dopo aver scagliato una pietra in segno di protesta ed esasperazione contro le finestre degli uffici, viene condotto “nell’alto dei cieli”, ossia al cospetto del direttore che occupa uno scarno e luminoso ufficio in cima al grattacielo, privo delle leggendarie “cento piante di ficus” ma che ricorda invece una pia cappella.
“Era il Mega Direttore Galattico in persona, colui che nessun impiegato al mondo era mai riuscito soltanto a vedere. Correva anzi voce che non esistesse neppure, che non fosse un uomo, ma solo un'entità astratta”: durante l’ “ascesa” al cospetto del mega direttore, scomodatosi per la prima volta e unicamente di fronte al diffondersi della propaganda comunista tra i dipendenti, Fantozzi ha “una mostruosa allucinazione punitiva: crocefisso in sala mensa!”. Prima di allora, prima che qualcun altro prendesse coscienza dello sfruttamento reale e s’incazzasse al punto da unirsi alla “lotta” (“è a monte che dobbiamo distruggere!” dice Folagra), Folagra, chi era stato? Un solitario dipendente, isolato dai colleghi, dall’aspetto di vecchio garibaldino ottocentesco e dal linguaggio fitto, amareggiato e incomprensibile. Fantozzi si isola da quando viene in contatto con lui, si dedica ad un periodo solitario e febbrile di “letture maledette” e poi (“ma allora mi hanno sempre preso per il culo!”) concepisce una rivolta tanto individuale quanto inutile: il lancio della suddetta pietra verso le finestre degli uffici, nel fuggi-fuggi generale degli altri colleghi che lo lasciano solo dinnanzi al suo destino.
Una volta al cospetto del mega direttore (che, mano a mano che la soggezione monta Fantozzi chiama in modo diverso attraverso un esilarante climax ascendente: “conte”, “duca”, “altezza”, “sire”, “maestà”, “santità”, “onnipotente”) Fantozzi viene fatto accomodare proprio sul “trono in pelle umana” del direttore che gli offre i simboli eucaristici (“acqua, un tozzo di pane?”), preparandosi ad attuare una vera e propria comunione tra il ribelle Fantozzi, che dovrà tornare fedele all’ovile, e il Redentore, il mega direttore galattico stesso. In fondo, “che differenza c’è tra me e lei, Fantozzi?”. E qui segue il dialogo riportato in apertura.
Proseguendo nel confronto, il linguaggio accomodante, pacato, distensivo del direttore, contagia Fantozzi che, sempre più rabbonito e ammirato, domanda proprio a sua maestà cosa fare di fronte alle giuste rivendicazioni dei più deboli e alle ingiustizie da sanare. Da questo momento in avanti ogni singolo gesto ed espressione scelta del montaggio della scena diviene potentemente evocativa e illuminante: una volta data l’impressione di eguaglianza e di equidistanza tra i due contendenti, il mega direttore con un gesto garbato ma deciso scalza Fantozzi dal trono, ristabilendo l’ordine gerarchico, pregandolo di accomodarsi sull’inginocchiatoio; nel frattempo “sua santità” parla di uomini di buona volontà, di conciliazione, di “civili e democratiche riunioni” all’interno delle quali far confluire i dissidi di modo che vengano discussi e risolti dalle controparti.
Una maestria ineguagliata nel mostrare come, a quarant’anni di distanza, sia identico il tentativo di confonderci attraverso l’utilizzo di termini che camuffano la realtà, rendendo più difficile distinguerla dalla finzione, attingendo a concetti sempre più politically correct (no a sfruttatori, poveri e conflitto, sì a datori di lavoro, classe meno abbiente e confronti), sempre più fumosi e incomprensibili (cosa sarebbe un “medio progressista”?), meglio se importati dalla lingue straniere. Non solo. Inalterato è anche il metodo scelto per eliminare il dissenso, sia ridicolizzandolo e umiliandolo che ricorrendo all’uso della forza (come avverrà sempre più grazie alla Legge Minniti). Oggi più di allora i padroni si camuffano da santoni, benefattori senza eguali, tolleranti, illuminati e magnanimi sovrani che nella migliore delle ipotesi sbeffeggiano e prendono in giro chi osa levargli una voce contro. Come fa, per esempio, Oscar Farinetti quando vede la propria ipocrisia e arroganza annientata in diretta televisiva dalle acute e puntuali osservazioni della lavoratrice che aveva di fronte che, a differenza del signor padrone, conosce realmente le dinamiche del lavoro e della società in cui vive perché laggiù, in basso, lontano dagli uffici ben arredati dei “direttori”, si sperimentano sulla propria pelle le contraddizioni, i sacrifici, le assurdità e la violenza che ci impongono.
La pacificazione come diktat sociale, quella di cui parla il mega direttore galattico mentre, però, il lavoratore gli si genuflette davanti, non è forse il mantra che serpeggia da decenni, inculcando indisturbato l’idea che chi non china la testa sia un pazzo sprovveduto, chi si organizza e partecipa alla vita politica del paese sia nella migliore delle ipotesi uguale agli altri e nella peggiore un tragico reperto storico anacronistico (“il socialismo? un’idea utopica, anacronistica e fallita!”)? Non è forse colpa di questa pacificazione sociale (questa, sì, un’utopia!) se i lavoratori subiscono impotenti da un giorno all’altro licenziamenti di massa (Almaviva ricorda nulla?) o trasferimenti da un capo all’altro d’Italia (come accaduto a SKY), lo smantellamento progressivo ma inesorabile di diritti e tutele, sino ad arrivare a minacciare pesantemente il diritto di sciopero con la complicità di sindacati che definire gialli sarebbe addirittura eufemistico (Yellow is the new Red, non lo sapete?)?
E come non citare l’apoteosi dell’assurdo, ossia quella “Rivoluzione gentile dei cittadini” [1] elaborata esattamente con questa terminologia (e i termini, ci insegna il Mega direttore galattico, sono importanti per intendersi) dal Movimento 5 stelle di Beppe Grillo che viene dipinta come una occasione storica per l’Italia? Come se decenni di gentilezza da parte dei lavoratori - perché questo siamo prima di tutto, e non “cittadini”, dal momento in cui non otteniamo alcuna protezione né tutela attraverso tale status, ma solamente oneri e sacrifici – non fossero sufficienti per ritrovarci con un pugno di mosche in mano e le tasche sempre più vuote, sempre più arrabbiati gli uno contro gli altri (meglio, poi, se gli “altri” sono di colore, migranti, stranieri: dov’è la tanto ricercata pacificazione e gentilezza, su questo punto?) e sempre più incapaci, isolati e impotenti: cornuti e mazziati, come si suol dire. Esattamente come il noto ragioniere Fantozzi che, a forza di sottomissione e frustrazione, si ritrova a nuotare come fosse una triglia nell’acquario del direttore, a subire in silenzio l’ilarità dei padroni che paragonano in modo inumano sua figlia ad una scimmia, a fungere da parafulmine umano.
Pacificazione e accordo tra sfruttati e sfruttatori: la più grossa menzogna a cui noi, che non abbiamo più un minuto da perdere se non vogliamo perdere la possibilità di avere un futuro, siamo stati capaci di credere.
“Mi scusi, santità, ma in questo modo ci vorranno almeno…MILLE ANNI!”
“Posso aspettare…IO”.
A qualche giorno di distanza dalla morte di Paolo Villaggio non abbiamo voluto rendere omaggio ad un individuo singolo, anche perché questo avrebbe comportato un’indagine più approfondita sulle numerose ombre, oltre alle luci, che in questa sede ci sembravano passare in secondo piano. Attingendo forse ad una scena tra le più abusate del cinema fantozziano ma che comunque rappresenta una sintesi perfettamente congeniata tra comicità, tragicità e attualità, abbiamo preferito sottolineare ancora una volta quello per cui ci battiamo da tempo. Ossia la necessità di alzarsi da quell’inginocchiatoio, mandare a quel paese il padroncino di turno e tornare in mezzo ai propri compagni che molto probabilmente non sanno ancora di essere tali, affinché la prossima volta quel sampietrino ce lo abbiano in mano tutti, pronti a colpire assieme.
Chissà se Paolo Villaggio sarebbe stato d’accordo a riscrivere così quel finale.
Note
http://www.beppegrillo.it/m/2017/07/per_la_sicilia_una_rivoluzionegentile_dei_cittadini.html