La fine della democrazia moderna e le sue premesse politiche e culturali

La democrazia non è il vertice insuperabile nell’evoluzione della convivenza politica umana, come aveva sostenuto – pensando anzitutto alla sua versione liberale – Francis Fukuyama. E non è nemmeno quella cosa retorica che prendiamo a pretesto o che usiamo come scudo ideologico quando facciamo le guerre in giro per il mondo per esportare la nostra civiltà.


La fine della democrazia moderna e le sue  premesse politiche e culturali

La democrazia non è il vertice insuperabile nell’evoluzione della convivenza politica umana, come aveva sostenuto – pensando anzitutto alla sua versione liberale – Francis Fukuyama. E non è nemmeno quella cosa retorica che prendiamo a pretesto o che usiamo come scudo ideologico quando facciamo le guerre in giro per il mondo per esportare la nostra civiltà. Molto più semplicemente, la democrazia è un regime politico determinato che, come tutte le cose umane, ha un suo decorso storico e può perciò anche tramontare.

di Stefano G. Azzarà

Anzitutto, più che di democrazia tout court sarebbe il caso di parlare di democrazia moderna. Anche altri regimi, infatti, hanno preso questo nome nel corso della storia – penso alle forme di democrazia in regime di produzione schiavista nell’antichità, oppure alla democrazia Herrenvolk presente in alcuni paesi ancora nel corso della seconda metà del Novecento – e tuttavia stenteremmo parecchio oggi a riconoscerci in essi. Democrazia in senso forte, infatti, quella democrazia della quale cominciamo ad avere ormai solo un vago ricordo, è un ordinamento che garantisce non soltanto i diritti politici ma anche quelli economici e sociali. E che implica dunque la presenza di una componente materiale che è costitutiva per la sua stessa definizione. Una democrazia moderna, appunto, nella quale attraverso l’azione politica viene rotto ogni presunto ordine naturale e tende a compiersi quel gigantesco processo di emancipazione consapevole, collettiva e organizzata che costituisce il senso stesso della modernità.
Un processo, tra l’altro, che coincide in larga parte con la stessa aspirazione alla costruzione del genere umano (il che significa, ad esempio, che in nessun modo può essere considerato democratico un paeseche ne opprima un altro).

Questo tipo di regime nasce e cresce a partire da condizioni storiche determinate. Esso è possibile, cioè, soltanto quando i rapporti di forza tra le classi sociali non sono eccessivamente squilibrati, quando non c’è una classe che prevalga in maniera arbitraria sulle altre. E’ evidente, in questo senso – e per prevenire le legittime accuse “da sinistra” che possono arrivare a questa impostazione -, che la democrazia non coincide affatto con il socialismo: persistono infatti al suo interno, e in forma strutturale, classi dominanti e classi subalterne. Tuttavia, nel corso del tempo e rispetto all’avvio della società capitalistica, i rapporti tra queste classi si sono evoluti in maniera tale da colmare squilibri che in partenza erano intollerabili, modificando in profondità anche la funzione dello Stato. Il quale, a questo punto, non può più essere identificato come il comitato d’affari dei gruppi dominanti ma è stato in parte espugnato e viene costretto a svolgere, per quanto in maniera contraddittoria, una funzione universale di regolazione.

Sotto questo aspetto, la storia della democrazia è la storia dell’incessante conflitto politico sociale che tiene in piedi le società umane e le muove in avanti. Ed è, in particolare, la storia delle lotte condotte dalle classi subalterne per ottenere il riconoscimento della propria dignità e imporre un certo livello di redistribuzione sia della ricchezza materiale ed immateriale che del potere. Di conseguenza, essa anzitutto è la storia di quel faticoso processo attraverso il quale una moltitudine di soggetti all’inizio dispersi, debolissimi e in competizione tra loro sono riusciti a riconoscersi gli uni negli altri, a riconoscere come comuni i propri interessi e bisogni e in seguito ad unirsi, al fine di accumulare le forze necessarie per difendersi e contrattaccare nell’ambito di questo conflitto. Di quest’ultimo, perciò, la democrazia è la formalizzazione nell’epoca della società di massa capitalistica. Nata anche per prevenire la rivoluzione, della rivoluzione essa è però figlia. E della rivoluzione conserva molti caratteri che possono aprirla a evoluzioni ulteriori.

Ne consegue che la democrazia moderna sussiste fino a quando sussistono le condizioni che la rendono possibile, condizioni che sono oggi in via di rapido deperimento e sotto certi aspetti non sussistono più. Possiamo perciò dire che la democrazia nella sua forma moderna si è sostanzialmente esaurita, mentre prende corpo un nuovo tipo di regime politico che ne conserva formalmente l’aspetto ma che ne rappresenta in realtà la degenerazione nell’esatto contrario. Va affermandosi, cioè, la reincarnazione postmoderna di quel contromodello bonapartistico che ha conteso alla democrazia il campo della sfera politica sin dalla metà del XIX secolo. Nulla sembra cambiare in superficie ma nella profondità della vita delle società e dei loro assetti politici tutto è in realtà già mutato.

Le trasformazioni politiche degli ultimi anni sono sotto questo aspetto soltanto l’estrema conseguenza di trasformazioni che vengono da molto più lontano. Come è stato più volte studiato, sin dagli anni Settanta, mutamenti imponenti sul terreno della produzione hanno sconvolto le nostre società minando le basi stesse della democrazia. Pensiamo ai processi di scomposizione del ciclo produttivo, di esternalizzazione, delocalizzazione, precarizzazione del lavoro: cosa significa tutto questo se non dividere ciò che era stato unito e che cos’è tutto questo se non una forma di lotta di classe condotta dall’alto verso il basso? Esattamente la stessa cosa bisogna dire a proposito dei processi che hanno modificato la fenomenologia della politica, dalla crisi dei partiti di massa alla deformazione maggioritaria della legge elettorale alla spettacolarizzazione del consenso. Anche in questo caso siamo in presenza di un’offensiva politica massiccia che proviene esclusivamente dalla parte delle classi dominanti e che distrugge le forme di aggregazione e di rappresentanza delle classi subalterne.

I mutamenti nei quali siamo tuttora immersi non sono avvenuti perciò per caso ma sono la conseguenza dell’andamento del conflitto politico-sociale. Di un conflitto che ha visto sino agli anni Settanta un movimento di ascesa delle classi lavoratrici ma che, da un certo momento in poi, si è invertito nel suo andamento, sino a straripare in un’aperta controffensiva delle classi dominanti.
Proprio quando in Occidente le classi lavoratrici raggiungevano l’acmé della propria crescita politica – non senza rapporti contraddittori con una ben diversa situazione del proletariato internazionale, va detto – la democrazia cominciava a diventare un peso politico ed economico intollerabile per le classi dirigenti. Le quali iniziavano quella controffensiva che le avrebbe riportate a ripristinare rapporti di forza ottocenteschi e a riprendersi con gli interessi tutto quello che erano state costrette a cedere nel ciclo precedente.

Non è stato affatto Berlusconi l’interprete privilegiato della crisi della democrazia in Italia. Dopo gli anni del decisionismo ruspante di Craxi, è stata infatti ancora la sinistra storica a operare quelle scelte che si sono rivelate decisive per le sorti del nostro ordinamento politico (pensiamo a Maastricht, agli accordi sulla concertazione, alla legalizzazione de facto del lavoro nero chiamata flessibilità, alle privatizzazioni, all’abbassamento sistematico del costo del lavoro, allo smantellamento del Welfare, ecc. ecc.). In effetti, per una curiosa ironia della storia, a gestire la fase storica che ha dato avvio in Italia alla restaurazione di rapporti di forza regressivi è stata proprio la parte politica erede del Pci. Alla caduta del Muro di Berlino questo partito era già profondamente corroso e mutato ovvero era già esso stesso il terreno di una lotta di classe che andava decidendosi a favore degli interessi dominanti. Tuttavia, al di là dello spettacolo di facciata, i settori più avvertiti del suo gruppo dirigente, così come della Cgil, non potevano non rendersi conto della natura regressiva dei processi che si erano messi in moto. E hanno cercato di porsi alla loro guida, al fine di evitare guai maggiori, nell’ottica di una riduzione del danno possibile. In cambio di un ruolo di direzione hanno perciò assecondato e sollecitato il venir meno della capacità di risposta popolare nel conflitto di classe. Pretendendo in tal modo di governare, tramite una serie di compromessi, spinte che erano in realtà molto più forti di loro e che alla lunga dovevano travolgerli, determinando una ulteriore mutazione strategica di tutta la sinistra (la sinistra “radicale” segue a ruota perché non ha mai avuto nel nostro paese nessuna autonomia e le sue scelte sono sempre state tutte subalterne a quelle di quel centrosinistra nel quale si collocava strutturalmente nell’ambito del sistema maggioritario bipolare).

Alla prova della storia, perciò, il gruppo dirigente ex Pci fallisce, dimostrando una sorprendente incapacità di analisi dei processi che è conseguenza della profonda lacuna culturale lasciata dalla dissoluzione del marxismo italian. Sul piano culturale, le responsabilità della sinistra – quella legata al Pci come quella legata al ciclo 1968-’77 – sono non meno gravi, però, anche sotto un altro aspetto.

Com’è possibile che agli inizi degli anni Ottanta Marx cominci ad essere percepito come un autore oggettivamente di destra, ispiratore del gulag e della sopraffazione dell’individualità, mentre Nietzsche diventa il filosofo anarco-libertario della liberazione della creatività e del “simbolico”? Le trasformazioni che hanno indebolito la democrazia moderna su un terreno oggettivo, in realtà, nulla avrebbero potuto senza una trasformazione parallela non meno importante di natura ideologica. Senza cioè un mutamento profondo delle forme di coscienza diffuse, del modo di percepire e interpretare la realtà. E’ la svolta postmoderna, che dalla metà degli anni Settanta ha modificato definitivamente il senso comune nel nostro come in tutti i paesi occidentali. E che matura, a partire da un bilancio nettamente negativo della storia del Novecento e di conseguenza di tutta la modernità, anzitutto presso le avanguardie ideologiche della sinistra sessantottina.

La contestazione dell’idea di progresso - le Grandi Narrazioni denunciate da Lyotard - è però in realtà la contestazione della politica come possibilità di trasformare il mondo in meglio, secondo un progetto razionale, e di farlo in favore di tutti gli uomini e di tutte le donne, secondo una prospettiva universalistica. La contestazione della ragione è la negazione della comune umanità, così come la delegittimazione della dialettica in favore delle “differenze” soppianta ogni tensione cooperativa rovesciandola nell’individualismo competitivo più brutale. Anche la destrutturazione del soggetto trascendentale, che tanta parte ha nella filosofia contemporanea, ha come conseguenza un’esplosione delle identità che si ripercuote in particolar modo su quelle identità che sono oggettivamente più deboli ed esposte, ovvero quelle delle classi subalterne. Che dire poi di quell’egemonia dell’ermeneutica che ha finito paradossalmente per ri-naturalizzare le gerarchie politiche e sociali vigenti?

Pur con le migliori intenzioni, pur riflettendo una diffusione generalizzata del benessere sociale che ha moltiplicato bisogni e desideri, la contestazione dei grandi collettivi in favore della libertà individuale veniva a cadere nel momento preciso in cui la fase si invertiva e cominciava una gigantesca rivoluzione passiva. Al suo interno, quella stagione veniva perciò inevitabilmente riassorbita e resa funzionale. Così che oggi è proprio in nome dei diritti individuali e della “fantasia al potere” che la democrazia moderna può essere smantellata. Portando alle estreme conseguenze una tragedia che ci riconsegna tuttavia un compito non diverso da quello che altri, prima di noi - e in condizioni certamente più difficili - hanno dovuto affrontare: oggi come ieri, riconoscere la realtà nelle sue tendenze strategiche, unire ciò che è (stato) diviso, accumulare le forze, capire infine come impiegarle per tenere vivo il conflitto.

22/11/2014 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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