Marx non è contrario allo stato di diritto in quanto tale, come qualche liberale vorrebbe dare a intendere, mentre, come nota Eustache Kouvélakis, “si rimprovera a Marx, giustamente (..) – ma lo si potrebbe rimproverare anche a Spinoza o a Hegel – di non accettare l’idea di un diritto originario, fondativo. Un diritto che pretenderebbe di porsi in un rapporto di incancellabile esteriorità rispetto al potere, come limite esterno alla sua azione” [1], ovvero i liberali rimproverano a Marx la sua critica al giusnaturalismo che è alla base della loro visione del mondo. In modo analogo nelle riflessioni di Marx è rinvenibile una costante critica all’ideologia sottostante la concezione borghese dei “diritti umani” in quanto occulta, in un idealismo universalista, il loro reale fondamento: la società borghese con il suo portato d’individualismo concorrenziale, di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, di dualismo fra Stato e società civile. L’idealismo dell’universalismo politico finisce con l’eclissare le contraddizioni della società civile, che dominano lo Stato modellandolo secondo le proprie esigenze. Perciò, come ha osservato a ragione Bernard Bourgeois, “la negazione comunista dei ‘Diritti dell’uomo’ definisce il suo significato assoluto quale unità della negazione pensata (la critica del filosofo) e della negazione reale (la critica del proletariato) di tali ‘Diritti’, unità di cui L’ideologia tedesca elabora il significato concreto mediante la sua teoria dell’origine, del senso e del destino delle ideologie, di cui i ‘Diritti dell’uomo’ sono l’esempio moderno più significativo” [2]. Ha, dunque, perfettamente ragione Friedrich Engels a ritenere che la visione giuridica del mondo è da considerarsi come una considerazione tipicamente borghese; questa ideologia giuridicaha ampie conseguenze tanto sulla struttura complessiva del processo di riproduzione capitalistico, quanto sulla prassi politica. Perciò, Marx critica il fatto che nella concezione borghese: “la norma giuridica si identifica […] con un formalismo procedurale che occulta il carattere politico del diritto e raddoppia la frattura fra la politica e l’economia” [3]. Così, la debolezza della classe dei lavoratori salariati di fronte alla classe capitalistica, dovuta all’assoluta mancanza di controllo sulle condizioni della produzione e alla concorrenza interna fra proletari, è ulteriormente potenziata dalla soggettivizzazione e dall’isolamento favoriti dalla concezione del diritto imperante nella società capitalistica. Il diritto borghese sancisce, in effetti, la reciproca indifferenza e intangibilità delle sfere particolari e differenti dei patrimoni privati. “La comunità, dunque, che riesce concepibile alla tradizione giusnaturalistica è soltanto la comunità statuale o giuridica, lo Stato che, legalizzando i rapporti tra i privati – presupposti come tali – secondo una legge comune a tutti, rende possibile la convivenza: ma si tratta di una convivenza di privati che vengono in realtà eguagliati soltanto nel senso che si definiscono i confini delle singole sfere private” [4].
Lo stesso diritto all’eguaglianza giuridica, garantita dai diritti di cittadinanza, è in realtà funzionale a mantenere le distinzioni e i privilegi reali presenti nella società civile. L’eguaglianza è giuridicamente legittimata solo quale salvaguardia della libertà diseguale, in quanto fondata su differenti patrimoni, della società civile. La libertà del singolo, antagonisticamente considerata in relazione all’altro in particolare e alla comunità in generale, corrisponde all’arbitrio di godere del proprio patrimonio privato. L’eguaglianza giuridica è funzionale a tale libertà astratta e arbitraria, alla conservazione del privilegio sociale, mediante il suo occultamento dietro la possibilità solo astratta che tutti hanno di godere della libertà-privilegio garantita dalla proprietà privata. Conseguenza di tutto ciò è che la stessa struttura dello Stato borghese “non può essere concepita che come una struttura sussidiaria rispetto alla felicità privata, e quindi come una sfera in cui la eguaglianza è possibile soltanto in quanto garantisca il ritorno alla sfera della libertà-diseguaglianza” [5], ossia alla sfera della società civile. Come osserva, in effetti, a questo proposito Immanuel Kant: “questa generale uguaglianza degli uomini come sudditi di uno Stato può perfettamente coesistere con la massima disuguaglianza nella qualità e nel grado del loro possesso, sia che si tratti di superiorità fisica o spirituale degli uni rispetto agli altri, sia che si tratti di disuguaglianza esteriore di beni di fortuna e in generale dei diritti (e possono essere molti) degli uni in rapporto agli altri” [6].
Al contrario, per Marx l’eguaglianza rappresenta “la coscienza che l’uomo ha di se stesso nell’elemento della prassi, cioè la coscienza che l’uomo ha dell’altro uomo in quanto un essere eguale a lui, ed è il comportamento dell’uomo verso un altro uomo come verso un essere eguale” [7]. L’eguaglianza costituisce, dunque, per Marx la prima sanzione storica dell’“unità essenziale degli uomini, la coscienza generica ed il comportamento generico dell’uomo” [8]. Perciò, come osserva a ragione Umberto Cerroni: “Marx, cioè, vede nel concetto di eguaglianza come formulato nella teoria liberale un concetto che non acquista alcuna autonomia, riducendosi ad essere una mera funzione del concetto di libertà individuale: la parificazione della libertà di tutti uti singuli, come privati individui, una parificazione, pertanto, che non è realmente tale risolvendosi nell’eguale trattamento delle sfere private o presociali prese fuori dal rapporto sociale reale, e quindi presupponendo come dato (naturale) appunto quel rapporto sociale determinato, storico” [9]. Queste osservazioni di Cerroni sono di grande importanza in quanto smentiscono la concezione riformista e revisionista secondo la quale il socialismo non dovrebbe far altro che ampliare e assicurare a tutti i diritti umani nella tradizionale accezione (borghese). In effetti Cerroni mette, a ragione, in evidenza che nella formulazione borgese il diritto alla libertà dell’uomo (ovvero del borghese) sottoponga a sé l’eguaglianza civile del cittadino, il diritto di cittadinanza. “L’eguaglianza, così intesa, non può fuoriuscire, insomma, dalla sfera strettamente pubblica o politico-giuridica: resta concepibile soltanto come eguaglianza di diritti o eguaglianza di libertà. Come dice il Burdeau ‘intesa come corollario della libertà, l’eguaglianza non può nulla contro essa’ [G. Burdeau, Traité de science politique, Paris 1953, p. 526]: non riesce, cioè, a rompere il fondamentale atomismo delle sfere private, di cui resta una astratta (ma funzionale) compensazione politico-giuridica, isonomia che presuppone le differenze reali, che concede soltanto una ‘organizzazione delle possibilità’ (Laski)” [10].
D’altronde si tratta di differenze non accidentali, ma essenziali alla società civile, alla sua struttura fondata sulla divisione della società in due classi sociali: i possessori dei mezzi di produzione e dei mezzi di sussistenza ed un proletariato che per accedervi è necessitato a vendere la propria forza lavoro come merce. Per dirla con Marx, nella società borghese “infine scompare la differenza tra capitalista e proprietario fondiario, così come scompare la differenza tra contadino e operaio di fabbrica, e tutta intera la società deve scindersi nelle due classi dei proprietari e degli operai senza proprietà” [11]. A dominare è, dunque, il duro realismo, il particolarismo imperante nella società civile, è il suo fondamento meramente empirico, immediato: il bisogno pratico dell’individuo egoista e la brama di profitto. A questo proposito osserva Marx: “l’uomo diventa tanto più povero come uomo, ha tanto più bisogno del denaro, per impadronirsi dell’essere ostile, e la potenza del suo denaro sta giusto in proporzione inversa alla massa della produzione; in altre parole, la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta la potenza del denaro. Perciò il bisogno del denaro è il vero bisogno prodotto dall’economia politica, il solo bisogno che essa produce” [12].
Il fondamento astratto, lo Stato politico pare determinare il reale, la società civile, mentre in realtà ne è determinato. Marx parlando della “contraddizione della politica con la potenza del denaro in genere”, osserva: “mentre la prima sta idealmente al di sopra della seconda, di fatto ne è divenuta la serva” [13]. Il mondo moderno è dominato dall’anarchia quale unica legge della società civile; lo stato di diritto, lo Stato politico non sono altro che, sottolinea Marx, “la garanzia di questa anarchia”. Tanto appaiono opposti, “altrettanto si condizionano reciprocamente”. Perciò, Marx, ne conclude che “l’anarchia è la legge della società civile emancipata dai privilegi di casta, e l’anarchia della società civile è il fondamento della situazione pubblica moderna, così come, a sua volta, la situazione pubblica è, dal canto suo, la garanzia di questa anarchia. Tanto sono opposte, altrettanto si condizionano reciprocamente” [14].
Allo stesso modo i diritti di cittadinanza che paiono trascendere i diritti naturali dell’individuo, proprio perché li considerano naturali, un presupposto non ulteriormente risalibile, ne sono in realtà surdeterminati. I diritti universali alla libertà, eguaglianza e fraternità sono così ricondotti e subordinati a un presupposto implicito assunto acriticamente: l’uomo egoista della società civile, ovvero il proprietario. Così i quattro diritti umani fondamentali della Dichiarazione: “costituiscano lo zoccolo di un diritto originario: un diritto naturale precisamente nel senso in cui sembra direttamente collegato con una certa idea dell’‘uomo’ che ne è il soggetto fondatore. E sulla base di una certa antropologia che forma il presupposto implicito della Dichiarazione e perciò della politica moderna che tale testo istituisce” [15]. Unicamente una visione idealista o ideologica può ritenere che sia lo Stato a mantenere unita l’atomizzata società civile, mentre è l’interesse egoistico a tenere unito lo Stato politico. Gli interessi particolari della borghesia rivoluzionaria giunta al potere si impongono quali condizioni comuni di vita d’una società resasi indipendente dalla politica che, anzi, sempre più conforma sulla base dei propri scopi economici.
Note
[1] Eustache Kouvélakis, Critica della cittadinanza; Marx e la “Questione ebraica”, tr. it. di N. Augeri, in “Marxismo Oggi” 1, Milano 2005, p. 52-53.
[2] Bernard Bourgeois, Philosophie et droits de l'homme: de Kant à Marx, éditions PUF, Parigi 1990, p. 112.
[3] E. Kouvélakis, op. cit., p. 54.
[4] Umberto Cerroni, Marx e il diritto moderno, Editori Riuniti, Roma 1962, pp. 205-06.
[5] U. Cerroni, op. cit., p. 206.
[6] Immanuel Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino 1956, p. 256.
[7] Karl Marx e Friedrich Engels, La sacra famiglia [1845], traduzione italiana di A. Zanardo, Editori riuniti, Roma 1967, p. 47.
[8] Ibidem.
[9] U. Cerroni, op. cit., p. 220.
[10] Ivi: p. 222.
[11] K. Marx, Manoscritti economico filosofici del 1844, a cura di Norberto Bobbio, Giulio Einaudi editore, Torino 1968, p. 69.
[12] Ivi, p. 127.
[13] Bruno Bauer, K. Marx, La questione ebraica, tr. it. di M. Tomba, Manifestolibri, Roma 2004, p. 203.
[14] K. Marx e F. Engels, op. cit., p. 153.
[15] E. Kouvélakis, op. cit., p. 58.