Il teatro epico

In seguito all’approdo al marxismo Brecht procede a una radicale revisione della propria posizione sull’arte, maturata intorno alla metà degli anni venti


Il teatro epico Credits: https://www.news-24.it/lattualita-di-brecht-in-questo-nuovo-anno-tra-speranze-ed-illusioni/

In seguito all’approdo al marxismo Bertolt Brecht poté procedere a una radicale revisione della propria posizione sull’arte maturata intorno alla metà degli anni venti. L’approfondimento in senso critico del marxismo gli aveva permesso, in effetti, di considerare – l’ingenua presunzione “neogettivista” di poter comprendere e rappresentare la realtà attraverso una riproduzione documentaria “scientificamente esatta” – una vana tentazione metafisica, una resa di fronte alla crisi. Pur nella sua oggettiva dipendenza dal piano dell’apparenza, la realtà non gli appare più penetrabile a uno sguardo “ingenuo”, non gli sembra più sufficiente, quindi, la semplice rappresentazione fenomenica di processi visibili esteriormente, né gli appare più possibile limitarsi a una mera documentazione del reale.

 La realtà doveva, al contrario, essere ricostruita per così dire “artificialmente”: affinché divenisse visibile nella sua dipendenza dal piano dell’apparenza era indispensabile l’arte. Detto altrimenti, per rendere comprensibile il reale nella sua pienezza e dipendenza dal piano fenomenico, l’arte deve necessariamente sottoporlo a un complesso processo di ri-costruzione. Brecht è ormai divenuto cosciente che la realtà, in effetti, non può più essere considerata come uno stato delle cose di per sé esistente, come una struttura “naturale” in sé fondata, cui la soggettività agente deve cercare continuamente di adeguarsi. Il suo statuto ontologico è garantito solo in quanto dialetticamente rapportato al soggetto che la esperisce, che la “salva”, inserendola nell’orizzonte di senso istituito dall’opera.

 Brecht, dunque, pur criticando ogni tentativo d’occultare le relazioni che imprescindibilmente legano la pratica artistica alla realtà empirica, si è sempre opposto a ogni teoria del “riflesso”. A un realismo ridotto a un ingenuo verismo dalla pretesa di un fedele “rispecchiamento” della realtà egli ha contrapposto l’imprescindibile esigenza dell’arte a organizzarsi in un cosmo in sé ordinato, in grado di rimettere in discussione, nella nuova dimensione veritativa fondata dall’opera, quella scissione che necessariamente intercorre al livello epistemologico fra il piano del concetto e quello dell’oggetto, tra il piano sensibile dell’esperienza e quello universale del linguaggio.

 Allo stesso tempo, però, Brecht ha sempre ritenuto necessario opporre al puro costruttivismo, alla pretesa assoluta autonomia del piano estetico, l’imprescindibile legame che unisce l’arte alla vita, anche nel suo prenderne le distanze, o meglio, proprio nel suo prenderne le distanze. Il momento costruttivo e quello conoscitivo-ricostruttivo devono esser considerati, allora, due imprescindibili momenti dello stesso processo unitario che dà vita all’opera. Questi due momenti si richiamano vicendevolmente, si implicano in linea di principio: l’uno deve necessariamente presupporre l’altro per poter adempiere fino in fondo alla sua funzione specifica.

 Il compito supremo affidato da Brecht all’arte è, allora, quello di manifestare sensibilmente questo gioco di richiami tra i due momenti mostrandolo esemplarmente all’opera. La specificità della rappresentazione artistica, infatti, è data dal duplice compito cui deve necessariamente adempiere, compito analitico e, a un tempo, sintetico. L’arte, pur nella sua imprescindibile autonomia, non può rinunciare alle funzioni analitiche dell’intelletto che gli consentono di separare, di ritagliare nell’infinita e caotica molteplicità del mondo fenomenico una sostanza vitale. A esse dovranno, però, affiancarsi le funzioni sintetiche della ragione, stimolate dall’immaginazione, che permettono di dar forma alla disorganica immediatezza della sostanza vitale e che sole consentono di riunire dinamicamente in una rappresentazione artistica, in qualche modo universale, la costellazione di particolari significativi di cui si nutre l’opera.

 Lo scrittore moderno, però, non può più pretendere di dare forma alla realtà muovendo da una visione del mondo soggettivistica. In questo modo, certo, le singole parti dell’opera troverebbero la loro giustificazione nell’economia del tutto, ma ogni particolare in sé considerato sarebbe completamente privo di relazioni con quella realtà che l’opera aspira, interpretandola, a ri-fondare. È proprio in relazione a questo aspetto ri-costruttivo dell’opera che al particolare è assegnata una funzione al tempo stesso strutturale e veritativa. Per dominare la “demoniaca” complessità della nuova sostanza – senza limitarsi più all’asettica descrizione di processi e situazioni – i particolari devono assurgere al ruolo di modelli chiarificatori di quel reale, che può essere restituito in tutta la sua dinamicità, che può divenire dominabile, pur nella sua inarrestabile metamorfosi, solo se guardato attraverso questi modelli. Il particolare, allo stesso modo, non deve essere considerato come semplicemente rappresentativo, come un testimome-ostaggio della totalità dell’opera, ma come il modello indispensabile alla sua intelligibilità.

 Brecht ha, inoltre, messo in evidenza l’esigenza di rivalutare l’allegoria che – per la sua non-trasferibilità, per il risoluto porsi per sé, per il rifiuto opposto a ogni decodificazione che pretenda di risolverla senza curarsi dell’ineliminabile evidenza della sua presenza – si oppone al simbolo della tradizione classicista, caratterizzato al contrario dal continuo sacrificio di se stesso nel rinvio a qualcosa d’altro. L’allegoria, non dovendo portare in sé, come il simbolo, la predisposizione ad accogliere l’universale, assume il significato di una sfida lanciata a quella “profana modernità” in cui al dettaglio non è riconosciuto alcun valore. Solo conservando la sua imprescindibile autonomia il particolare può proporsi come cifra, come modello di un universale non altrimenti rappresentabile. Il particolare è così salvato e offre la possibilità al fruitore di intuire l’universale. Solo a questa condizione l’opera può rappresentare l’immediatezza in tutta la sua pienezza, può attenersi al piano del concreto, dove l’universale è inscindibile dalla sua manifestazione sensibile.

 Parallela a questa riflessione e a essa imprescindibilmente collegata è la ricerca di un nuovo dramma capace di fondere insieme il drammatico e l’epico, due generi sempre contrapposti dalla tradizione drammaturgica di lontana derivazione aristotelica. La nuova teoria è, quindi, comprensibile solo tenendo presente la profonda crisi attraversata nell’epoca moderna da quella forma drammatica “chiusa”, consegnata al nuovo mondo dalle poetiche del Rinascimento e dai grandi drammi del Seicento francese. Alle origini di questa crisi vi è la stessa scissione e complessità dell’epoca moderna che, rendendo le relazioni tra gli individui sempre più problematiche e sottoponendo progressivamente la libertà d’azione del singolo alle necessità dell’ambito sociale, ha finito con il rimettere in discussione la stessa causalità assoluta dell’azione scenica. Di fronte a questa profonda, irreversibile crisi la riflessione estetica, sin dalla fine del diciannovesimo secolo, si è interrogata sulle condizioni di possibilità di un’arte che per essere “moderna” sembrava costretta a rompere con la tradizionale poetica dei generi per dare espressione alla multiforme complessità della nuova sostanza, per corrispondere, in qualche modo, alle esigenze poste dalla nuova concezione della storia. Questo dibattito teorico era giunto al suo culmine nello scontro tra l’istanza di chi, come Friedrich Schlegel e Hölderlin, credeva nella possibilità di un’arte moderna centrata proprio sull’elemento epico, e chi, come Hegel, portando a compimento il classicismo aristotelico, ma rifiutando il neoclassicismo winckelmanniano, considerava sì centrale l’elemento epico, ma lo riteneva un momento di decadenza rispetto all’arte classica. Per Hegel, in effetti, l’arte stessa non sarebbe stata più in grado di sopravvivere nella prosaicità del mondo contemporaneo.

 Dunque, immediatamente a ridosso di questa riflessione apparvero negli scritti di Brecht i primi accenni alla necessitò di sviluppare un “teatro epico”. Se nella “comune” coscienza culturale al nome di Brecht è associato immediatamente il “teatro epico”, non altrettanto immediata è la comprensione di questo termine e dell’accezione in cui lo impiega l’autore. Chi ne ricercasse una definizione univoca nei diversi scritti dedicati a questo argomento da Brecht, rimarrebbe probabilmente deluso. Anche in questo caso mancano definizioni inequivocabili e, benché moltissimi scritti si occupino di questo problema, non è possibile individuare nessuna trattazione che possa essere considerata definitiva. La disomogenea complessità, ai limiti dell’aporetico, che caratterizza le riflessioni sul teatro epico, costringe il critico a seguirne il tortuoso sviluppo lungo l’intera opera brechtiana.

 I primi accenni a una concezione epica del teatro appaiono negli scritti di Brecht nel 1926 immediatamente a ridosso della prima rappresentazione di Mann ist Mann. Tuttavia, la scarsa sistematicità che caratterizza queste prime considerazioni non consente di poter parlare ancora di una vera e propria teoria del teatro epico. Quest’ultima si verrà sviluppando solo in seguito, nel corso di lunghi anni di sperimentazione scenica e di elaborazione teorica.

 Tanto più che ciò che maggiormente sorprende leggendo gli scritti degli anni venti è l’assoluta disinvoltura con cui Brecht utilizza il termine “dramma epico”, senza quasi rendersi conto, o forse non volendo tenere conto, del carattere intimamente contraddittorio di quest’espressione. Secondo i canoni della tradizionale poetica dei generi, infatti, con epico e drammatico si distinguevano due forme di espressione artistica radicalmente diverse, per non dire opposte. Anzi, sin dalla Poetica di Aristotele, conditio sine qua non della riuscita di un dramma era la completa eliminazione degli elementi epici.

 Se il termine teatro epico non appare a Brecht, dunque, problematico, tanto che non si sente in dovere di fornirne né una spiegazione né una definizione, allora esso non doveva suonare così estraneo nemmeno alla coscienza culturale del tempo.

 Del resto, la relativa facilità con cui Brecht ha potuto infrangere tutti i canoni della tradizione drammaturgica non va imputata tanto allo scarso interesse nutrito dal giovane autore per la poetica classica dei generi, quanto al fatto che, durante il secolo precedente, tutti i più grandi drammaturghi gli avessero in qualche modo preparato la strada. A partire da Peter Szondi, in effetti, diversi studiosi hanno interpretato lo sviluppo della forma drammatica dalla seconda metà del diciannovesimo secolo ai nostri giorni come un progressivo venire meno dei canoni della drammaturgia tradizionale in funzione, più o meno consapevole, di una nuova forma drammatica incentrata proprio sul carattere epico.

12/10/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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