Truth e Brooklyn vs Weekend

Per quanto abbiano tutti i limiti dei prodotti dell’industria culturale i film Brooklyn e Truth meritano indubbiamente di essere visti.


Truth e Brooklyn vs Weekend Credits: www.comingsoon.it

Per quanto abbiano tutti i limiti dei prodotti dell’industria culturale, ossia per quanto non sfuggano alla natura di merce alla quale tutto è ridotto dal capitalismo, i film Brooklyn e, ancora di più, Truth – Il prezzo della verità meritano indubbiamente di essere visti. Essi mantengono un impianto di fondo realistico che li rende interessanti e complessi, al contrario di un film come Weekend che è indubbiamente noioso per il suo programmatico naturalismo.

di Renato Caputo e Rosalinda Renda

L’esigenza di rendere i propri film delle merci da distribuire fra un pubblico piuttosto ampio fa sì che l’industria cinematografica anglosassone sia meno ideologica, meno post-moderna e più realista della produzione continentale rivolta al pubblico ristretto dei festival, degli addetti ai lavori o dei cinephile, abituati a consumare prodotti di élite, che gli consentono di distinguersi snobisticamente dal pubblico comune. Tale contrapposizione fra lavoratori della mente e lavoratori manuali porta i primi troppo spesso a riconoscersi unicamente o in prodotti ultra-formalistici o in prodotti trash, per il gusto di épater le bourgeois.

Al contrario della produzione di Paesi periferici e provinciali come il nostro, che producono merci di bassissima qualità aprioristicamente escluse dal mercato internazionale, in quanto rivolte a soddisfare gli istinti più beceri del cattivo senso comune nostrano, i prodotti dell’industria cinematografica anglosassone sono generalmente elaborati anche per affermarsi sul mercato internazionale e debbono perciò utilizzare necessariamente un linguaggio e dei contenuti maggiormente universali. Ciò fa sì che i vizi così comuni del nostro cinema, come il nepotismo o la raccomandazione, abbiano un peso necessariamente più limitato nel cinema anglosassone, nel quale è infine meno assente la logica autoriale per cui l’opera deve esprimere essenzialmente la soggettività del regista, oscurando completamente la cosa stessa.

Infine nel mondo anglosassone è meno forte la logica del rinnegato, dell’intellettuale che nei decenni passati si era opportunisticamente schierato a “sinistra” e che ora deve costantemente dimostrarsi più realista del re, sia come autore che come critico. D’altra parte, in tali Paesi la classe dominante è talmente sicura del proprio potere, di rado messo seriamente in questione, che sembra potersi permettere una maggiore libertà di espressione, in modo da ribadire le proprie capacità egemoniche.

Così sono arrivati nelle sale italiane, proprio in questi giorni, due prodotti dell’industria cinematografica anglosassone piuttosto interessanti e in grado di mediare a un pubblico potenzialmente ampio contenuti progressisti in contro tendenza rispetto al carattere fortemente conservatore o addirittura reazionario dell’ideologia dominante, la cui unicità è tutto sommato una tigre che può divenire di carta.

Il primo film è Brooklyn, film pulito, ben congegnato, godibile e in grado di lasciare alquanto da pensare allo spettatore. In primo luogo sul livello di sfruttamento della workings class in particolare femminile in un Paese arretrato, tradizionalista, sessista e classista come la cattolica Irlanda, da cui molti giovani cercano in ogni modo di trovare rifugio nell’emigrazione. Il film, dunque, ci permette di immedesimarci nel dramma di quei tanto oggi vituperati emigrati per cause economiche e sociali, che preferiscono abbandonare il proprio Paese e i propri cari per fuggire a una condizione intollerabile di oppressione.

Paradossalmente cinquant’anni fa il calvario della forza lavoro, costretta a spostarsi da un continente all’altro per potersi far sfruttare in una misura tollerabile, era indubbiamente molto meno doloroso, pericoloso e umiliante di quello odierno, nonostante viviamo in un mondo decisamente più sviluppato sotto diversi punti di vista. Gli emigrati della workings class europea, per quanto a tutti gli effetti deportati della borghesia, non dovevano mettersi nelle mani di scafisti senza scrupoli, né rischiavano di essere arrestati e imprigionati all’arrivo senza accuse specifiche, o rispediti in patria o, peggio, in Paesi finanziati appositamente per impedirgli, spesso con la violenza, di ricercare fortuna all’estero. Non erano nemmeno costretti a vivere da clandestini o sotto il ricatto costante di non vedersi rinnovare il permesso di soggiorno.

Altro aspetto significativo del film è la rappresentazione della dignità e dei profondi valori etici e morali che anche dei semplici lavoratori manuali, costretti a lavorare in un Paese straniero, possono preservare, risultando da tale punto di vista decisamente superiori rispetto al livello di ipocrisia, di snobismo, di corruzione, servilismo e cinismo che dominano nei piani alti della società. Sebbene molto meno ricchi, istruiti e raffinati riescono a essere decisamente più capaci di rimanere umani rispetto a diversi esponenti delle upper class.

Decisamente più corrotto e tragico appare il mondo superiore degli intellettuali, lavoratori della mente decisamente più colti e raffinati protagonisti di Truth Il prezzo della libertà, ma anche più soggetti al ricatto di dover rinunciare completamente alla propria moralità ed eticità professionale, asservendosi al potere, se non si vuole essere considerati dei pericolosi untorelli da ostracizzare. Nei Paesi a capitalismo avanzato poter continuare a lavorare nel ceto intellettuale dirigente, senza dover rinunciare del tutto alla propria dignità, moralità ed eticità professionale, diviene sempre più un’eccezione, visto il grado di sudditanza imposto dalla classe dominante. Da questo punto di vista, la tragica storia di Truth appare decisamente più realisticamente tipica della sorprendente eccezione rappresentata in Spotlight, dove dei giornalisti, svolgendo con professionalità e dedizione il proprio dovere professionale, riescono a far emergere il lato oscuro della società contemporanea, in cui il potere si manifesta nella sua ripugnante essenza.

Più realisticamente, Truth ci mostra come in una società sempre più fondata su rapporti sociali irrazionali anche fare il proprio dovere professionale richieda dosi sempre più eccessive di eroismo, tanto che chi vi rinuncia appare “normale”, mentre chi non lo fa appare un pericoloso sovversivo. Così viene presentato dall’ideologia dominante una giornalista che, invece di lasciare campo libero alla pura propaganda di un sanguinario golpista – responsabile della tragica fine di moltissimi desaparecidos, fra cui un proprio giovane collega connazionale – osa denunciare le torture di Abu Ghraib e poi, non paga di averla fatta franca una volta, ha la folle pretesa di svelare la vile ipocrisia dello stesso Capo dello Stato.

Dunque più si inasprisce la contraddizione fra sviluppo delle forze produttive e rapporti di proprietà, più far emergere la verità diviene opera da eroici rivoluzionari, pronti a sacrificare la propria carriera, il proprio prestigio, il proprio posto di lavoro e il proprio status sociale per non abiurare dinanzi al violento ricatto del potere. Tanto più si accresce la polarizzazione sociale – fra chi vive nel lusso senza lavorare e chi sopravvive a stento pur lavorando in modo sempre più bestiale – tanto più radicale diviene la scelta di campo fra chi osa “denunciare” la verità e chi si immerge nella palude dei pennivendoli al servizio del potente di turno, sia esso un novello Pinochet.

A questo punto si pone la tragica scelta di optare per l’abiura, per consentire alla propria famiglia, al proprio figlio di mantenere un dignitoso tenore di vita, o mettere tutto ciò che si è faticosamente costruito, in termini di carriera e patrimonio, radicalmente in discussione quale prezzo fatto pagare dal potere a chi si prende ancora il “lusso”, in quest’epoca di crisi, di dire la verità.

Tali significative e drammatiche contraddizioni reali scompaiono del tutto nella banale e noiosa rappresentazione della superficie dell’esistente di cui dà prova Weekend. Siamo nell’orizzonte astorico, asociale e amorale del minimal qualunquismo politically correct, in cui l’accidentale ha campo libero nei riguardi di tutto ciò che è sostanziale. Siamo nel dominio ideologico del pensiero debole postmoderno, in cui ci si bea della tenebra del quotidiano, la vera vita dell’uomo è tutta ridotta all’espletamento delle funzioni animali e della dose di stupefacenti necessaria per astrarre completamente dalla necessità di opporsi all’alienazione, al feticismo e alla reificazione dominanti nella società attuale.

Il dominio dell’estraneazione viene così normalizzato dal naturalismo programmaticamente antirealista del regista. Dal punto di vista ideologico, il film porta avanti una negazione semplice, immediata dello spirito ascetico alla base della filosofia cristiana che, non a caso, ha le sue radici nel neoplatonismo. Finisce così per operare una negazione incapace di superare dialetticamente lo spirito del cristianesimo, permanendo in una sua astratta negazione incapace di reale sviluppo e che appare egualmente unilaterale. Certo è evidente che l’omosessualità non riconosciuta, anzi avversata per secoli nei Paesi in cui domina un’eticità cristiana, rende comprensibile una rivendicazione altrettanto ideologica ed esasperata dei valori opposti, dei diritti della carne, della natura di cui siamo e saremo sempre parte.

Allo stesso tempo, però, sostenendo per spirito di contraddizione in modo unilaterale la tesi opposta, la superiorità della carne sullo spirito, del finito sull’infinito, dell’immediato sul mediato, della natura sulla ragione, l’antitesi sostenuta programmaticamente dal film rischia di apparire ancora più negativa e distruttiva della tesi, come appunto appare la seconda categoria della Scienza della logica, il nulla, nei confronti della prima, il puro essere. Ma, come è noto, il mero essere non è in nulla distinguibile dal puro nulla, ma anzi, in quanto opposto, tende a rovesciarsi nel suo contrario.

La negazione astratta delle ragioni della carne, della nostra natura, della nostra finitudine, finisce per apparire altrettanto unilaterale e astratta della contrapposizione a essa, tipica dell’attuale koinè postmoderna, che le esalta contrapponendole all’universalità astratta della ragione, alla trascendenza dello spirito, all’indeterminazione dell’infinito. In tal modo, rovesciandosi l’uno nell’altro, i due opposti tendono a fondersi, non a caso il maggior esponente italiano del pensiero debole postmoderno è anche un pensatore cattolico.

In conclusione, limitandosi a una pura negazione degli aspetti unilaterali e indubbiamente intolleranti dell’eticità cristiana di derivazione neoplatonica, il film finisce per essere noioso e schematico come qualsiasi opera a tesi.

24/03/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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