Luglio al cinema

Tra i film nelle sale in questo mese segnaliamo


Luglio al cinema

di Renato Caputo e Rosalinda Renda

Tra i film nelle sale in questo mese segnaliamo: 1) Il piano di Maggie, una commedia romantica, un po' comica, molto alternativa, ben recitata, ambientata nella New York di Woody Allen e con un astro nascente, Greta Gerwich; 2) Segreti di famiglia; 3) The Nice Guys; 4) Tom à la ferme; 5) It Follows

Il piano di Maggie - A cosa servono gli uomini, di Rebecca Miller, Usa, valutazione: 7

Il piano di Maggie è una brillante commedia romantica newyorkese diretta da Rebecca Miller, regista, attrice e scrittrice americana, figlia del grande drammaturgo Arthur Miller. Il film è tratto dal romanzo di esordio di Karen Rinaldi A cosa servono gli uomini ed è ambientatoin una gelida New York versione invernale.

Protagonista assoluta è la musa del regista e compagno Noel Baumbach, della quale abbiamo già apprezzato le doti in Mistress America,ovvero Greta Gerwig che interpreta il ruolo di Maggie. La pellicola ruota intorno alle vicissitudini amorose di Maggie, una trentenne dallo stile vintage che ritiene sia arrivato il momento di avere un figlio. Ma, visto che le sue relazioni con l'altro sesso non sono un granché, elabora un piano: l'inseminazione artificiale grazie allo sperma donato da un suo ex compagno di classe hipster e appassionato della matematica, ora imprenditore di sottaceti. Purtroppo qualcosa va storto, Maggie si innamora di John (Ethan Hawke), docente universitario sinistrorso che va pazzo per Zizek ed è sposato con Georgette (Julianne Moore), una determinata accademica in carriera che sembra soffocare le aspirazioni del marito. Inizia così un triangolo amoroso, di cui Maggie tesse le fila, veramente esilarante e che ricorda molto da vicino le storie newyorkesi di Woody Allen, cui Greta Gerwig dichiara apertamente di ispirarsi.

Per quanto non si tratti, certo, di un capolavoro, il film è ben fatto, la commedia risulta gradevole e l'effetto comico è assicurato. Molto bravi gli attori, sempre perfetta Julienne Moore, che dopo averci incantato con l'interpretazione della malata di Alzheimer in Still Alice, si cimenta in un personaggio completamente diverso sfoggiando un accento danese ed un piglio veramente convincente. Ma il personaggio più riuscito è decisamente quello di Maggie, che emerge non solo perché è il principale, ma perché Greta Gerwig riesce a interpretarlo in modo talmente autoironico da rendercelo del tutto simpatico.

La sua verve comica, ma intelligente, ha anche il merito di presentare una donna fuori dagli schemi, non bellissima, niente affatto sexy e sensuale, ma piena di fascino e attraente perché dotata di personalità, poiché il suo scopo non è quello di dover piacere agli uomini a tutti i costi, come se questo dovesse essere l'obiettivo principale di ogni donna ma, in modo forse un po' schematico, quello di costruirsi una vita seguendo dei princìpi che, ahimè, come i suoi piani rimangono un po' troppo limitati alla solo sfera familiare e al massimo si estendono a quella lavorativa.

Il piano di Maggie non va quindi tanto oltre la dimensione privata, non è portatore di contenuti universalistici e, a volte, sembra anche un po' troppo pungente verso gli intellettuali radicali impegnati, ma è un film pulito, diretto con grazia e che ti fa passare due ore piacevoli, a patto che fuori non ci siano 40 gradi all'ombra e nel cinema un condizionatore a 10 gradi centigradi che, dopo un quarto d'ora in poltrona, ti provoca un terribile mal di testa.

Segreti di famiglia di Joachim Trier, Danimarca, valutazione: 6,5

Discreto film, sapientemente costruito, che non decolla per la sua impostazione esistenzialista ed essenzialmente intimista. In tal modo il grande tema di una donna schiacciata dai sensi di colpa, per aver messo in primo piano il proprio impegno nella società civile – che è anche un modo per divenire partecipe del grande mondo storico – resta sotto traccia. Allo stesso modo appena accennata è la tragedia di questa donna che finisce per sottostare alle pressanti richieste del marito di riassumere il suo ruolo di madre e moglie. Così, mettendo da parte la sua carriera di reporter internazionale in scenari di guerra, finisce per perdere la prospettiva teleologica della propria esistenza, tanto da cadere in depressione e suicidarsi. Incapaci di rielaborare il lutto, assumendosi le proprie colpe, il padre e il primo figlio attribuiscono la morte della donna a un tragico incidente. La figura mitizzata della madre, la sua tragica fine, il tradimento nei confronti della sua memoria da parte del padre e del primogenito – che si ricostruiscono subito una nuova vita – schiacciano il figlio minore, fino a farlo divenire un disadattato e a porlo in un aspro contrasto con il padre. In realtà sarà proprio la scoperta dei limiti della madre – responsabile in primis della sua tragica fine – del padre e del fratello maggiore – nonostante la brillante carriera – a ridare sicurezza in se stesso al secondogenito, portando il padre ad andare in soccorso dell’apparentemente forte e sicuro figlio maggiore.

Per quanto il film sia brillantemente costruito e i caratteri dei personaggi siano ben approfonditi dal punto di vista psicologico, Segreti di famiglia finisce con il deludere proprio per il suo rinchiudersi in un ambito esistenzialistico, nonostante proprio quest’ultimo avesse finito per inghiottire nel buco nero dell’essere per la morte la madre che, sola all’interno della famiglia, aveva tentato di sottrarvisi.

The Nice Guys di Shane Black, Usa, valutazione: 6+

Film di gusto vintage che rivisita con un’ironia simpatetica l’Hard bolied, collocandolo alla fine degli anni Settanta. Il film è ben costruito, piuttosto divertente e, per quanto in forma ironica – ma si tratta comunque di un’ironia benevola – lascia qualcosa da pensare allo spettatore, in quanto permane l’eco dei contenuti di critica sociale di quegli anni caldi. Anni che sono riproposti con una bonaria ironia, una qualche nostalgia, rivolta però a un’epoca che non può più tornare, quasi una giovinezza ormai per sempre perduta.

Certo il film, nonostante la buona interpretazione degli attori, le trovate intelligenti e simpatiche non decolla mai. Resta un’opera essenzialmente culinaria, anche se destinata ad un pubblico di una certa cultura, piuttosto sofisticata e che – per quanto con spirito critico – resta espressione dell’industria culturale. L’opposizione al sistema imperialista appare un’affascinante ingenuità propria degli anni giovanili che, per il suo velleitarismo, è appena in grado di scalfire la classe dominante, che appare un qualcosa di grande e terribile. Il suo dominio mette a repentaglio la sopravvivenza della vita sulla terra, fa sì che la stessa giustizia sia sottomessa a interessi di classe – volti a preservare, come se fosse il migliore dei mondi possibili, un sistema ormai definitivamente in crisi – tanto che lo stesso sogno americano appare un qualcosa di vintage. Tuttavia non è nemmeno ipotizzata la possibilità di un’opposizione reale, di classe, neanche declinata in un passato destinato a non tornare. Dunque, per quanto con distacco ironico e scettico non si può che continuare a vivere in quest’epoca da tardo impero cercando, per quanto possibile, di godersi la vita, senza prenderla troppo sul serio, dal momento che in ogni caso, come ricordava Oppenheimer, non se ne uscirà vivi.

Tom à la ferme di Xavier Dolan, Quebec, valutazione: 4,5

Quarto film di questo ragazzo prodigio del cinema contemporaneo – realizzato ad appena 24 anni e giunto in Italia con tre anni di ritardo dalla sua presentazione al festival CannesTom à la ferme rappresenta una decisa battuta di arresto rispetto al decisamente più significativo Laurence Anyways, realizzato appena l’anno precedente e uscito il mese scorso nel nostro Paese. In Tom à la ferme, più ancora che nel precedente – eguagliando e superando anche in ciò Fassbinder – Dolan è autore di quasi tutti i principali aspetti del film, dalla regia, alla sceneggiatura, al montaggio, dalla produzione al ruolo di protagonista, fino agli aspetti minori, come la scelta dei costumi.

Si tratta però di una pellicola sostanzialmente inutile che dimostra la sostanziale bulimia di questo autore così prolifico, pur non avendo poi così tanto da dire e da comunicare, al di là delle sue indubbie qualità tecniche. Manca del tutto all’autore il senso della misura e il necessario sapere di non sapere; ciò lo porta a essere pretenzioso e narcisista all’estremo. Il film è privo sia del contenuto sostanziale di Laurence Anyways sia delle sue sperimentazioni formali e risulta piuttosto piatto, lasciando davvero poco da riflettere allo spettatore, al di là della grettezza e dell’omofobia della provincia rurale in cui è ambientata questa piccola storia ignobile. Cosa ancora più fastidiosa: tanto il protagonista del film, quanto il regista che lo impersona, pur essendo gay e provenendo dalla grande metropoli, finisce per subire in modo masochistico il fascino perverso di questo ambiente intriso di atavica irrazionalità e violenza. Del resto il suo orizzonte appare così vuoto di valori e interessi sostanziali che anche questa realtà così radicalmente altra rispetto al proprio mondo esercita su di lui un perverso rapporto di attrazione e repulsione.

It Follows di David Robert Mitchell, Usa, valutazione: 3

Film assolutamente da dimenticare, che non presenta altri motivi di interesse in positivo al di là del significativo montaggio musicale e degli scenari desolanti dei sobborghi di una città ormai fantasma, Detroit, vero e proprio simbolo della deindustrializzazione. In negativo il film è da citare solo per l’assoluta inaffidabilità della critica cinematografica mainstream che è riuscita a spacciare persino questo insulso prodotto dell’industria culturale come un prodotto di qualità, degno di interesse.

Altro aspetto significativo è il contenuto smaccatamente reazionario del film, che tende a demonizzare la carica libidica persino degli adolescenti, la cui naturale ricerca del piacere viene demonizzata come pericolosamente sovversiva pur nel desolato paesaggio post-industriale del Michigan, dove l’etica puritana ha perso del tutto il proprio significato sociale, legato all’introduzione della catena di montaggio e all’aumento dei ritmi di produzione. Per altro il film, pur essendo distribuito solo ora in Italia, è stato realizzato nel 2014, a dimostrazione che la mostruosa apparizione di Donald Trump è stata sconsideratamente preparata dai contenuti velenosi distribuiti a piene mani dall’industria culturale ad un pubblico in buona parte ingenuo e pronto ad assorbire anche contenuti palesemente reazionari.

16/07/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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