Due luci nella notte degli Oscar

Due film, due esempi che dimostrano che è possibile vincere persino l’Oscar senza dover divenire complici del potere dominante.


Due luci nella notte degli Oscar

Spotlight e La grande scommessa: due significativi esempi che dimostrano che è possibile vincere persino l’Oscar senza dover divenire complici del potere dominante, anzi denunciandone le spaventose malefatte. Per quanto la notte più lunga non sia eterna, i riconoscimenti a Inárritu, Il figlio di Saul e Mad Max dimostrano che, purtroppo, viviamo ancora in un’epoca oscura di distruzione della ragione.

di Renato Caputo e Rosalinda Renda

Anche l’attribuzione degli Oscar sembra mostrare che le forze progressiste statunitensi siano oggi maggiormente in grado di farsi valere nella lotta per l’egemonia sulla società civile di quanto avviene nella maggior parte dei Paesi occidentali. Non a caso, mentre le sinistre in Germania, Francia e Italia non appaiono in grado di individuare un candidato in grado di rimotivare all’attività politica, nemmeno durante le elezioni, dalla componente progressista dei ceti medi e subalterni negli Stati Uniti è emerso un candidato, il più a sinistra da quasi un secolo a questa parte, capace di mettere in difficoltà i rappresentanti dei poteri forti, degli apparati dello Stato e della società civile borghese.

Anche in questo caso fra i due grandi favoriti della vigilia Revenant e Mad Max: Fury Road si è, a sorpresa, affermato un outsider su posizioni decisamente più progressiste: Il caso Spotlight, vibrante denuncia non solo dello stato avanzato di putrefazione della Chiesa cattolica, ma di un’intera società civile di ipocriti benestanti che, pur di salvaguardare i propri privilegi, sono stati pienamente conniventi con le costanti violenze e abusi sui minori più deboli e indifesi, veri e propri agnelli sacrificali per una buona società marcia e corrotta.

Al contrario i due grandi favoriti – considerati naturalmente tali anche dalla stampa più “progressista” in Italia, che allo stesso modo non riesce proprio a capire come si possa osare contrapporre un idealista come Sanders al cinico realismo della Clinton – rappresentano proprio gli opposti speculari che una critica realmente di sinistra dovrebbe contrastare. Mad Max: Fury Road rappresenta, infatti, il puro prodotto di intrattenimento ed evasione dell’industria monopolistica dell’immaginario, l’odierno circenses, tanto più necessario in un’epoca in cui la passivizzazione della plebe moderna appare sempre meno in grado di conquistarsi lo stesso panem [1]. Mad Max: Fury Road è dunque un film di genere, una pura merce, un’opera culinaria che parla alla pancia e agli istinti più animali delle masse, alle quali l’alienazione del lavoro salariato ha estraniato le qualità realmente umane, lasciando per il “tempo libero”, necessario a riprodurre la forza lavoro sfruttata sino all’osso, unicamente le funzioni animali.

Tali opere, inoltre, indicano come unico sbocco possibile alla crisi dell’attuale modo di produzione capitalistico il precipitare dell’intera società nella barbarie, secondo un ricorso storico da cui tanto i personaggi quanto un pubblico paralizzato e ipnotizzato dalla mancanza di qualsiasi effetto di straniamento non sembrano aver imparato nulla o aver nulla da imparare, al di là del fatto che solo la violenza giova in una società in cui violenza regna, per cui lo stesso eroe spicca proprio per il suo cinico individualismo.

A dispetto dei critici radical nostrani, nel loro snobismo sempre più realisti del re, che parteggiavano apertamente per il prodotto più trash in lista, essendo anche l’unico in cui possono realmente riconoscersi, a Mad Max: Fury Road sono andati unicamente i premi tecnici minori. Purtroppo gliene sono stati attribuiti fin troppi e, sfruttando la dialettica quantità-qualità, parte della critica dominante ha presentato Mad Max: Fury Road come il vero vincitore degli Oscar, pur di occultare l’inatteso successo di un’opera critica su cui pesa il peccato mortale di aver dato da pensare alle masse, non fosse mai che dovessero continuare a farlo fino a non votare i propri aguzzini. Tanto più che questo profluvio di strumenti tecnici non fanno altro che rendere più appetibile una merce che ha come principale valore d’uso l’effetto narcotizzante.

Revenant è invece il tipico prodotto elitario dedicato agli intellettuali tradizionali, costruito essenzialmente per piacere al pubblico dei festival europei. Si tratta di un prodotto tipicamente snobistico, di un regista autore di opere improntate al secentismo programmatico e piene di disprezzo per il pubblico comune. L’attitudine aristocratica lo porta a creare opere che possono apprezzare, da un punto di vista meramente tecnico e formalistico unicamente gli addetti ai lavori e i cinephile, oltre al tipico esponente del ceto medio riflessivo che si vuole dare un tono, anche perché è in via di proletarizzazione e cerca in ogni modo di differenziarsi dalla massa in cui sta per essere riassorbito.

Il sano buon senso residuo e quanto resta dello spirito democratico, che non può che opporsi a tale restaurazione aristocratica, è riuscito a limitare i danni lasciando a Revenant tre soli premi, per quanto rilevanti. Se il premio per la migliore fotografia, dal punto di vista unilaterale dominante del formalismo, è ineccepibile, il riconoscimento a Di Caprio come migliore attore appare più discutibile, visto che è costretto a impersonare un personaggio privo di qualsiasi spessore e interesse, una stanca ripresa del Conte di Montecristo ripensato attraverso lo squallido modello fascistoide di Rambo.

Certamente più sensato e meritato sarebbe stato il premio a Bryan Cranston, ottimo interprete di un grandissimo personaggio come Trumbo. Il fatto che un grande film come L’ultima parola abbia ricevuto una sola nomination e nessun premio dimostra, ancora una volta, che la più pesante forma di discriminazione colpisce tutto ciò che sa di comunista, rappresentando l’unica alternativa sensata e progressiva all’inarrestabile crisi del capitalismo.

Detto questo, Di Caprio, in un’epoca così buia, un premio lo meritava comunque, anche perché dotato di una sensibilità e di uno spessore fuori dal comune, soprattutto dinanzi al bieco conformismo sempre più imperante fra lo star system. Non a caso, in uno dei rari momenti sani all’interno di quella vera e propria noiosissima fiera delle vanità che è la infinita premiazione, Di Caprio ha utilizzato il palcoscenico mediatico per denunciare coraggiosamente quell’incancellabile peccato originario che getta un’ombra oscura sull’intero sogno americano: il genocidio degli amerindi. Di Caprio inoltre non sì è limitato a rinfrescare la memoria storica all’ipocrita puritana società statunitense, ma ha anche denunciato che si tratta di un passato che non passa, di un dramma attuale in cui la sete di profitto sta portando a una altrettanto barbara devastazione dell’ambiente, che ovviamente colpisce in primo luogo le popolazioni più deboli, a partire dagli stessi amerindi [2].

Ciò che conta, però, è che non è affatto vero quello che ci vogliono costantemente far credere e che spesso ipocritamente fingiamo di credere, ovvero che sotto la dittatura del capitale monopolistico ogni forma di ribellione al grande fratello sarebbe impossibile e, se proprio non si vuole essere integrati, al massimo ci si può atteggiare ad apocalittici.

Al contrario, un film come Spotlight, premiato meritatamente come migliore sceneggiatura, un attore come Di Caprio, che sfrutta la propria popolarità per denunciare il lato oscuro del capitalismo, lo stesso La grande scommessa [3] – meritatamente premiato come migliore sceneggiatura non originale – dimostrano come non sia per niente vero che per poter sopravvivere, lavorare e affermarsi sia necessario vendere la propria anima al diavolo, ovvero al pensiero unico dominante. Anzi, anche tali inattesi successi di opere di aperta denuncia del modo di produzione dominante e della società civile borghese dimostrano, ancora una volta, che solo la lotta paga e che non è affatto necessario, come i più sembrano credere, asservirsi divenendo complici di un sistema che sta facendo precipitare nella catastrofe il mondo intero.

Del resto, due o tre rondini non fanno primavera e la crisi del capitalismo è sistemica e non colpisce unicamente le strutture economiche, ma le stesse sovrastrutture culturali. Non a caso nella notte degli Oscar risultano premiati come miglior regista e miglior film straniero Inárritu e Il figlio di Saul, due veri e propri modelli di artisti e film complici e integrati, che mirano ad affermarsi quali migliori interpreti dell’ideologia dominante, dando il loro contributo alla distruzione della ragione e al conseguente imbarbarimento della società.

Il premio a Brie Larson come migliore attrice soddisfa in particolare perché ha strappato a sorpresa la statuetta alla ultra favorita Jennifer Lawrence, anonima protagonista di un film mediocre come il personaggio omonimo che interpreta: Joy. Di ben altro spessore, interesse e qualità è il film (Room) e il personaggio interpretato dalla Larson.

Condivisibile anche il premio a Mark Rylance, eccezionale interprete del magnifico personaggio della spia sovietica, che Spilberg ha avuto il grande merito non solo di umanizzare, ma di mostrarne anche lo spessore morale nettamente superiore a tutti i suoi ipocriti accusatori statunitensi. Tale premio soddisfa ancora di più in quanto è stato tolto al grande favorito, il mediocrissimo attore Sylvester Stallone.

Il premio per la migliore attrice non protagonista ad Alicia Vikander, oltre a essere comunque un importante riconoscimento al coraggioso The Danish Girl, vergognosamente massacrato dalla critica, fa piacere in quanto lo toglie inaspettatamente a Kate Winslet, interprete senza infamia né gloria di un mediocre personaggio all’interno di un altrettanto mediocre film (Steve Jobs).

L’assegnazione di miglior film d’animazione al grande favorito, Inside Out, può esser considerata tutto sommato giusta, anche perché l’unico all’altezza fra i candidati era il nipponico Quando c'era Marnie, mentre decisamente inferiori erano il pretenzioso Anomalisa, cavallo di battaglia dei critici snob, e Shaun vergognosa apologia dello spirito di gregge. Valido anche il documentario premiato Amy su cui sarà utile tornare.

Infine il cucchiaio di legno non può che andare al nostro povero Paese in cui i media hanno cercato di occultare la vittoria di Spotlight, per il consueto servilismo verso il clerical-fascismo, con il patetico mantra patriottico che parla in primo luogo di trionfo del cinema italiano, dimenticando che Ennio Morricone, autore della migliore colonna sonora, ha operato, come capita ai migliori cervelli del nostro Paese, al servizio dell’economia di un Paese straniero. Se tale fuga dei cervelli va purtroppo avanti da secoli e ha le sue radici più antiche nell’essere il nostro Paese il centro di una religione cosmopolitica, essa si è incredibilmente aggravata negli ultimi decenni di taglio alla formazione pubblica per favorire quella privata e confessionale, ossia proprio nei decenni di restaurazione nazionalistica e cattolica.

Note:

1. Non a caso preferisce il miserrimo voto di scambio alla candidata di Wall Street considerando il candidato di sinistra un lusso che non si può permettere.

2. Ovviamente tutto ciò è stato messo in secondo piano dalla stessa stampa radical per dare spazio all’unica presa di posizione politically correct, ovvero l’affermazione di essere orgogliosamente gay, da parte dell’autore della miglior canzone.

3. Il film coraggiosamente denuncia chi sono i veri responsabili dell’esplosione della bolla speculativa del 2008, come tali responsabilità siano state scaricate dal pensiero unico dominante sui più deboli, a partire dai lavoratori immigrati, per consentire alla grande truffa speculativa di riprendere come se niente fosse accaduto il proprio rovinoso corso.

04/03/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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