Da Mrs. America a The Hunt

La conclusione della migliore serie della stagione, la recensione di classe a The Hunt – un film che ha fatto e che è destinato a far discutere – e a una serie di prodotti scadenti dell’industria culturale.


Da Mrs. America a The Hunt Credits: https://www.mobyflick.it/recensioni/the-hunt-2020/

Segue da “Mrs. America II parte” pubblicato sul precedente numero di questo giornale.

Dopo sette ottimi episodi, nel penultimo la serie Mrs. America ha la sua prima battuta d’arresto, ossia cade nel pericolo tipico delle serie di allungare inutilmente il brodo. Peraltro l’episodio ha un titolo sostanzialmente spiazzante, per la prima volta sembra voler mettere in primo piano un evento storico, la conferenza nazionale di Huston, il punto più alto raggiunto a fine 1977 dal movimento per l’emancipazione delle donne, mentre in realtà al solito l’episodio pone al centro un personaggio femminile particolare, in qualche modo protagonista di questo epico e tragico conflitto fra le forze pro-emancipazione e le forze della reazione. In effetti, in questo caso il personaggio al centro della serie non è come nei precedenti un protagonista, ma un tipico esponente di una componente del fronte della reazione, la componente moderata. La quale intende da una parte rivendicare il proprio status sociale di moglie e casalinga, ma che partecipa attivamente al movimento in quanto costituisce, paradossalmente e inconsapevolmente, una forma di emancipazione dalla schiavitù domestica. In tal caso siamo proprio di fronte a un tipico esempio di banalità del male, ossia di persone che non sono in grado di ragionare con la propria testa, di pensare criticamente e tendono a seguire la corrente, ad attenersi alla tradizione e all’ideologia dominante. D’altra parte la partecipazione alla conferenza di Huston, dove per la prima volta si confronta con donne che si battono democraticamente per la loro emancipazione, la porta per la prima volta a mettere seriamente in dubbio la sua adesione acritica e dogmatica al fronte della reazione. Si rende contro anche della sua estraneità al fronte dei reazionari duri e puri, che si oppongono in astratto a ogni forma di emancipazione della donna promossa dal Movimento, capisce che bisognerebbe sviluppare una posizione più dialettica e dialogica, piuttosto che assumere posizioni di principio contrarie a ogni forma di emancipazione femminile. D’altra parte, però, nel fronte della reazione c’è uno zoccolo duro ampio e sempre pronto a imporre la disemancipazione. Come si vede nel controcongresso organizzato da Mrs. America con le guardie del corpo fasciste del Ku Kluz Klan, i fondamentalisti di tutte le religioni e sette, i lauti finanziamento della parte più retriva della classe dominante e una massa di ignoranti, facile prede dell’ideologia dominante.

Nel nono e ultimo episodio il livello sale nuovamente all’elevato standard dei primi sette episodi, assicurando godimento estetico e molto su cui riflettere agli spettatori. L’episodio, ambientato fra il 1979 e il 1980, si chiama Reagan, il presidente antiestablishment di destra radicale che si impone nelle presidenziali. Con questa elezioni si chiudono definitivamente gli anni Sessanta e Settanta segnati da una egemonia dei liberal, che negli Stati Uniti, dove tutto è spostato a destra, sono considerati progressisti e di “sinistra”. Ad affermarsi sono le forze reazionarie, con il decisivo supporto del fondamentalismo religioso e del blocco de-emamcipatorio costituitosi intorno alla protagonista di Mrs. America. La vittoria elettorale segna una netta battuta d’arresto dei movimenti per l’emancipazione, non solo delle donne. Nonostante si fosse arrivati a soli tre Stati dalla soglia dei trentotto necessari a inserire in costituzione l’eguaglianza fra i generi, per trentasette anni non ci sono passi in avanti, tanto che le forze progressiste gettano la spugna, credendo che non ci sarebbero più le condizioni per l’approvazione dell’emendamento. Fortunatamente la principale dirigente femminista non si dà per vinta e riparte con partecipate conferenze dal basso, facendo notare che dopo diecimila anni di patriarcato e razzismo i tempi per il loro superamento sono necessariamente lunghi e prevedono necessariamente momenti di grande avanzamento e momenti di stasi. Peraltro la vittoria del fronte reazionario non è così netta e risolutiva come potrebbe sembrare. Tanto che Reagan pur chiamando Mrs. America e ringraziandola per il decisivo supporto del suo blocco de-emancipatorio nella sua elezione, al contempo le fa notare come il voto delle donne si sia spostato su posizioni progressiste e, quindi, dovrà di necessità assumere una posizione formalmente favorevole all’eguaglianza di genere. Così Mrs. America si vede tagliata fuori dai posti di comando che sognava e viene abbandonata dalla sua più antica sostenitrice che, infine, ha finito anche lei per emanciparsi e la abbandona. Non per questo la protagonista si perde d’animo e, anzi, continua con energia e successo a portare avanti la campagna a favore della de-emancipazione, fino alla elezione di Trump, l’ultima grande battaglia reazionaria in cui si è impegnata. D’altra parte, dalla serie, emergono le contraddizioni del corso storico, in quanto lo shock per l’elezione di un presidente sfacciatamente sessista e ultramaschilista riporta in campo il movimento per l’emancipazione delle donne. Così dopo quasi quarant’anni di stasi, dopo l’elezione di Trump anche i tre residui Stati, indispensabile per accogliere in costituzione l’emendamento sull’eguaglianza di genere, votano a favore, tanto che i democratici, riconquistato il controllo sul Congresso, riaprono legalmente la questione, votando l’eliminazione della scadenza temporale che non aveva consentito di accogliere l’emendamento. Certo il senato, ancora sotto il controllo dei repubblicani, non ha consentito sino a ora il passaggio dell’emendamento. Ma dopo tanti anni la battaglia si apre di nuovo, quando sembrava definitivamente persa. Peraltro nonostante la lunga lotta del movimento per l’emancipazione, in primis delle donne, abbia comunque avuto dei significativi successi nella lunga durata, in primo luogo spostando la maggioranza delle donne su posizioni progressiste, quando prima del movimento erano generalmente su posizioni conservatrici.

The Hunt di Craig Zobel, azione, horror e thriller, USA 2020, voto: 6,5; il film riprende un filone che sta avendo un certo successo negli Stati Uniti che consiste nel esplicitare alcune delle più profonde contraddizioni statunitensi attraverso la forma vintage del B-movie. Nel caso in questione è rappresentato, in modo volutamente paradossale, il tragico contrasto fra una élite liberal e un popolo ridotto a un sottoproletariato facile preda del populismo di un Trump, che si trova di fronte la ultraelitaria Hillary Clinton. Per cui ci si immagina che, a causa dei complottisti – che non comprendono l’odio elitario e classista dei ricchi liberal per la loro ignoranza, che li rende facile preda della demagogia della destra radicale – alcuni liberal della classe dirigente perdono, a causa del politically correct da loro stessi esasperato, i loro privilegi. A questo punto decidono di vendicarsi facendo pagare ai complottisti le loro nefande azioni, trasformandoli come nella loro fantasia, da predatori in prede. D’altra parte la classe dirigente liberal non intende naturalmente colpire la reale radice del male, dal momento che i suoi privilegi dipendono proprio da quei rapporti di produzione e di proprietà iniqui, e colpiscono nel modo più moralista e ipocritamente puritano la plebe che, nel suo abbrutimento, non rispetta un politically correct sempre più classista. Questa significativa riflessione sulla tragica contraddizione che attraversa gli Stati Uniti viene innestata in un film esplicitamente culinario e autoironico. In tal modo il contrasto fra la metafora politica – che nella sua paradossalità rischia di poter essere interpretata nel peggiore dei modi, dando sostanzialmente ragione al populismo di destra della plebaglia ridotta a sottoproletariato – e la forma parossistica del B-movie è troppo stridente, per fare del film qualcosa di più di alcune brillanti trovate che però, essendo troppo elitarie, rischiano di favorire l’incarognirsi della cattiveria dei poveri.

Capone di Josh Trank, biografico, drammatico, USA 2020, voto 4+; il film è una ricostruzione meritoriamente realistica di eventi biografici del tutto inessenziali, ovvero dell’ultimo anno di vita del noto gangster Al Capone. Se alcuni aspetti della sua vicenda biografica possono essere utili a mostrare i modi più sporchi con cui la classe dirigente esercita la sua dittatura e porta avanti la lotta di classe contro i subalterni negli Stati Uniti, le vicende personali e private di un personaggio tanto squallido e del suo seguito non possono suscitare il benché minimo interesse. Così, in ultima istanza, il film resta una merce anestetizzante dell’industria culturale.

The Souvenir di Joanna Hogg, Usa e Inghilterra 2019, voto 4-; film inutilmente pesante, fondato su una storia gratuitamente penosa. Al centro del film vi è la sofferenza di una giovane donna che in modo assurdo, insensato e inverosimile si lega sentimentalmente a un eroinomane, sopportandone pazientemente le angherie. A questo plot privo di spessore e di senso si aggiunge un altrettanto fine a se stesso formalismo compiaciuto.

The turning di Floria Sigismondi, drammatico, USA 2020, voto 3,5; tipico prodotto dell’industria culturale del genere horror, generalmente il più dichiaratamente irrazionalista, meramente culinario e funzionale unicamente all’evasione dalla realtà delle classi subalterne, affinché non abbiano modo, nel “tempo libero”, di riflettere e magari sviluppare un’attitudine critica della società e un briciolo di coscienza di classe. Rispetto ai prodotti del genere horror, programmaticamente irrazionalista, il film con un colpo di scena finale vorrebbe rovesciare la classica rappresentazione, facendo risalire tutti gli aspetti apparentemente irrazionali alla presunta follia ereditaria della protagonista. Conclusione del tutto inverosimile, in quanto dall’inizio il film ha presentato come oggettivi una serie di eventi irrazionali, indipendentemente dal modo di viverli da parte della protagonista.

Monos un gioco da ragazzi di Alejandro Landes, drammatico, Colombia 2019, voto: 1+; insostenibile film su una banda di ragazzacci che dovrebbero essere una metafora della lotta guerrigliera. Questo pessimo film ripete in forma di farsa macabra, compiacendosi di rimestare nel torbido, la tragedia della guerriglia colombiana. Verrebbe da dire agli autori di questo davvero miserando prodotto dell’industria culturale: “scherza con in fanti, ma lascia stare i santi!”. Verrebbe da aggiungere che intellettuali parassitari e decadenti di questo genere si meritano i Duque e gli Uribe.

Almost dead di Giorgio Bruno, horror, Italia 2016, voto: 1; ennesima dimostrazione che quando qualcuno non ha veramente nulla da dire, né è in grado di esprimere qualcosa di significativo e innovativo, ricorre al solito, noiosissimo e insostenibile film sui morti viventi, naturalmente di serie Z.

L di Babis Makridis, commedia, Grecia 2012, voto: 1-; film assolutamente inguardabile, di un postmodernismo sfacciato e del tutto irrazionale. Mera propaganda dell’ideologia dominante, ripescato in Italia otto anni dopo la sua uscita in Grecia per la penosa programmazione delle sale cinematografiche italiane nel mese di agosto.

07/11/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: https://www.mobyflick.it/recensioni/the-hunt-2020/

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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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