La presa di coscienza dell’oggettiva irriformabilità dell’Unione Europea ha fatto sì che la concentrazione delle forze, in termini di analisi, dibattiti e parole d’ordine, sia scivolata tutta sulla questione della rottura con le strutture comunitarie, lasciando in secondo piano una rottura ben più importante, quella con il capitalismo.
Correttamente, i sovranisti di sinistra individuano nella difesa dei salari la conditio sine qua non per un’uscita progressista dall’UE, identificata con la gabbia che impedisce ogni politica di spesa pubblica da parte degli stati. Una posizione che chiaramente permette di prendere le distanze dal nazionalismo reazionario di coloro i quali aspirano, sic et simpliciter, a portare indietro le lancette dell’orologio.
L’aspetto problematico di questa analisi è legato, a parere di chi scrive, ad un errore nell’approccio. L’UE non è un’entità astratta comparsa all’improvviso, ma il frutto di un processo lungo 60 anni, in cui gli stati hanno volontariamente ceduto pezzi di sovranità, dietro la pressione di quelle borghesie nazionali di cui non sono che fedeli agenti.
Occorre dunque non limitarsi a sventolare le bandiere degli stati nazionali, come se in questi ultimi non fossero presenti le stesse contraddizioni che oggi constatiamo all’interno dell’Unione Europea. Misure quali il ripristino della scala mobile sono corrette, ma rischiano di rivelarsi mera utopia senza porre la questione reale del ribaltamento dei rapporti di produzione.
Il punto cruciale è proprio qui. Il proletariato non può limitarsi a scegliere la borghesia dalla quale lasciarsi opprimere, se quella nazionale o transnazionale. Esso deve giustamente riportare la lotta di classe su un terreno più consono, e per questa ragione l’UE rappresenta un anello della catena da spezzare, ma contemporaneamente deve impegnarsi nella costruzione del partito rivoluzionario per rovesciare il capitalismo.
Adottare la strategia dei due tempi rappresenta un errore. Non possiamo sottrarre un M16 al capitale, lasciandogli comunque una rivoltella, senza aver armato il proletariato. La costruzione del partito rivoluzionario deve andare di pari passo con la lotta contro l’UE, altrimenti all’oppressione della borghesia internazionale si sostituirebbe quella, altrettanto inaccettabile, della borghesia nazionale, e le prospettive del socialismo sarebbero rimandate nuovamente a data da destinarsi; un’opzione che dobbiamo necessariamente scartare.
Non si può lottare per il socialismo rimanendo nel polo imperialista dell’UE, e questo è un dato oggettivo difficilmente contestabile. Il socialismo, tuttavia, richiede un partito marxista che, difronte al crollo delle strutture comunitarie, sia immediatamente in grado di porre la questione del rovesciamento dei rapporti di produzione. D’altro canto, la borghesia non svolge più alcun ruolo progressivo e democratico, quindi il semplice ritorno agli stati nazionali assumerebbe il volto duro delle forze reazionarie europee (Le Pen, Salvini, etc.). Solo il proletariato e il movimento operaio possono liquidare questa prospettiva, ma senza un partito marxista e rivoluzionario ciò è impossibile. La duttilità del capitale è ben nota; il nostro compito non può consistere semplicemente nel mutare le condizioni di sfruttamento, ma nell’abbatterle.