Parliamo di Maurizio Bigazzi, neo eletto Presidente di Confindustria Toscana. Vediamo insieme il contenuto delle sue esternazioni che poi, a scanso di equivoci, riprendono argomentazioni di altri, primo tra tutti Pietro Ichino che da giuslavorista di lungo corso le questioni del lavoro dovrebbe conoscerle assai meglio di un padrone e per questo avrebbe meno scusanti.
Il Bigazzi-pensiero, ipocritamente bollato come un gaffeur, in realtà non fa che riprodurre un pensiero largamente diffuso e destinato a creare contraddizioni anche in senso alla classe lavoratrice, pubblica e privata, tra chi opera in smart e quanti sono costretti a lavorare in presenza.
Il neo presidente chiede di imporre il contributo di solidarietà ai dipendenti pubblici in smart working. “Ci sono quattro milioni di dipendenti pubblici in smart working che nessuno controlla. Molti di loro, sostiene Ichino, è come se fossero in ferie, che ora si vogliono prolungare fino al termine del 2020. Sono persone che se ne stanno tranquillamente a casa, non rischiano il posto di lavoro, hanno più tempo libero e risparmiano i soldi del trasporto casa-lavoro. Lo stato dovrebbe imporre ai dipendenti pubblici in smart working un contributo di solidarietà del 3-4% sullo stipendio, a vantaggio di lavoratori, famiglie e persone in gravi difficoltà”. [1]
L’ipocrisia è l'arte di dissimulare la realtà ben nota ai sindacati firmatari di contratto che si ergono a difensori dei lavoratori pubblici ai quali Bigazzi vorrebbe imporre decurtazioni salariali giudicando chi opera in smart una sorta di privilegiato. Ma Bigazzi appartiene alla parte più vecchia del capitalismo italiano, quella che ha puntato tutto sulle delocalizzazioni, sui finanziamenti statali (perché i liberisti sono delle tigre di carta per parafrasare il Presidente Mao). Al contrario, è interesse del capitalismo più moderno, guarda caso ancorato ai precetti liberisti più efferati, promuovere lo smart tanto nel pubblico quanto nel privato.
I sindacati complici non dicono che in queste settimane i lavoratori in smart nella Pa hanno avuto decurtazioni economiche in virtù di contratti nazionali che consentono di demandare alla contrattazione di secondo livello decisioni che spetterebbero per diritto ai ccnl, tacciono sul fatto che perfino la indennità di condizione lavoro non sia riconosciuta in numerosi Comuni e quasi tutti gli Enti locali continuano a negare i buoni pasto a chi sta in smart.
Perchè i sindacati non si occupano di questi incontrovertibili fatti? Semplicemente perchè il loro silenzio è aureo e costituisce quella merce di scambio indispensabile per far passare la riduzione dei salari ed i rinnovi contrattuali con perdita di potere di acquisto. E in arrivo, ad anno nuovo, potrebbe esserci la legge sulla rappresentanza sindacale per mettere fuori gioco tutto il sindacalismo di base, incluso quello (USB) che alla fine sottoscrive accordi indecorosi in cambio di permessi sindacali (ccnl statali).
Una battaglia di retroguardia diventa quella acritica difesa dello smart con decurtazioni salariali quando in ballo c'è ben altro, ad esempio il rilancio, sulle pagine de Il sole 24 ore, da parte di Confindustria del Patto della Fabbrica siglato nel Marzo 2018 con i sindacati complici [2].
E quel patto si prefiggeva alcuni obiettivi come la cogestione delle trasformazioni in atto nel mondo del lavoro, il rilancio della contrattazione di secondo livello, il potenziamento del welfare aziendale in alternativa all'aumento diretto dei salari (e così si andranno a potenziare sanità e previdenza integrativa), il rafforzamento degli Enti bilaterali ai quali trasferire funzioni e ruoli spettanti alla contrattazione con le Rsu.
Ecco svelato l'arcano, l'ennesimo compromesso in corso d''opera sulla pelle di tanti lavoratori e lavoratrici.
Note: