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Il neo-centrismo populista tra M5S e PD. Svolte politiche in vista?

Lo scenario politico è ancora molto frastagliato, e molto dipenderà dai risultati delle regionali. Occorre domandarsi cosa rappresenta questa svolta, quali conseguenze può portare negli assetti politico-istituzionali, ma soprattutto a quali settori economico-sociali risponde tale operazione politica.


Il neo-centrismo populista tra M5S e PD. Svolte politiche in vista?

La consultazione sulla Piattaforma Rousseau, strumento millantato dai 5Stelle come nuova frontiera della democrazia diretta, ha sbloccato la regola che impediva la presentazione per un terzo mandato per gli amministratori: non è ancora la definitiva rimozione della norma che impedisce ai pentastellati di presentarsi per più di due legislature, ma è comunque la caduta di un tabù e di qua alle elezioni politiche (che al momento non sembrerebbero preannunciarsi immediate) avranno modo di rimettere in discussione anche questo paletto originario del movimento.

L’altro punto in votazione era la possibilità di accordi e alleanze con partiti tradizionali, e in particolare con il Partito Democratico con cui negli anni si è sviluppato un rapporto di amore/odio degno di una soap opera: dal rifiuto di appoggiare un esecutivo quando era segretario Bersani, agli attacchi pesantissimi sulle questioni giudiziarie legate agli episodi di corruzione in cui erano implicati anche familiari di alti esponenti dell’allora dirigenza democratica, Renzi e Boschi, o ad altre indagini in cui le responsabilità dirette del PD sono da dimostrare, come nel caso di Bibbiano, all’odio viscerale contro il populista mascherato Renzi, il quale è stato peraltro il sostenitore più acceso del nuovo esecutivo con i 5Stelle, dopo il suicidio politico di Salvini, e infine il ricattatore politico del governo Conte attualmente in carica.

Questo secondo punto, in particolare, apre nuovi scenari politici che occorre analizzare, sia nel breve periodo (di qua alle regionali del 20 e 21 settembre) sia su un piano medio-lungo, se si consoliderà l’asse M5S-PD.

Sul piano politico, la possibilità di alleanze con i partiti non è così nuova: già alla precedente tornata delle regionali tra 2019 e inizio 2020 si era data la possibilità, ma il M5S scelse di allearsi al PD nel territorio più difficile, l’Umbria, dove la sconfitta del neo-centrosinistra era più che probabile, mentre non ci sono state alleanze in Piemonte, Basilicata, Sardegna, Abruzzo dove ci sarebbe stata l’opportunità di contendere la regione al centrodestra; infine, l’Emilia-Romagna rappresenta la regione in cui si sarebbe potuta saldare l’alleanza (anche se a condizioni politiche probabilmente svantaggiose per i 5S) in una situazione vincente.

Lo sblocco della possibile alleanza con i partiti tradizionali può incidere nella prossima tornata elettorale, sia che si realizzino convergenze sia che non si realizzino: Liguria e Puglia potrebbero diventare le regioni in cui si salda la nuova stagione politica che il governo Conte 2 ha inaugurato, in Toscana e Campania l’accordo è praticamente impossibile per il profilo dei candidati democratici in campo (il filorenziano Giani e il neo-borbonico De Luca), mentre nelle Marche ci sono segnali che vanno nella direzione di una alleanza tra M5S e PD.

Lo scenario politico è ancora molto frastagliato, e molto dipenderà ovviamente dai risultati delle regionali, sia che ci siano le alleanze tra M5S e PD sia che non ce ne siano. Occorre, dunque, domandarsi cosa rappresenta questa “svolta”, quali conseguenze può portare negli assetti politico-istituzionali, ma soprattutto a quali settori economico-sociali risponde tale operazione politica.

Come ho già sostenuto rispetto al nuovo esecutivo, e alla figura di Conte stesso, ci troviamo di fronte ad una riproposizione neo-centrista (una riedizione della democristianità, pur riveduta e corretta), per i caratteri che l’esecutivo ha assunto. Lungi dall’avere tratti di “sinistra” – se per sinistra si intende quella che ha espresso organizzazioni politico-sindacali e sociali di massa nella seconda metà del secolo scorso, nelle varie declinazioni del riformismo (da quello puramente parlamentaristico dei socialisti, tutto interno alle compatibilità del capitalismo italico, alle riforme di struttura con l’obiettivo strategico di modificare i rapporti di forza tra le classi del Partito Comunista Italiano) – questo esecutivo esprime una continuità con le politiche neoliberiste (espresse dalle componenti del PD) corrette e integrate da esigenze neostataliste delle componenti dei 5S che vedono lo Stato non solo come un necessario strumento per la difesa dei diritti dei cittadini, ma soprattutto come supporto alle imprese.

Lo statalismo non rappresenta di per sé una visione di sinistra: statalisti sono stati i democristiani, con i boiardi di Stato della cosiddetta Prima Repubblica in un quadro di interclassismo al servizio del debole capitalismo italico; statalisti sono stati il fascismo, con una visione organicista della nazione che punta ad annullare la lotta di classe e il conflitto sociale per riversare le contraddizioni contro nazioni e popoli altri; statalisti sono i sovranisti, che coniugano l’autoritarismo contro i lavoratori con la maggior libertà di impresa e fiscale (cioè libertà di licenziare, delocalizzare, inquinare, nonché di avere il minimo delle tasse a fronte del massimo dei profitti). La caratterizzazione fondamentale sta nelle politiche che si attuano, ma soprattutto in nome di quali interessi si intraprendono i provvedimenti: da una parte ci sono gli interessi della borghesia (che non è unitaria, ma frastagliata anch’essa) e dall'altra delle classi lavoratrici (anch’esse ormai ridotte ad un pulviscolo disperso, più che essere una classe coesa e omogenea).

La direzione neo-centrista, che una saldatura tra PD e M5S prospetta, va verso una compensazione tra gli interessi della medio-alta borghesia con quelli della borghesia medio-bassa (il cosiddetto ceto medio colpito duramente dalla crisi degli ultimi dieci anni, e le piccole imprese flagellate dalla crisi economica e ora dalle conseguenze della crisi sanitaria), sia sul piano fiscale che degli investimenti che potranno essere messi in atto con i miliardi del Recovery Fund, mentre dubito che vi saranno provvedimenti o anche solo proposte che vadano nella direzione degli interessi delle classi popolari e proletarie: la questione dell’occupazione è infatti sempre affrontata non rispetto agli interessi di lavoratori e lavoratrici, ma nell’ottica delle imprese come fulcro della struttura economico-produttiva di mercato, con le dinamiche neoliberiste che tuttora non sono minimamente state messe in discussione da nessuno se non per aspetti marginali e perlopiù ininfluenti.

La partita che si andrà a giocare nei prossimi mesi, al di là degli equilibri e dei rapporti di forza squisitamente politici, sarà rispetto all’utilizzo dei miliardi del citato Recovery Fund, ma anche sull’accesso al MES ridimensionato per la congiuntura emergenziale sanitaria: come già nell’utilizzo dei circa 75 mld messi a disposizione con le manovre in deficit Cura Italia e Rilancio Italia, la questione fondamentale non è tanto quanti soldi vengono stanziati, ma a chi saranno indirizzati e chi li gestirà, cioè se saranno investimenti strutturali che rafforzeranno e ristruttureranno i settori economici strategici attraverso una gestione pubblica, oppure andranno ad incrementare i settori privati che operano nei comparti fondamentali di pubblica utilità (trasporti, sanità, formazione, scuola, università ecc.).

La partita si gioca su come possano e debbano essere utilizzati tutti questi soldi, e soprattutto sulle condizionalità che sembrano fortemente ridimensionate (cosa che va verificata con attenzione), anche per quanto riguarda il MES nella versione della Pandemic Crisis Support, su cui non è chiaro se i 36/7 mld, equivalenti al 2% del PIL a cui potrebbe avere accesso l’Italia, possano essere utilizzati per investimenti di rilancio della sanità pubblica territoriale, per un massiccio piano di assunzioni di medici e infermieri, per il ripristino di presidi ospedalieri pubblici che integrino (non sostituiscano) le grandi strutture ospedaliere di eccellenza.

L’utilizzo dei fondi europei deve essere orientato per rilanciare le strutture pubbliche e ridimensionare (non integrare) le strutture private della sanità: è questo il discrimine politico di fondo su cui si misureranno gli orientamenti politici dei prossimi anni. È improbabile che si vada in questa direzione, che sarebbe l’unica per affrontare l’attuale crisi e dare una risposta strutturale di pianificazione che sottragga un ambito fondamentale come quello della salute collettiva agli interessi privati, con l’attuale governo che ha gestito la crisi sanitaria in maniera dignitosa, ma non ha capacità di una prospettiva strategica che vada oltre l’attuale assetto di compatibilità economico-finanziarie e sociali. Non incoraggia la nomina a ”consulente” dell’OMS di Mario Monti, uno dei maggiori responsabili dei tagli di questi anni, né l’invocare l’intervento di Draghi, il maggior ispiratore delle politiche di privatizzazione della fase liberista degli ultimi decenni prima di diventare il campione della difesa della zona euro con il cosiddetto bazooka del Quantitative Easing (QE).

Purtroppo, continua a mancare una alternativa della sinistra di classe, e in particolare dei comunisti, unici ad avere una visione strategica, ma attualmente privi della forza sociale per avviare una trasformazione della società in direzione socialista: il rischio immanente, qualora cada l’attuale esecutivo, è che si spostino ulteriormente a destra i rapporti di forza politici e sociali, con il rafforzamento delle componenti sovraniste xenofobe, razziste e delle frazioni iperliberiste che procederebbero ad un ulteriore smantellamento dello Stato sociale, degli istituti di difesa delle classi lavoratrici e dell’impianto democratico della Costituzione, in senso presidenzialistico.

23/08/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Giovanni Bruno
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