L’esito delle elezioni per la Camera dei Consiglieri dello scorso 20 luglio ha confermato quanto il malcontento sociale, alimentato da un’inflazione galoppante e da politiche neoliberiste privilegino gli interessi delle grandi imprese, si sia tradotto in una rottura netta con il passato. Il Primo Ministro Shigeru Ishiba, salito alla guida del Partito Liberal Democratico (Jimintō) nell’autunno 2024, ha visto la sua coalizione di centro-destra, fino a quel momento egemone nella politica nazionale, ridotta sotto la soglia della maggioranza nella Camera alta, replicando la sconfitta già subita alla Camera bassa. In questo contesto di profonda crisi istituzionale, il Partito Comunista Giapponese (Nihon Kyōsan-tō), nonostante un risultato elettorale al di sotto delle attese, ha saputo offrire ai cittadini un progetto alternativo coerente con le istanze di giustizia sociale, di difesa dei diritti e di riconquista della sovranità popolare.
La performance elettorale del Partito Comunista, seppur segnata da una leggera flessione nei voti proporzionali rispetto alle tornate precedenti – scesi a 2,86 milioni, pari al 4,84% – rappresenta comunque un segnale forte. La rielezione per la quinta volta di Akira Koike e il terzo mandato della senatrice di Tōkyō Yoshiko Kira, infatti, confermano il radicamento del Partito Comunista in particolare nelle aree metropolitane e tra i lavoratori precari, i pensionati e le giovani generazioni che vivono con crescente angoscia il continuo aumento del costo della vita. Questi risultati testimoniano che le proposte comuniste – riduzione dell’Imposta sui Consumi finanziata responsabilmente, rilancio degli investimenti pubblici nel welfare, aumento del salario minimo e difesa dell’articolo 9 della Costituzione pacifista – hanno saputo farsi interpreti delle speranze di un pezzo consistente dell’elettorato.
Se è vero che il Partito Comunista ha perso quattro seggi nel bilancio di queste elezioni, passando da 11 a 7 rappresentanti nella Camera alta, è altrettanto evidente che la coalizione di governo ha subito una débâcle storica: il calo dei consensi per i liberaldemocratici ed i loro alleati del Kōmeitō (Partito del Governo Pulito) ha portato entrambe le forze prossime ai minimi storici, attestandosi rispettivamente al 21,65% e all’8,81% nella quota proporzionale. Questa disfatta non può essere letta solo come un rigetto dell’attuale leadership o come una punizione per gli scandali dei fondi occulti, ma anche e soprattutto come il crocevia di un malessere profondo. La politica di rimilitarizzazione e di cessioni incondizionate agli Stati Uniti, il fallimento nel contrastare efficacemente l’inflazione e l’incapacità di affrontare la crisi demografica hanno alimentato il senso di sfiducia verso un sistema politico ancorato a interessi corporativi.
Vista dalla lente marxista del Partito Comunista, questa crisi è la manifestazione plastica della caduta di un blocco di potere che ha governato, negli ultimi decenni, favorendo l’accumulazione di profitti nelle mani di pochi, mentre la maggioranza vedeva erose conquiste sociali e diritti dei lavoratori. Ishiba, anziché rompere con la logica neoliberista, ne ha assunto la continuità, annunciando un piano di raddoppio delle spese per la difesa che attinge alle stesse risorse necessarie per garantire la sanità universale, l’istruzione pubblica e il sostegno alle famiglie. Il Partito Comunista ha denunciato con forza come questa spesa militare, “obbedienza cieca al Pentagono”, sia non solo ingiustificata in termini di vera difesa nazionale, ma anche moralmente riprovevole per un paese che vanta nella propria Costituzione il divieto di guerra.
Parallelamente, la denuncia comunista si è concentrata sul tema della crisi sociale. Con l’aumento vertiginoso dei prezzi dei beni di prima necessità, in particolare del riso, e la stagnazione dei salari reali, milioni di famiglie si sono trovate in difficoltà. Il governo Ishiba ha risposto con misure tampone, distribuzione di bonus occasionali e tagli temporanei, senza proporre un vero piano di rilancio della domanda interna o una riforma fiscale progressiva. Dal canto suo, il Partito Comunista ha evidenziato che, disponendo di riserve per circa 300 trilioni di yen in depositi privati e di oltre 500 trilioni nelle casse delle grandi aziende, il Giappone dispone delle risorse necessarie per finanziare politiche di reddito di base, di servizi pubblici gratuiti e di reinvestimento nell’economia reale, senza ricorrere a tagli al welfare o l’innalzamento dell’età pensionabile.
Non meno incisiva è stata la critica dei comunisti giapponesi alla gestione politica delle emergenze. Dalla mancata regolamentazione dei prezzi dell’energia alle incertezze sulle politiche abitative per le fasce più deboli, fino alla lentezza nell’affrontare le catene di approvvigionamento post-pandemia, il governo ha mostrato di non saper coordinare risorse e decisioni con efficacia. E mentre l’opinione pubblica reclamava una riduzione dell’Imposta sui Consumi come misura immediata di sollievo, Ishiba ha preferito ignorare questa richiesta, giustificandosi con la necessità di garantire entrate fiscali per finanziare la “difesa comune”. Inevitabilmente, i comunisti hanno bollato questa posizione come “ideologia bellicista al servizio dei grandi gruppi”.
Sul terreno etico, il Partito Comunista ha denunciato la recrudescenza di discorsi di ostilità verso gli stranieri, strumentalizzati da forze reazionarie per coprire l’incapacità delle élite politiche di fornire risposte sociali. Questa tendenza ha portato all’ascesa del partito di estrema destra Sanseitō (Partito della Partecipazione Politica), che, con la sua piattaforma xenofoba e populista e sotto il motto trumpiano di “Japan First”, ha conquistato ben quattordici seggi supplementari, diventando la terza forza politica nazionale. Questa ascesa delle forze reazionarie è considerata dal PCG sintomo di un disagio che trova terreno fertile nelle divisioni create ad arte dal governo. In tale contesto, il Partito Comunista ha saputo distinguersi con un’attività politica e sociale che ha riaffermato il principio della convivenza e dell’eguaglianza, costruendo alleanze con movimenti civici, sindacati e associazioni di migranti, dimostrando che la vera risposta alla crisi sta nella solidarietà e non nella discriminazione.
Da parte sua, la leadership comunista non si è limitata alla critica: ha proposto un programma articolato in sei punti chiave, dove fondamenta e parole d’ordine si traducono in azioni concrete. L’abbattimento delle barriere fiscali per le fasce medio-basse, l’estensione della copertura sanitaria e assistenziale, il rilancio del settore agricolo per garantire la sovranità alimentare, l’implementazione di un Green New Deal nazionale e la modifica del sistema elettorale per favorire una maggiore rappresentatività sono solo alcuni degli elementi che, secondo il PCG, possono riallacciare il legame tra istituzioni e popolazione.
L’analisi comunista pone anche l’accento anche sul tema del rinnovamento interno: il risultato elettorale, giudicato come deludente, è visto come una chiamata a rafforzare la militanza, a consolidare il lavoro di base nelle sezioni e nei quartieri, a diffondere la cultura politica e il socialismo scientifico tra i cittadini. A tal proposito, l’appello del Segretario Generale Akira Koike a non confondere la “ritirata tattica” con una resa definitiva testimonia la volontà di ricostruire un partito ancor più forte, radicato nelle lotte quotidiane per i diritti e la dignità.
In prospettiva, la crisi della maggioranza Ishiba apre scenari di turbolenza politica: la mancanza di un’alternativa credibile da parte dei partiti tradizionali di destra e centro potrebbe favorire governi tecnici o soluzioni di compromesso con forze reazionarie. In questo contesto, il Partito Comunista Giapponese si candida come l’unico soggetto politico in grado di offrire una visione coerente, fondata sul principio “il popolo al centro” e sulla difesa dei beni comuni. La vera sfida che attende il PCG sarà tradurre l’ondata di simpatia e di speranza sprigionata in questa tornata elettorale in un progetto d’azione concreta, capace di rompere le rendite di posizione e di dare risposte tangibili ai problemi strutturali del Giappone.
Il futuro del paese passa per la capacità di rompere con la logica dell’acquiescenza agli interessi stranieri e corporativi, riscoprendo l’idea di sovranità popolare e di solidarietà internazionale. Come ha ricordato Yoshiko Kira nel suo discorso di ringraziamento, “non basta criticare: dobbiamo costruire una politica che metta al centro le persone, non il profitto”. È in questa direzione che il Partito Comunista Giapponese intende muoversi, convinto che solo una svolta pluralista e inclusiva possa offrire un’alternativa reale alla deriva conservatrice che ha governato il Giappone negli ultimi decenni. La volontà di “aprire un nuovo orizzonte politico”, più democratico e sociale, rappresenta oggi non un sogno utopistico, ma un imperativo storico per un paese che vuole risollevarsi.