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La realtà fa schifo e noi la cambieremo: se questa è pazzia...

Possiamo dirci compagne e compagni, perché conosciamo la realtà, la viviamo e vogliamo cambiarla. Questa è la “pazzia” che è stata lanciata nell’assemblea convocata da Je so’ pazzo.


La realtà fa schifo e noi la cambieremo: se questa è pazzia... Credits: twitter.com/exopgjesopazzo

È stato già bello partecipare ad un’assemblea in cui i termini “compagno, compagna” si siano potuti pronunciare senza che qualcuno storcesse il naso. Anzi, se ne riconosceva tutta l’importanza. Credo sia un punto da sottolineare. Perché quando ci si dice compagni e compagne è perché si vive davvero la realtà.

Pochi giorni fa sono stato all’assemblea di lavoratori Honeywell che dopo 60 giorni di sciopero hanno deciso di rientrare al lavoro: “Sconfitti nei corpi ma non negli animi” avrebbe detto di loro Gramsci. Ebbene, io ero con loro nei primi giorni di presidio e con loro mi trovai a fermare un tir che era stato mandato a ritirare la produzione di quei lavoratori che stanno perdendo il loro posto di lavoro. Tanti di quei lavoratori non mi conoscevano, ma stavamo lottando insieme. Non abbiamo fatto foto di rito o in posa come certi senatori di quell’ossimoro politico che è la sinistra che vuol fare il centrosinistra. Invece - in un’immagine direi romantica - uno di loro mi si è avvicinato e ha condiviso con me il suo panino. Eravamo etimologicamente e realmente compagni: stavamo condividendo il pane e la lotta.

Ecco, stare nelle lotte, nei luoghi dove si produce lo sfruttamento, ci riporta necessariamente al contatto con la realtà che una politica di vertice ed autoreferenziale non conosce, non indaga, se non - miseramente - commissionando sondaggi elettorali.

I compagni dell’ex Opg - Je so’ pazzo hanno definito “pazzia” l’appello servito a lanciare l’assemblea di Roma del 18 novembre al Teatro Italia. A loro dobbiamo un sentito “Grazie!” per aver preso questo coraggio. Ma quella è una pazzia che può permettersi chi quel contatto con la realtà non lo ha mai abbandonato, come tutti quelli che erano a Roma, in quel teatro. E lì, in quello stesso teatro, non c’erano soggetti politici come Mdp, non c’erano i vari Bersani e D’Alema (a cui gli studenti napoletani hanno giustamente detto: “Jatevenne!”), che con i loro provvedimenti antipopolari, con le loro liberalizzazioni e le loro guerre hanno massacrato le classi popolari in Italia e all’estero.

Nell’appello si faceva questa domanda: “Perché non possiamo sognare?”. Una domanda, ovviamente, riferita al fatto che chi oggi detiene il potere ci schiaccia con il suo tallone di ferro sull’esistente e ci dice che questa realtà non può cambiare. Perché sognare ha già un potenziale rivoluzionario, perché noi sappiamo che quando si lavora con la consapevolezza della realtà concreta per cambiare l’esistente, si sta mettendo in moto un processo rivoluzionario, perché si ha chiara l’immagine della società che vogliamo, del nostro sogno di un mondo senza sfruttati e senza sfruttatori, ma mantenendo ferma la necessità dell’analisi concreta della realtà concreta.

Noi che eravamo al Teatro Italia, il 18 novembre, e tutti quelli che avrebbero voluto essere lì quel giorno, conosciamo bene la necessità di superare l’esistente. Perché l’esistenza attuale è fatta di 13 milioni di persone che non possono curarsi, della metà dei pensionati con reddito che non permette una vita dignitosa, di milioni di precari che qualche volta non ce la fanno a condurre oltre la propria esistenza e vi pongono termine, di lavoratori costretti a pisciarsi addosso in una fabbrica e di 3 morti ammazzati sul lavoro ogni giorno, di intensità dello sfruttamento, di lavoro gratuito, in nero, sottopagato, senza diritti e di lavoratori uccisi nella lotta come è stato per il compagno AdbElsalam.

Se oggi questo è l’esistente è perché il potere è in mano agli sfruttatori. Per cambiare l’esistente dovremo, quindi, rimettere al centro delle questioni quella del potere: dovremo cioè dotarci di un programma politico che, nel farlo vivere nelle lotte, nelle periferie, nei luoghi di lavoro, ovunque si presenti lo sfruttamento in ogni sua forma, si ponga lo scopo di recuperare alle classi popolari pezzi di potere da sottrarre al padronato: tra i primi punti, allora, dobbiamo mettere il recupero di spazi di democrazia reale nei luoghi di lavoro, sottratti ai lavoratori con accordi che ne hanno depotenziato la possibilità di conflitto; e dobbiamo pretendere la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, l’eliminazione delle precarietà, una scuola che formi pensiero critico, il ritorno alla Costituzione nata da quel grande conflitto sociale e popolare che fu la Resistenza antifascista.

Dovremo avere ben chiaro, però, che dovremo riuscire, oltre a fare una lista per le prossime elezioni, a darci una forma organizzata senza la quale non potremo pensare di perseguire le più naturali aspirazioni delle classi popolari.

Se saremo capaci di questo, il risultato elettorale sarà addirittura un punto secondario, perché staremo lavorando ad un obiettivo ben più ambizioso ed importante: per dirla con Marx, alla “unione sempre più estesa” delle classi popolari. Sarà un lavoro lungo, difficile. Ma non sarà una perdita di tempo come una qualsiasi, indistinta, autoreferenziale unità della sinistra, che risulta più utile ad un certo ceto politico per autoconservarsi che ai pezzi più vulnerabili di questa società per uscire dalla condizione precaria in cui è costretta.

E allora, come Majakovskij, inutile porsi la domanda se aderire o meno ad un percorso del genere. Questa è la nostra sinistra, perché è una sinistra di classe, una sinistra popolare, cioè che vuole restituire tutto il potere al popolo.

25/11/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: twitter.com/exopgjesopazzo

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L'Autore

Carmine Tomeo
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