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Recensione a La maledizione italiana di Mario Josè Cereghino, Giovanni Fasanella

La fine della Seconda guerra mondiale segna la ridislocazione e l’intensificazione delle pesanti ingerenze britanniche nella vita della Penisola orientate a limitarne e condizionarne politica interna ed estera, allo scopo di confermare ruolo e interessi strategici del declinante Impero d’Oltremanica. Bersaglio elettivo, insieme al Pci e a figure di “irregolari”, l’Alcide De Gasperi fautore del “compromesso costituzionale” e artefice dell’affrancamento dell’Italia dalle rinnovate pretese egemoniche di Londra.


Recensione a La maledizione italiana di Mario Josè Cereghino, Giovanni Fasanella

Una ultra-decennale, smaccata e abbagliante vicenda di “interferenze” sulla politica italiana ci ha abituati a pensare agli Stati Uniti come all’ingombrante e imbarazzante Grande Fratello, che ha posto e più di sempre pone una gravosissima ipoteca sulle sorti del Bel Paese; in tal modo rischiamo di smarrire il quadro più generale e le articolazioni delle vicende che hanno sonoramente scandito la nostra traiettoria nazionale dopo la fine della Seconda guerra mondiale. La stilizzazione convenzionale, che pur in modo plausibile descrive forme e modi della storica “sovranità limitata” che ci affligge come una sorta di implacabile destino, infatti, in sede non immediatamente politico-polemica, richiederebbe di definire e specificare occorrenze, periodizzazioni e soggettività, che non sempre corrispondono allo stereotipo invalso dalla rottura dell’”unità antifascista” del secondo dopoguerra, descrivente un rapporto di macroscopica e unidimensionale passività della Penisola, nei riguardi della (attuale) prima potenza mondiale. Viene infatti emergendo, da alcuni anni - grazie ad autentici e sperimentati “segugi” del giornalismo d’inchiesta, quali gli autori di questo volume, che da tempo setacciano in modo certosino i documenti desecretati dei Servizi segreti britannici - tutta una fittissima e impressionante trama di attenzioni. Chiamarle attenzioni si rivela decisamente eufemistico e ironico, stante l’ossessiva e insistita rivendicazione di un diritto di prelazione sul nostro Paese da parte di un’Inghilterra che, uscita vincitrice (anche se assai malconcia) dalla Seconda guerra mondiale e determinata a reinsediarsi stabilmente nell’area mediterranea, sviluppa e fa valere le ombre pesanti di un’ipoteca politica e istituzionale su un’Italia stimata poco più di una mera colonia e pensata come naturale trampolino funzionale e subalterno verso quanto rimaneva dei fasti del vecchio Impero [1]. D’altra parte, come gli stessi autori hanno già ampiamente documentato [2], quell’interesse risaliva agli esiti del Primo conflitto mondiale e, ancor più significativamente, alle vicende che avrebbero condotto il fascismo al potere, seguite con estrema diligenza dal Foreign Office e prima di tutto da quel Sir Winston Churchill che, in più occasioni, non avrebbe mancato di segnalare calorosamente (in pubblico, come in conversazioni riservate) il proprio apprezzamento per l’impresa mussoliniana, per i suoi benefici effetti in termini di salvaguardia della Penisola dal pericolo bolscevico, e che avrebbe intrattenuto fruttuosi e discreti rapporti con vari esponenti del Regime, anche con lo sguardo rivolto a una possibile, utilmente continuista successione del Duce. Gli archivi risalenti a quegli anni pullulano di contatti tra settori dell’establishment del Regno Unito, del Foreign Office e dei Servizi ed esponenti di primo piano dell’Italia mussoliniana, soprattutto nell’area del “fascismo buono” (p. 23), a cominciare dalla quotatissima ”Aquila Volante” Italo Balbo e da Dino Grandi (Ministro degli Esteri dal settembre 1919 al luglio 1932), ambedue personalità del “partito anglofilo” (p. 29). A dimostrazione del fatto che, oltre e al di là della soddisfazione contingente della quasi totalità delle classi dirigenti di quel paese per la piena riuscita dell’esperimento anti-comunista, brillantemente portato a fondo dal “saltimbanco” [3] di Predappio, Londra era compulsivamente attenta alle complesse vicende della Penisola, che aveva preso a considerare parte organica della propria sfera d’influenza (in ragione della sua proiezione mediterranea, ma non solo).

D’altra parte, contatti informali ininterrotti anche ai più alti livelli del Regno, come abbondantemente testimoniato da quegli stessi Archivi (accuratamente esplorati e attraversati da Cereghino e Fasanella), consentivano di monitorare  e misurare con grande attenzione gli equilibri interni dello stato fascista, cogliendone articolazioni e diversificazioni, sfumature e differenze, al fine di influenzarne in qualche modo politiche o orientamenti, non disdegnando di concepire e prefigurare possibili scenari futuri, che rientrassero fattivamente negli interessi imperiali britannici di lungo periodo.   

Il corso e gli esiti della Seconda guerra mondiale, naturalmente, avrebbero confermato la preferenza e la “competenza   preminente” (p.  84) mediterraneo-peninsulare di un’Inghilterra protesa verso i tradizionali scacchieri di spettanza medio-orientale, con quella sorta di implicita “opzione”, che la Conferenza di Yalta confermava, prima che il nuovo, obbligato protagonismo statunitense ne incrinasse le certezze apodittiche svelando una rivalità di fatto (ancorché mitigata dal robusto “collante” anticomunista). Il conflitto, infatti, condotto e concluso vittoriosamente da Usa, Urss e Gran Bretagna, ratificava nei fatti un vistoso infiacchimento della “presa” planetaria di quest’ultima e, mentre delineava l’attrito epocale delle future superpotenze, anche proponeva le inquietudini di un rapporto tra gli alleati occidentali, che era destinato a veder emergere Washington come l’arbitro della politica di questo emisfero, così in progressione oscurando (e surrogando) prestigio e influenza del Regno Unito.

Sarebbe stata soprattutto l’Italia lo spazio di fermentazione e disputa della rivalità “atlantica”: il Paese avrebbe pagato prezzi non irrisori all’accanita revanche inglese, a cominciare da una pratica sistematica di intrusioni, più o meno morbide, che avrebbero preso a bersaglio, sullo sfondo di un anticomunismo viscerale (bersaglio “metafisico” e di lungo periodo il Partito comunista di Palmiro Togliatti), la figura emergente di quell’Alcide de Gasperi, che veniva delineandosi come punto di mediazione delle diverse sensibilità ideali e di massa ma che, allo stesso tempo, incarnava il tentativo della Penisola, uscita sconfitta e distrutta dalla guerra, di rosicchiare e recuperare spazi di agibilità politica interna ed estera, suscettibili di consentire gradualmente un ritorno alla normalità e alla piena legittimazione internazionale. 

De Gasperi, infatti, era prima di tutto, con il Segretario comunista, l’artefice del patto costituzionale (<<il primo compromesso storico>> secondo le definizione di Francesco Cossiga, pag. 9) delle forze popolari che non si erano limitate a condurre vittoriosamente la Resistenza al nazi-fascismo, ma progettavano un reinserimento organico e paritario del Paese nel consorzio continentale ed mondiale (in specie mediterraneo) e dunque il ripristino, su basi nuove, di una preliminare, piena indipendenza nazionale e di un protagonismo “d’area”, a partire da quel Medio Oriente, nel quale convergevano storicamente corposi interessi economici d’Oltremanica. E quella intentio entrava in collisione patente con l’usurato ma auspicato rilancio dell’egemonia britannica (che dalla fine del Primo conflitto mondiale pensava il Medio Oriente e all’Africa  settentrionale come campo d’esercizio specifico della propria influenza, base di rifornimento di materie prime essenziali e “ponte” verso l’Oceano Indiano attraverso il “Canale”). Dato tutt’altro che  irrilevante ma rappresentativo del contesto, all’azione di contrasto del leader democristiano da parte della Gran Bretagna [4] si affiancava quella, “interna” e inflessibile di un Vaticano che, nella persona di Pio XII e dei circoli più reazionari a lui contigui (quali i Gesuiti del “microfono di Dio”, Riccardo Lombardi), paventava naturalmente in De Gasperi il promotore di uno pericoloso e irreversibile scivolamento verso sinistra, il candido ed estemporaneo “cavallo di Troia” del bolscevismo internazionale con base e ispirazione in Unione Sovietica. Cauto e felpato riferimento di De Gasperi in Vaticano ed esponente tanto della “linea filoamericana” (p. 13), quanto dell’inclinazione costituzionale del trentino, l’influente (ma minoritario) Sostituto della Segreteria di Stato della Santa Sede e responsabile dell’ufficio informazioni del Vaticano, il futuro pontefice Giovan Battista Montini, che poco potrà tuttavia per mitigare le pulsioni reazionarie in campo, tra sacro e profano.

In questa limacciosa temperie si dispiegano “la tenaglia di Sir Winston e Pacelli” e la “guerra di logoramento” (p. 83), un’ostinata sinergia eversivo-conservativa tesa a usurare rapidamente e infine liquidare l’esponente di punta democristiano, che contempla e dà fondo a una vasta gamma di strumenti d’intervento, dalla facile e grossolana calunnia o dalla volgare insinuazione propagandistica, all’operazione a largo raggio di screditamento, grazie a una vera e propria oliata “macchina del fango” [5], alla progettazione di un efficace e più o meno brutale passaggio di mano conservatore e qualunquista (ad esempio, appunto, l’omonima, ma effimera, formazione politico-partitica fondata nel febbraio 1946 dal giornalista campano Guglielmo Giannini, tesa a raccogliere e coagulare i peggiori fermenti reazionari dell’Italia a cavallo tra monarchia e repubblica), il riciclo e l’utilizzo molteplice e a vari livelli della peggior manovalanza ex-fascista e repubblichina, spesso arruolata in una “stampa cliente” [passim] dallo stile scandalistico e diffamatorio, dagli inglesi generosamente finanziata allo scopo di intorbidire le acque della vita politica del Paese e pilotarne gli esiti secondo i propri desiderata. Un campionario umano e ideologico, che rimanda alle durezze e ai pericoli di un’epoca della nostra storia che rischiamo di obliare pericolosamente e di cui torneranno ad affiorare i miasmi.

La panoplia dispiegata in questa grande iniziativa strategica di lungo periodo vede dunque al centro a più riprese la “furia” (2a di copertina) dello stesso Winston Churchill, anche se è chiaro che è l’intera classe dirigente di quel paese, a tutti i livelli della dirigenza (con sfumature e sensibilità varie), a tessere la trama di un’”operazione-sopravvivenzaegemonica (passim) che mira a contrastare  l’azione del leader democristiano in area mediorientale e nord-africana, inceppare la rete dei rapporti che la nuova Italia sta vivacemente tessendo e che mettono in crisi il tradizionale ruolo britannico, il dinamismo che spregiudicatamente ha preso a interloquire con le nuove soggettività statuali nazionaliste e anti-colonialiste, che la fine della guerra ha reso inquiete e movimentato.

I casi dell’Egitto di Nasser e dell’Iran di Mossadeq sono illuminanti. Tradizionali luoghi di dispiegamento degli interessi di Londra e oggetto delle politiche di rapina delle aziende petrolifere britanniche (e non solo), i due stati hanno intrapreso percorsi eccentrici e radicali di valorizzazione delle proprie ricchezze,  il primo incombendo minacciosamente sul Canale di Suez (“la chiave di volta degli equilibri nell’intera area mediorientale e mediterranea”, p. 212), il secondo procedendo direttamente alla nazionalizzazione della Anglo-Persian Oil Company (dal 1954, British Petroleum).

Ebbene, De Gasperi si è creativamente inserito nella dialettica regionale, e l’Italia non solo ha preso ad armare “i regimi nazionalisti egiziano e iraniano, proponendosi con un profilo strategico e una postura geopolitica coordinati direttamente da Roma in un’area in cui Londra non tollera concorrenti”, ma “rivendica pure il diritto di entrare a far parte degli organismi di difesa del Medio Oriente” (p. 208). Sta insomma muovendosi da battitore libero rischiando di destabilizzare l’area, al punto che, nota lo stesso Ministro degli Esteri Anthony Eden, essa (la stessa, si pensa, che ha perduto la guerra) “osa incitare alla rivolta popolare contro gli inglesi sulle rive del Nilo” (p. 204) Ce n’è abbastanza per intensificare le macchinazioni atte a terremotare e riorientare la politica del Bel Paese. Strumenti del disegno saranno gli stessi organismi e lo stesso personale che, durante la Seconda guerra mondiale avevano svolto attività di spionaggio e sabotaggio ai danni dei tedeschi. Tra l’ampia gamma di entità e strutture segrete inglesi implicate svetta la creatura personale di Churchill, il SOE (Special Operations Executive), che manovra su tutti i piani delle sue possibilità, ma che punterà soprattutto sul logoramento della figura del Presidente del Consiglio italiano, delle personalità a lui afferenti e delle scelte d’area. 

Prima e oltre lo stesso Presidente del Consiglio, il delfino e probabile successore, influentissimo democristiano, il Ministro degli Esteri Attilio Piccioni, liquidato dal coinvolgimento del figlio Piero nel torbido ”affare Montesi”, sul quale la macchina del fango della stampa di destra, opportunamente foraggiata, scatenerà una campagna senza requie, “bruciando” i destini politici dell’uomo di stato.

Ma De Gasperi verrà anche direttamente trascinato nella polemica più velenosa da “Giovannino” Guareschi (il celebre e grossolano ideatore dell’epopea di “Peppone e Don Camillo”), che sul famigerato “Candido” pubblicava due clamorosi falsi, “giratigli” da chi di dovere, riguardanti lettere con le quali l’esponente di vertice della DC avrebbe sollecitato dagli Alleati il bombardamento massiccio di Roma, al fine di sobillare la popolazione alla rivolta contro il regime fascista. De Gasperi ne usciva assolutamente integro, ma si avviava tuttavia alla conclusione dell’esperienza di statista, come della sua vicenda terrena.

“Coda” non casuale del volume, appena abbozzata, ma ellitticamente protesa a integrare in modo significativo il contesto, l’accenno, stilizzato ma aperto alle interpretazioni più plausibili, alla figura di Enrico Mattei e al suo “ciclo” (p. 265). Ritenuto a Londra, ma non solo, dopo la morte di De Gasperi “il nuovo dominus della vita politica italiana”, del quale preoccupa “la vertiginosa ascesa”, cui la grande industria privata italiana connivente imputa addirittura nefaste “ambizioni imperiali” (pp. 265/266) e una politica estera ed energetica a tutto campo e un po’ troppo sensibile al pubblico, lo spregiudicato, volitivo e indipendente manager pubblico andrà incontro alla spietata ostilità di numerosi, multicolori e trasversali nemici, interni ed esterni, assai potenti e disposti a tutto... E questo, dicono Cereghino e Fasanella, “è un altro capitolo della nostra storia” (p. 271). Altro, ma ferreamente coerente con una vicenda di permanente indigenza italica, in cui continuiamo a  patire sotto qualsivoglia governo o quadro politico il “miserabilismo” [6] e l’esemplare insulsaggine delle nostre classi dirigenti. Oggi impegnate a toccare il fondo dell’abisso, in un’affollata gara che promette poche sorprese, ma tanto squallore.

Note

[1] “Le strategie inglesi (…) consistono nel trattare l’Italia alla stregua di un dominio esclusivo e privato”, nelle parole dell’agente Oss Max Corvo; “obiettivo non condiviso dagli Americani”, scrivono gli Autori interpretandone il pensiero, “che hanno invece altre idee in proposito: fare in modo che il Paese si schieri decisamente a fianco degli Usa nel dopoguerra” (pag. 58).

[2] Si vedano, al riguardo, Il golpe inglese. Da Matteotti a Moro: le prove della guerra segreta per il controllo del petrolio e dell’Italia, Milano, Chiarelettere, 2011; Le menti del doppio Stato. Dagli archivi anglo-americani e del servizio segreto del Pci il perché degli anni di piombo, ivi, 2020;  Nero di Londra. Da Caporetto alla Marcia su Roma. Come l’intelligence militare britannica creò il fascista Mussolini (2022). 

[3] Dobbiamo il conio dell’icastica espressione all’insospettabile Paolo Monelli (Roma 1943, Longanesi, 1963, ed. or. 1945), che descrive in tinte spietatamente realistiche le dramatis personae del crepuscolo del Regime, denudandone e stilizzandone tic e miserie (e così rendendo ancor più pateticamente drammatico il segno complessivo dell’età mussoliniana). Si veda poi, significativamente, tutta la vexata quaestio della celebre borsa gialla che il Duce recava con sé al momento dell’ignominiosa cattura da parte dei partigiani durante il rocambolesco “trasferimento” in Svizzera, nell’aprile 1945. La borsa avrebbe contenuto il prezioso e cospicuo epistolario che l’ex-direttore massimalista de “L’Avanti!” aveva intrattenuto con il Premier britannico, che il Duce intendeva utilizzare come arma di scambio e ricatto. V. al riguardo le pagg. 240-248.

[4] Recita per la precisione il sottotitolo del volume, “La guerra di Churchill contro De Gasperi, le trame per il controllo del Medio Oriente e del Canale di Suez, la lunga storia di una ribellione stroncata”.

[5] Passim.

[6] Mario Tronti, La politica al tramonto, Torino, Einaudi, 1996.

16/08/2025 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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