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Made in Italy, l’abito che uccide

Prima negano il coinvolgimento poi, scoperte, si dimenticano di risarcire le vittime come chiede l’Onu. Si tratta delle grandi firme della moda italiana che fanno grandi affari sfruttando la manodopera a basso costo in Bangladesh.


Made in Italy, l’abito che uccide

Prima negano il coinvolgimento poi, scoperte, si dimenticano di risarcire le vittime come chiede l’Onu. Si tratta delle grandi firme della moda italiana che fanno grandi affari sfruttando la manodopera a basso costo in Bangladesh. 

di Massimo Lauria - remocontro

Una campagna sociale ricorda che molte grandi firme della moda italiana non hanno ancora pagato per i morti del Rana Plaza in Bangladesh. Le famiglie dei 1138 morti e oltre 2000 feriti attendono. C’è chi deve 5 milioni di euro ma non onora il debito e il Fondo per le vittime voluto dall’Onu è a secco. 

Il Made in Italy che uccide è quello che non riconosce le proprie responsabilità. È quanto sta accadendo con diverse grandi firme della moda italiana, che continuano a negare un risarcimento per i morti del Rana Plaza in Bangladesh. A quasi due anni dal crollo del palazzo che ha causato la morte di 1138 lavoratori e il ferimento di altri 2000, i familiari delle vittime attendono che anche le multinazionali italiane facciano la loro parte, versando alcuni milioni di euro nel fondo per le vittime istituito dall’Onu, il Donor Trust Fund. 

A ricordare l’assenza di marchi come Benetton o Robe di Kappe - tanto per citare alcuni italiani - è una campagna sociale lanciata sul web. Obiettivo dei media attivisti è la raccolta di un milione di firme da consegnare ai vertici delle aziende italiane durante la Settimana della moda di Milano tra il 25 febbraio e il 2 marzo. Secondo la Campagna Abiti puliti (Clean Clothes Campaign) alcune di questa aziende avrebbero violato i termini dell’Accordo sulla prevenzione incendi e sicurezza sul lavoro in Bangladesh. 

L’Accordo è nato all’indomani del disastro di Dacca. Le multinazionali italiane assieme ad altri 150 marchi nel mondo, avevano siglato il documento di risarcimento sotto pressione di una campagna mondiale. Ma poi non se n’è saputo più nulla. E all’appello mancano quasi la metà dei 40 milioni di euro calcolati per le migliaia di vittime di quel giorno. Walmart, Mango, Benetton, C&A, El Corte Ingles, Kik, Walt Disney, H&M oltre alle altre italiane Piazza Italia, Manifattura Corona e Yes Zee sono solo alcune delle aziende presenti nell’edificio bengalese. 

Il crollo del Rana Plaza, l’edificio commerciale di 8 piani, è considerato il più grave incidente mortale della modernità avvenuto in una fabbrica tessile. Il giorno prima del crollo erano state scoperte delle crepe sui muri. Ma l’avviso di sgomberare e non utilizzare l’edificio era stato ignorato, obbligando i lavoratori tessili a tornare il giorno successivo. La mattina del 23 aprile 2013, ora di punta, il palazzo era stipato di persone: oltre otto mila lavoratori, tra fabbriche di abbigliamento, una banca e altri negozi, sono state sepolte dalle macerie.

Il 23 aprile 2013 segna anche la data della più grande storia di sfruttamento del lavoro al mondo. Oltre 150 multinazionali della moda si sono serviti di migliaia di lavoratori sotto pagati. Sulla loro pelle hanno fatto crescere per anni i propri fatturati, ignorando i più elementari diritti sulla sicurezza.
Ora gli attivisti per i diritti umani chiedono di rispettare i termini di quell’accordo, con la denuncia nei confronti della Benetton, definita da Laura Lucchetti della ‘Campagna abiti puliti’ «L’unico marchio internazionale legato al Rana Plaza a non aver versato neanche un centesimo nel Rana Plaza Donors Trust Fund», istituito dell’Organizzazione mondiale del lavoro, ILO, nel gennaio 2013. 

 

 

 

12/02/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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Massimo Lauria
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