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Via da Valona!

Nel 1920 un battaglione di bersaglieri si ammutinò contro la colonizzazione dell’Albania. Grazie al sostegno popolare fecero fallire la spedizione coloniale e innescarono il tentativo insurrezionale noto come le “giornate rosse”, proprio al culmine del Biennio Rosso.


Via da Valona!

Ruggero Giacomini, Via da Valona! La rivolta dei bersaglieri e le “giornate rosse, Castelvecchi, Roma 2020, pp. 285, 24 euro.

“Alzatomi e vestitomi – racconterà il tenente Panseri – mi trovai davanti parecchi Bersaglieri armati che gridavano: non si parte, vogliamo restare dove siamo”. 

Nel giugno 1920 un battaglione di bersaglieri di stanza nella caserma anconetana di Villarey si ammutinò per non fare la guerra all’Albania. Ottennero la solidarietà dei commilitoni e di larga parte della popolazione e costrinsero il governo Giolitti, appena insediato, a revocare l’ordine di partenza, obbligandolo di fatto a rinunciare alle ambizioni colonialiste, per rispettare l’indipendenza schipetara.

Fu la prima ribellione di soldati dell’esercito italiano che ottenne il risultato e la più importante dopo la Rivoluzione d’ottobre. Nel momento culminante del biennio rosso, quando anche le attese rivoluzionarie erano vive e le possibilità anche, nata per solidarietà ai bersaglieri, l’insurrezione popolare proseguì contando di innescare l’attesa Rivoluzione. Furono le “giornate rosse”: scioperi, manifestazioni e scontri si ebbero in tutta Italia.

Via da Valona!, avvalendosi di materiale d’archivio inedito, è la prima e completa ricostruzione storica a 100 anni di distanza da quel famoso evento. 

Autore dell’opera è Ruggero Giacomini, dottore di ricerca in Storia dei partiti e dei movimenti politici, allievo e collaboratore di Enzo Santarelli all’Università di Urbino, è presidente del centro culturale “La città futura”. Autore di rigorosi e innovativi studi su Gramsci, sui movimenti della pace e sulla Resistenza, ha già pubblicato con Castelvecchi Gramsci e il giudice (2017) e Il processo Stalin (2019).

Il primo capitolo, Partir bisogna, documenta come il battaglione dei bersaglieri avrebbe dovuto soccorrere le truppe coloniali italiane in Albania “costrette sulla difensiva dai ribelli albanesi a Valona” [1] (7). Tuttavia, “per Ancona corse voce che dopo il rancio c’era stata in caserma una dimostrazione contro la partenza” (8). Tanto più che “la prospettiva di andare a fare la guerra ad un popolo che voleva essere padrone a casa propria non era certo in grado di suscitare il consenso nella truppa” (idem). I bersaglieri si recarono dai partiti della sinistra per avere il supporto del movimento operaio nella loro lotta e l’ottennero. 

Nel secondo capitolo, Albania contesa, si ricorda come il paese si fosse dichiarato indipendente nel 1912, grazie alla crisi dell’Impero ottomano.

Dopo la Rivoluzione di Ottobre vennero resi noti i patti segreti con cui l’Italia era entrata nella Prima guerra imperialista mondiale, che prevedevano, tra l’altro, un protettorato su una parte dell’Albania. Finita la guerra l’Italia mirava a spartirsi l’Albania con la Grecia, ma la popolazione insorse. In Italia si mobilitarono contro il colonialismo il Partito socialista a la Cgl e già a Trieste parte dei militari destinati all’Albania erano insorti.

Nel terzo capitolo: 11° Bersaglieri, si narra di come il battaglione che doveva essere smobilitato, fu improvvisamente incaricato di intervenire in Albania.

Nel quarto capitolo, Serata alle Muse, si narra di come le autorità preposte non compresero quello che covava. Nei capitoli successivi si raccontano con dovizie di particolari e con una narrazione ben documentata e decisamente avvincente i diversi sviluppi dell’ammutinamento. Vediamo poi, a partire dal capitolo 18 come nella situazione esplosiva del biennio rosso l’ammutinamento fu la scintilla che innescò un’insurrezione spontanea.

L’ammutinamento dei soldati terminò quando i militari furono rassicurati di aver vinto il braccio di ferro e che, quindi, non sarebbero più partiti. I soldati imposero anche che i borghesi che li avevano aiutati non dovevano essere toccati. Peraltro “la prosecuzione della lotta, per la vaghezza delle prospettive e l’incertezza della situazione generale, non trovava il consenso della maggioranza all’interno della caserma” (165). Così, sebbene “la rivolta militare a Villarey era durata poco più di dodici ore, [furono] sufficienti tuttavia a mettere in agitazione tutto il paese e sconvolgere i piani di guerra del governo (166). 

Nel frattempo proseguiva l’insurrezione popolare ad Ancona. D’altra parte con l’arrivo di truppe di rinforzo da tutta Italia, valutata la sproporzione delle forze, i rivoltosi si erano ritirati verso la campagna. Nel frattempo però i comuni vicini avevano indetto lo sciopero generale. Particolarmente significativa fu la lotta nel centro operaio di Jesi. Nonostante la repressione che in seguito colpì la sinistra sollevatasi nell’intera provincia di Ancona, “si può pensare che da quella esperienza comune di lotta nella reciproca stima abbia preso avvio quell’avvicinamento che avrebbe portato negli anni del fascismo molti anarchici anconetani ad aderire al partito comunista” (192).

Nel frattempo proseguiva lo sciopero generale in tutta la provincia per la scarcerazione di tutti coloro ai quali non era addebitato uno specifico reato. “Lo sciopero generale continuava «compatto senza alcuna defezione»: straordinaria prova di una classe operaia che nonostante la sconfitta del tentativo di rivoluzione restava compatta e determinata” (194). In tal modo “la compatta resistenza operaia alla fine la spunta e il 5 luglio, dopo la cessazione degli arresti e delle detenzioni di massa, lo sciopero cessa e riprende il lavoro” (197). Quindi “le giornate rosse superarono in durata la settimana rossa. E ben più che nel 1914 il movimento di lotta «fu generalizzato ed esteso». E meno isolato geograficamente e socialmente, il che offriva certamente inedite opportunità. Nelle campagne in quel periodo erano in forte agitazione i braccianti senza lavoro del Mezzogiorno e i mezzadri dell’Italia centrale per il miglioramento dei patti colonici, ma del tutto sopite riesplodevano qua e là le proteste per il carovita” (198-99).

Tanto più che “attorno alla rivolta dei bersaglieri e al moto popolare di Ancona si sviluppò un largo movimento di lotta e solidarietà”. Si mirava “con gli scioperi e le manifestazioni di massa in varie parti del paese, a rafforzare il rifiuto dei soldati di partire per l’Albania, ottenere il rimpatrio dei militari italiani che vi si trovavano e, nelle situazioni più avanzate, uscire dalle astratte declamazioni e porre a tema l’aspirazione diffusa a una repubblica socialisticamente connotata” (205).

Particolarmente significativa fu la mobilitazione nella città operaia di Terni, che rimase frustrata dal fatto che né il Partito socialista, né la Cgl erano intenzionati a espandere la protesta. Così la grande mobilitazione si concluse con un eccidio da parte delle forze dell’ordine borghese e con la proclamazione dello sciopero generale in tutta l’Umbria, senza che si estendesse a livello nazionale per la contrarietà della Cgl e del Partito socialista.

Nel frattempo in solidarietà con la sommossa popolare di Ancona si erano mobilitati i lavoratori delle Marche e della Romagna che, con ogni mezzo necessario, agivano per impedire alle forze armate di raggiungere Ancona. Tuttavia “a uno sviluppo di tipo insurrezionale secondo il precedente della settimana rossa facevano da ostacolo due elementi: l’esperienza di massa della guerra, che aveva insegnato l’importanza di un buon comando e della disciplina, e il prestigio e la forza accresciute del partito socialista si cui si appuntavano le aspettative di una preparazione nazionale risolutiva” (216-17). Dinanzi alle mobilitazioni che si estendevano in tutto il paese la posizione decisamente prevalente nel partito era di sviluppare al massimo la mobilitazione contro l’aggressione all’Albania e, al contempo, di mantenere le masse disciplinate “in attesa di ordini relativamente allo scontro più impegnativo per il potere” (219).

“La situazione romana riflette in maniera concentrata le tensioni e le contraddizioni esistenti nel paese, tra spinte solidaristiche e di lotta dal basso e le incertezze e prudenze del partito socialista e dei sindacati” (221). Alla fine lo sciopero generale, affermatosi anche a Roma, rientrò quando il governo si vide costretto a cedere sulla spedizione in Albania. In realtà il governo Giolitti sosteneva che l’Italia dove assumere un mandato per favorire la piena indipendenza dell’Albania e, perciò, doveva mantenere il presidio militare a Valona. Tuttavia né i socialisti in parlamento né le masse popolari smisero di battersi per un completo ritiro, tanto che alla fine il movimento “via da Valona” ebbe la meglio e Giolitti ritirò completamente l’esercito.

D’altra parte, grazie alla capacità di egemonia l’ideologia dominante diede la colpa dell’ammutinamento a gli ufficiali militaristi e di conseguenza la ribellione popolare sarebbe stata un equivoco, conclusione di fatto accettata dai socialisti, che così potevano giustificare la propria irresolutezza. Lo scontro proseguì nei processi, in cui le sinistre si unirono nella difesa degli imputati evidenziando come le azioni sovversive non erano nulla a fronte della impresa fiumana e che non potevano essere condannati pochi imputati, visto che si era trattato di una mobilitazione di massa. Il processo terminò con condanne tutto sommato miti a un numero molto ridotto di imputati.

Peraltro, “la rivolta di Ancona mostrò le distanze abissali tra il sentimento popolare rivoluzionario, che si innestava nell’avversione alla guerra, e i disegni del poeta vate [D’Annunzio] già fieramente interventista e proiettati a un rilancio dell’iniziativa imperialista” (258).

“L’Ordine Nuovo” non mancò di criticare l’irresolutezza della direzione del partito socialista in quella situazione prerivoluzionaria. D’altra parte “l’orientamento spontaneo della massa dei soldati era tale da neutralizzare l’impiego dell’esercito in funzione repressiva antipopolare; non c’erano invece le condizioni di coscienza e organizzazione perché la truppa anche in limitati suoi reparti potesse avere un ruolo attivo nel movimento rivoluzionario. Vero è che i dirigenti del Psi (…) il problema di una politica in ambito militare non se la ponevano” (260). Da parte sua, “Gramsci avvertiva anche che era cominciato il declino di credibilità della direzione del Psi e incombeva il rischio che il partito, rivelatosi «meramente parlamentare», finisse per perdere ogni controllo sulle masse; e queste, non avendo nessuna guida potessero (…) subire una sconfitta storica” (261).

“Sul piano dell’esperienza di massa, le giornate rosse si collocano al culmine del biennio rosso” (263) e dimostravano “che si era ricomposto il blocco sociale e politico della settimana rossa” (264). D’altra parte, “la stessa impotenza attendista rispetto alla prospettiva della rivoluzione il Psi la dimostrerà anche di fronte al fenomeno reazionario fascista” (263). Resta il fatto che “la lotta dei soldati e del popolo di Ancona dell’estate 1920 aiutò la causa dei patrioti albanesi che si battevano giustamente per l’indipendenza del proprio paese” (268).

 

Note:

[1] Citeremo direttamente nel testo fra parentesi tonde le pagine del libro recensito.

30/04/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo
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