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Tra crisi economica e sue conseguenze: diseguaglianze e povertà

Recensiamo in quest’articolo l’ultimo libro di Francesco Schettino e Fabio Clementi, che analizza gli effetti economici e sociali della crisi del 2008-9 unite alle prospettive delle ripercussioni della crisi da Covid-19 e le sue conseguenze sul mondo del lavoro.


Tra crisi economica e sue conseguenze: diseguaglianze e povertà

È stato pubblicato di recente per le edizioni della Città del Sole un importante libro di approfondimento sull’attuale crisi economica, scritto in collaborazione tra due docenti di economia politica, Francesco Schettino e Fabio Clementi. Il testo pubblicato è diviso in due parti: nella prima Schettino fa un’analisi puntuale della crisi esplosa nel 2008, ma le cui radici rimettono alla crisi di valorizzazione del capitale cominciata negli anni Settanta, e dei suoi sviluppi nel corso dell’ultimo decennio, tra esplosione del debito pubblico e piani di austerità fiscale; nella seconda Clementi sviluppa uno studio sull’impatto che ha avuto la crisi sull’aumento delle diseguaglianze e della povertà a livello mondiale.

Il libro comincia smascherando il velo della contraddizione tra capitale e lavoro, occultata da praticamente tutti i mezzi di comunicazione, proni a difendere il profitto, ma la cui massima espressione può essere trovata nella diminuzione costante dei salari negli ultimi decenni e del potere d’acquisto della classe lavoratrice, mentre i profitti hanno conosciuto aumenti sempre più significativi. 

La tendenza storica alla caduta tendenziale del saggio del profitto viene necessariamente contrastata diminuendo la quota destinata ai salari, mentre allo stesso tempo lo spettro della sovrapproduzione si fa sempre più forte, ma visto che il lucro dei capitalisti si realizza solo con la vendita delle merci, il meccanismo dell’indebitamento privato è risultato essere il migliore per contenere la saturazione progressiva del mercato mondiale.

Successivamente viene messo correttamente in luce il ruolo di falsificazione sulla solvibilità dei debiti operato dalle principali agenzie di rating finanziario, che nel corso degli anni 2000 hanno con i loro insindacabili “giudizi” garantito debiti di aziende prossime al fallimento, il cui maggior esempio è forse rappresentato dalla Lehman Brothers, che solo sessanta giorni prima di fallire aveva avuto una tripla A, che rappresenta la garanzia di maggiore solvibilità. Allo stesso tempo però viene rifiutata l’ipotesi per cui sarebbero le stesse agenzie ad aver “provocato” la crisi in un sistema tutto sommato sano. Nascosta rimane invece la guerra valutaria tra dollaro ed euro, che ha avuto il suo apice con l’attacco speculativo contro i debiti dei paesi cosiddetti Piigs. Tale attacco fu pianificato durante una cena a Manhattan tra alcuni dei proprietari dei principali fondi speculativi americani, con l’idea di colpire le economie più deboli dell’area euro avendo l’obiettivo di provocare una forte diminuzione del valore dell’euro in relazione al dollaro. L’Ue si vide costretta a ricorrere a un massiccio quantitative easing con l’obiettivo di contenere il crollo dell’area euro, provocando la reazione entusiasta dei mercati.

Ma il fantasma speculativo era solo stato messo a tacere temporaneamente, visto che l’alto indebitamento pubblico portò tra il 2012 e il 2013 a prendere di mira la Francia, definito dall’“Economist” come troppo progressista; il vero obiettivo della caccia grossa erano però ancora gli anelli deboli, vista anche l’impossibilità da parte della Bce di acquistare i titoli pubblici sul mercato primario, ossia all’emissione, dovendo invece comprarli, a un costo superiore, sul mercato azionario.

La crisi greca nel corso del 2015 è stata il momento in cui l’euro-zona è sembrata davvero sul punto della rottura; infatti dopo che il neogoverno di centro-sinistra guidato da Tsipras aveva adottato una tattica attendista nei confronti dei piani di austerità fiscale impostigli dalla famigerata troika, il mondo intero si trovò a dipendere dall’esito del referendum sull’accettazione o meno delle condizionalità imposte dal piano di aiuti dell’Ue, che nonostante una pressione mediatica terribile sul popolo greco vide il no all’accordo prevalere; tuttavia il governo greco non volle operare una rottura, accettando le dure condizioni e riportando l’equilibrio, almeno relativo, in Grecia.

Dunque gli Usa sembrano essere riusciti a scaricare sull’Unione europea i costi della crisi, mentre già negli ultimi anni del mandato di Obama e poi più consistentemente in quello di Trump il ritorno a politiche semiprotezionistiche ha prodotto il parziale riequilibrio di una bilancia commerciale perennemente sbilanciata in negativo nelle partite con l’estero, principalmente con la Cina.

Il quantitative easing della Bce ha trasferito alle banche nazionali dei diversi paesi dell’Ue oltre 1.000 miliardi di euro, con l’intento di favorire l’acquisto di titoli del debito pubblico, evitando così di fare in modo che la Bce agisse come prestatrice di ultima istanza, cosa proibita dai trattati, scritti difendendo l’ipotesi monetarista che aumentando la massa di moneta in circolazione si produrrebbe necessariamente un aumento dell’inflazione; viceversa la Federal Reserve americana ha continuato a pompare liquidità nel sistema con l’obiettivo, comunque non raggiunto, di favorire l’occupazione. Gli effetti sono stati infatti molto limitati, visto che solo una piccola quota degli oltre 4.500 miliardi messi nell’economia americana è andato a finanziare realmente la produzione, visti gli scarsi margini di profittabilità, e nemmeno si è andati a finanziare l’indebitamento privato, viste le difficoltà da parte dei privati a rimborsare i prestiti; molto invece è andato a finanziare la speculazione; dimostrando la dipendenza “tossica” del capitale da queste iniezioni sempre maggiori di liquidità.

Nonostante ciò è indubbio che i conflitti tra i capitali nemici dollaro-euro abbiano visto un prevalere del primo, grazie alla possibilità per la propria banca centrale di aumentare il flusso monetario in circolazione senza apparenti limiti di sorta. L’elezione di Donald Trump nel 2016, unita all’aumentare dei movimenti reazionari in tutto il mondo, ha prodotto un riallineamento verso l’economia nazionale americana, uscendo dai principali patti commerciali, cercando di far pesare il potenziale economico degli Usa con gli alleati, mentre si è cercato, seppur in forma poco efficace, di riportare le imprese nazionali trasferitesi all’estero sul territorio americano.

Nella seconda parte del libro Clementi fa un’analisi dal punto di vista del reddito degli effetti della crisi, a partire dai dati statistici che mostrano l’andamento della distribuzione della ricchezza a livello italiano e mondiale: nel primo caso è diminuita la quota di persone con un reddito compreso tra 5 e 17mila euro, nel secondo si è assistito a una riduzione costante della povertà soprattutto nel sud est asiatico. Per analizzare la diseguaglianza economica l’indice più diffuso è quello di Gini che va tra 0 e 1, dove 0 evidenzia una situazione di massima eguaglianza e 1 una situazione di massima diseguaglianza; compresi in Europa nella fascia di bassa diseguaglianza sono i paesi nordici e alcuni paesi dell’Europa orientale, mentre i paesi del sud Europa hanno normalmente un grado maggiore di concentrazione della ricchezza. Tra gli elementi che hanno portato gli economisti a interrogarsi sul tema vi sono il progresso tecnologico, la globalizzazione, la precarizzazione del mercato del lavoro e conseguentemente la riduzione della quota del Pil che va al lavoro. Alcuni economisti come Piketty hanno invece sottolineato come uno degli elementi principali sia stato l’aumento del reddito dei super-ricchi, principalmente grandi manager privati.

Più complessa è l’analisi quando si vuole capire chi è povero, visto che la povertà non è da intendersi unicamente dal punto di vista reddituale, ma anche dal punto di vista del consumo. Un approccio unidimensionale infatti, che si concentrasse unicamente sul reddito, rischierebbe di trascurare il fatto che in molti paesi la quota di economia “informale” è pari o addirittura superiore a quella “formale”. In ogni caso la Banca mondiale definisce la soglia della povertà come possesso di un reddito giornaliero inferiore ai due dollari. In quest’ottica enormi progressi sono stati fatti nell’Asia soprattutto in Cina, dove centinaia di milioni di persone sono uscite dalla linea della povertà. Più complessa è la situazione nell’Africa sub-sahariana, dove i bassi tassi di crescita economica non riescono a ridurre in forma strutturale la povertà; viceversa in Italia negli ultimi 25 anni si è assistito a un consistente aumento di povertà che ha portato l’Italia nel 2016 ad avere il 25% della popolazione in povertà relativa. Contemporaneamente si è assistito a un crescente aumento della polarizzazione sociale, che descrive la distribuzione del reddito tra le diverse classi sociali, con una polverizzazione della classe mediana e il concentrarsi della ricchezza in gruppi sempre più ristretti, a volte prossimi all’1% della popolazione, in molti paesi.

Dunque, nonostante l’apparente riduzione delle diseguaglianze, si è assistito nel corso degli ultimi anni a un aumento della povertà relativa, soprattutto con il fenomeno dei “working poor”, coloro cioè che nonostante lavorino non hanno un salario sufficiente a garantirgli gli standard minimi di sussistenza; inoltre, analizzare la povertà solo come possesso di un reddito inferiore a due dollari al giorno rischia di tagliare fuori coloro che vivono magari con poco più di questo, che corrisponderebbero al 70% della popolazione mondiale.

Dal punto di vista della distribuzione della ricchezza si è assistito invece a una diminuzione della sperequazione dei redditi tra paesi occidentali e orientali, mentre al tempo stesso aumentavano le diseguaglianze interne tra paesi occidentali.

L’ultimo capitolo del libro si concentra sullo scenario della crisi pre-Covid-19, mostrando come diversi analisti avessero già dichiarato probabile lo scoppio di una bolla finanziaria, in virtù dell’esistenza nella “pancia” di molte banche di crediti deteriorati, e del crescente spettro di insolvibilità dei debiti pubblici e privati. La situazione prepandemica si dimostrava dunque già fortemente compromessa, l’emergenza sanitaria non ha dunque fatto altro che “dar fuoco alle polveri” in questo contesto. Infatti il necessario stop alle attività economiche, almeno quelle considerate “non essenziali”, per evitare il collasso dei sistemi sanitari e non salvare le vite umane, ha prodotto una diminuzione delle ore lavorate a livello mondiale nella misura di centinaia di ore, e produrrà con ogni probabilità un enorme aumento della disoccupazione non appena finiranno i piani di aiuti che i diversi governi hanno messo in campo per fronteggiare temporaneamente la crisi. Gli stessi piani che a livello europeo si stanno determinando, compreso il tanto atteso Recovery Fund, produrranno una crescita dell’indebitamento pubblico, che una volta che torneranno in vigore i vincoli europei determinerà la necessità di riduzione della spesa pubblica e della spesa sociale. Appare chiaro comunque per Clementi che questa crisi produrrà il più gigantesco processo di ristrutturazione del capitale, con l’obiettivo di scaricare ancora una volta sui lavoratori i costi della crisi, con un’ulteriore precarizzazione del mercato del lavoro e l’attacco frontale ai cosiddetti “garantiti”.

In conclusione, ci permettiamo di consigliare la lettura di questo testo a tutti coloro che vogliano approfondire l’analisi dell’attuale crisi economica e dei suoi effetti dalla prospettiva marxista, potendo usufruire di un testo snello ed efficace che permette lo studio di fenomeni complessi a partire da un lessico accessibile. Un utilissimo glossario in appendice riporta la definizione delle principali categorie economiche utilizzate anche per coloro che fossero nuovi a tali concetti.

05/12/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Matteo Bifone
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