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Suffragette e Fuocoammare: due colpi a segno

I film di Gianfranco Rosi e Sarah Gavron dimostrano che il pensiero unico è una tigre di carta.


Suffragette e Fuocoammare: due colpi a segno

Per la rivoluzione in Occidente è decisiva la lotta per l’egemonia sulla società civile. In tale guerra di posizione decisivo è il ruolo degli intellettuali. Nell’attesa che sorga un moderno Principe in grado di formare degli intellettuali organici, bisogna accontentarsi degli intellettuali tradizionali. Con i loro film Gianfranco Rosi e Sarah Gavron consentono ai subalterni di riconquistare un paio di casematte, dimostrando che il pensiero unico è una tigre di carta.

di Renato Caputo e Rosalinda Renda

Dopo un catastrofico 2015 – che aveva visto una vera e propria offensiva delle forze della reazione nella lotta di classe al livello dell’immaginario filmico, con opere in grado di egemonizzare ampi strati della (a)sinistra, da American Sniper a Birdman, a Taxi Teheran – anche il 2016 è iniziato con un avanzamento dell’ideologia dominante attraverso opere come Revenant, Il figlio di Saul, The Hateful Eight, capaci di colonizzare coscienze generalmente progressiste. Inattesa, ma ancora più gradita, è stata la controffensiva del fronte progressista, con opere come La grande scommessa, L'ultima parola - La vera storia di Dalton Trumbo, Il caso Spotlight, fino ai più recenti Fuocoammare, in grado di espugnare il festival di Berlino, e le Suffragette, capace di strappare alla classe dominante il merito del successo per un passaggio significativo nella lotta per l’emancipazione della donna.

In una edizione particolarmente felice del festival di Berlino, che ha avuto il coraggio di mettere in primo piano la tragedia dell’immigrazione forzata di centinaia di migliaia di proletari, funzionali a aumentare l’esercito industriale di riserva, riducendo ulteriormente il salario sociale [1], è stato giustamente premiato con l’Orso d’oro Fuocoammare di Gianfranco Rosi, che documenta e denuncia con forza la spaventosa violenza che subiscono i deportati della borghesia, senza mai perdere la tenerezza e dover rinunciare a favorire quel godimento, tratto indispensabile di ogni vera esperienza estetica.

Con un interessante montaggio parallelo nel film di Rosi sono rappresentate filmicamente le difficili condizioni di vita dei subalterni lampedusani, la cui condizione di vita non pare essere poi così mutata rispetto a quella denunciata dai Malavoglia di Verga, e la tragedia dei subalterni del terzo mondo, in fuga da spaventose guerre, il cui primo responsabile resta il colonialismo e l’imperialismo, nella speranza di poter essere sfruttati da chi monopolizza i mezzi di produzione e di riproduzione della forza lavoro. Ciò consente di comprendere come la tragedia di chi è costretto ad abbandonare la propria terra, i proprio cari, la propria eticità per cercare la “fortuna” di essere sfruttato in un Paese straniero, sotto i colpi del razzismo che colpisce sempre i più deboli e oppressi, non riguarda unicamente gli altri, gli extra-comunitari, ma abbia segnato e continui a segnare profondamente la storia del nostro Paese e in particolare del nostro sud.

Altro aspetto significativo è che da questa testimonianza vissuta esemplarmente, rappresentata nel film di Rosi, emerge nel modo più evidente come il razzismo e lo scontro delle civiltà siano essenzialmente fenomeni endogeni, indotti dall’esterno, da chi, per difendere i propri assurdi privilegi, non esiti a fomentare in ogni modo la guerra fra poveri, secondo l’antico adagio del divide et impera. Colpisce egualmente l’impossibilità di comunicazione fra questi due mondi così vicini fisicamente, ma destinati a rimanere così lontani spiritualmente. Appare tanto più assurda la critica rivolta a Rosi di non aver messo in comunicazione le due storie altrettanto tragiche che rappresenta, dal momento che ciò sarebbe stato non solo irrealistico, ma inverosimile. La condizione di subalternità, materiale ma anche culturale, la necessità di lottare nel modo più strenuo semplicemente per potersi riprodurre come forza lavoro, soddisfacendo almeno i proprio bisogni più immediati e primitivi, non lascia spazio né soprattutto tempo per conoscere il proprio altro.

Non a caso, sfatando ancora una volta il mito spontaneista petits-bourgeois del buon selvaggio, l’unico possibile trait d’union resta l’intellettuale progressista, il medico illuminista di Lampedusa che si dedica, con un eroismo reso necessario dalla consueta carenza dello Stato borghese, ad alleviare le sofferenze dei rifugiati. Certo, è una goccia nell’oceano ma appare tanto più preziosa perché cade in un vero e proprio deserto, quello costruito dalla fortezza imperialista europea che si rapporta con gli effetti umani – delle sue disumane politiche imperialiste e neocolonialiste – con asettica e burocratica indifferenza.

Lo scenario sembra quello di Incontri ravvicinati del terzo tipo, in cui gli altri sono considerati come dei pericolosi alieni, portatori di chissà quale pericoloso virus, che vanno al più presto isolati, schedati, inquadrati, irreggimentati. Del resto, si tratta di nuda forza lavoro, dei nuovi schiavi importati secondo la diabolica logica neocoloniale per cui sono costretti a pagarsi il viaggio e a considerare con gratitudine i futuri padroni che si degneranno di sfruttarli. La tragica condizione materiale e la grave carenza di coscienza di classe, oltre che la potenza egemonica dell’imperialismo, i cui brand, i cui logo sono stampati nelle magliette dei deportati e rischiano di essere impressi nelle loro stesse teste.

Da tutto ciò emerge chiaramente la necessità storica per reagire a questo imbarbarimento, a questa devastazione culturale – per cui ormai anche nelle più povere capanne si trovano le effigi dei campioni degli odierni circenses, considerato che gli attuali potenti mirano a risparmiare anche sul panem – della ricostruzione di un intellettuale organico, di un principe moderno capace di farsi carico della irrisolta problematica della Rivoluzione in Occidente [2].

Ancora più significativo il contributo dato alla guerra di posizione nella società civile da Suffragette, film sorprendentemente radicale della coraggiosa regista britannica Sarah Gavron. Il suo film ha innanzitutto l’indubitabile merito di riconsiderare un momento particolarmente significativo e pubblicizzato della lotta per l’emancipazione della donna, quale momento della lotta di classe. Tale strumento decisivo per lo sviluppo storico di una società, ahinoi, ancora divisa in classi sociali, tale mezzo imprescindibile per la stessa emancipazione del genere umano, come ha meritoriamente ricordato Domenico Losurdo non può essere ridotta alla, per quanto imprescindibile e decisiva, lotta economicista condotta dalla parte consapevole del proletariato a tutela della sua unica proprietà, la forza lavoro. La divisione del lavoro ha prodotto, infatti, anche all’interno dei nuclei familiari e dei rapporti fra i generi, rapporti ineguali, sul modello del servo-padrone, esemplarmente descritto nella Fenomenologia dello spirito. In tal modo, la donna è stata ed è ancora troppo spesso costretta a occupare una posizione subalterna nella famiglia patriarcale, a causa di quella schiavitù domestica a cui è da secoli stata sottoposta, e che la visione tradizionale e religiosa del mondo si ostina a incensare come “naturale”.

Tanto più che, a tale forma di schiavitù domestica, si è, con lo sviluppo della società capitalista, aggiunta la schiavitù moderna del lavoro salariato, dal momento che l’insaziabile vampiro che detiene i mezzi di produzione e riproduzione della forza lavoro non si accontenta più di succhiare il sangue del solo pater familias, ma pretende di poterne sfruttare anche la compagna e, se non gli è impedito, la stessa prole. In tal modo la donna finisce per essere doppiamente sfruttata, oltre a ricevere condizioni di sfruttamento più pesanti nei luoghi di lavoro – dove troppo spesso riceve gli incarichi più ingrati – viene retribuita meno e subisce troppo spesso ricatti di natura sessuale da parte del maschilismo imperante nella classe dominante.

Si aggiunga a ciò, come è ben denunciato dal film, che tale condizione di sfruttata fra gli sfruttati è abilmente utilizzata dalla classe dominante per dividere e meglio dominare i subalterni attraverso il classico strumento della guerra fra poveri, che ha il suo fondamento ideologico nella visione religiosa del mondo che vuole, per volontà divina, la donna subalterna all’uomo. In tal modo la condizione di subalternità della donna, all’interno dei rapporti di subalternità fra le classi sociali, viene abilmente sfruttata da chi opera a difesa del privilegio, fondato su violenza e sfruttamento. La condizione di oppressione della donna è, infatti, cinicamente sfruttata dalla classe dominante allo stesso modo in cui viene sfruttata la tragedia dell’immigrazione per far credere al proletario di non aver altro da perdere, ribellandosi al capitale, che le proprie catene, dal momento che la propria condizione è comunque privilegiata rispetto al lavoro servile imposto allo straniero e alla schiavitù domestica imposta alla donna.

Così il proletario privo di coscienza di classe, a causa della debolezza del moderno Principe, finisce per divenire un inconsapevole strumento del dominio del padrone, conducendo per suo contro la più vigliacca e miserabile delle guerre, quella condotta grazie al razzismo contro il lavoratore straniero e in nome del maschilismo e della religione contro la donna.

Un altro aspetto decisivo coraggiosamente illustrato da Suffragette è che, purtroppo, la lotta per l’emancipazione del genere umano, nello specifico la lotta per l’emancipazione della donna, è tutt’altro che un pranzo di gala o un confronto pacifico e democratico fra gentlement, come quello costantemente messo in scena fra il ceto politico del centro-destra e del centro-sinistra borghese, i cui penosi protagonisti sono sempre pronti a scambiarsi trasformisticamente le parti e i ruoli [3]. Come era noto persino al massimo esponente dell’idealismo, ossia ad Hegel, la difesa del privilegio e del particolarismo difficilmente si lasciano pacificamente mettere in questione dall’universalismo della ragione [4]. Non potendo competere su tale terreno finiscono per imporre ai subalterni e a chi si batte per l’emancipazione del genere umano il terreno, favorevole unicamente alla salvaguardia di un privilegio ingiusto e irrazionale, della violenza.

Note

[1] Il salario sociale: la definizione di classe del valore della forza-lavoro (file zip - 51 kb), Gianfranco Pala.

[2] Purtroppo tali problematiche sono del tutto estranee alla Weltanschauung del regista che, come la maggioranza degli intellettuali tradizionali del nostro Paese, ha totalmente obliato, come il pensiero unico dominante oblige, la decisiva lezione di Antonio Gramsci. Mala tempora currunt, da quando i nostri intellettuali invece di studiare autori come Gramsci si sono rivolti a ribelli aristocratici come Nietzsche o, peggio, i suoi nipotini da Heidegger a Foucault, per tacere dei nostrani epigoni della provincia dell’impero.

[3] Per cui si può con nonchalance passare dal Fondo Monetario Internazionale, rappresentante esemplare del capitale monopolistico transnazionale, alla guida di una coalizione della “sinistra alternativa”, a proposito del nemico che marcia sempre alla tua testa.

] “Il particolarismo, il privilegio e l’eccellenza, sono qualcosa di così profondamente personale, che il concetto e la comprensione della necessità sono sempre troppo deboli per operare sull’azione stessa; concetto e comprensione attirano una tale diffidenza su di sé, da doversi giustificare con la violenza affinché l’uomo si sottometta loro” (G. W. F. Hegel, Werke, I: 581).

10/03/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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