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La cultura fa paura: per i cento anni di Orson Welles (terza e ultima parte)

La genialità di Welles, la sua capacità di riuscire a risolvere gli imprevisti che si presentavano di fronte a ogni suo progetto, la sua capacità di farsi beffa dell’industria cinematografica.


La cultura fa paura: per i cento anni di Orson Welles (terza e ultima parte)

La genialità di Welles, la sua capacità di riuscire a risolvere gli imprevisti che si presentavano di fronte a ogni suo progetto, la sua capacità di farsi beffa dell’industria cinematografica rappresentano al contempo una critica della logica distruttiva della società capitalista. Il limite di una tale critica è che non è in grado di indicare la prospettiva di una società in grado di risolvere tali contraddizioni sistemiche.

di Renato Caputo e Rosalinda Renda

segue da:

http://www.lacittafutura.it/culture/cinema/cento-anni-di-orson-welles-prima-parte.html
http://www.lacittafutura.it/culture/cinema/la-cultura-fa-paura-per-i-cento-anni-di-orson-welles-seconda-parte-di-tre.html

 

Dopo aver diretto e interpretato L’infernale Quinlan, Welles continua a lavorare come attore in giro per il mondo per finanziare i suoi progetti, finché il produttore Alexander Salkind non gli propone la regia de Il processo di Kafka. Il film esce nel 1962. Welles gira la pellicola nei locali abbandonati della Gare d’Orsay, con i suoi spazi enormi e, tuttavia, resi opprimenti grazie all’uso dell’obiettivo quadrangolare che abbassa i soffitti e deforma sia gli uomini che le cose, location perfetta per sottolineare il travaglio di Joseph K. (interpretato da Anthony Perkins), che percorre questi immensi e infiniti corridoi che alla fine conducono tutti al tribunale. Forte nel film è il tema dell’alienazione, dove K. è vittima di un mondo inautentico in cui è ridotto a cosa. Welles dichiarerà ai Cahiers du Cinéma che Il processo è il suo film migliore, la critica invece è divisa: c’è chi lo considera un capolavoro, chi invece dibatte sulla questione piuttosto sterile della fedeltà o meno al testo di Kafka.

Decisa nel film è la condanna del sistema e della società borghese. K. è prigioniero, come gli altri rappresentanti del ceto medio, di un sistema alienante e apparentemente privo di vie di uscita. Gli aspetti oppressivi e totalitari emergono in modo netto, ma K. non è in grado di contrastarli perché è parte del sistema, e come gli altri rappresentanti della piccola borghesia e del ceto medio ne è complice. La sua ribellione è troppo debole, anche perché non cerca in nessun modo di svilupparsi a livello collettivo, e non pone in questione il sistema in quanto tale, ma solamente le sue storture, gli aspetti fenomenici. Il limite di K. è il limite di Kafka, ma anche di Welles, la cui condanna alla società borghese non va oltre quella del sincero democratico. Welles, tuttavia, non si riconosce pienamente nel suo personaggio, nei confronti del quale mantiene un distacco critico, in quanto K. «è anche un piccolo burocrate. Io lo considero colpevole. (…) Appartiene a qualcosa che rappresenta il male e che, al tempo stesso, fa parte di lui. Non è colpevole di quanto gli viene rimproverato, ma è colpevole lo stesso; appartiene a una società colpevole, collabora con questa» (Il Castoro: p. 66).

Intanto il lavoro come attore continua, e accanto a pessimi film brilla il bellissimo episodio di Pasolini La ricotta in Rogopag, dove Welles interpreta il regista. I soldi guadagnati sono utili a

Welles per poter realizzare un film su uno dei personaggi shakesperiani che più ama e che più volte ha messo in scena al teatro: Sir John Falstaff. Esce così nel 1966, dopo che Welles ha convinto una produttrice spagnola, Falstaff (Campanadas de medianoche). Welles scrive la storia di Falstaff utilizzando parte del Riccardo II, dell’ Enrico IV, dell’Enrico V, delle Le allegre comari di Windsor di Shakespeare e The cronicles of England di Raphael Holinshed. Welles dichiarerà di aver usato unicamente dialoghi di Shakespeare, senza aggiungere neanche una parola di suo. Le riprese sono sempre molto efficaci e si dimostrano in grado di tesaurizzare la lezione di Ivan il terribile di Eisenstein. Per quanto concerne il contenuto, Welles continua il discorso sul potere che è un po’ una costante in molta parte della sua produzione cinematografica. Come al solito il film suscita polemiche e l’accoglienza del pubblico è timida. Il film ottiene un premio speciale a Cannes, ma avrà pochi spettatori, perché sarà distribuito pochissimo, soprattutto negli Stati uniti.

Falstaff è la tragicomica dell’eterna giovinezza, di un uomo che non vuole crescere e non vuole assumersi le proprie responsabilità e che vive unicamente dedito al piacere per finire, così, soggetto alla necessità del corso del mondo. È infatti necessario che il futuro Enrico V, amico di Falstaff negli anni spensierati della gioventù, cresca e superi il momento della logica edonistica della ricerca del piacere assumendosi i suoi compiti dinanzi al mondo, aderendo all’eticità costituita. La catarsi dunque riguarda Enrico V, mentre per Falstaff c’è solo il necessario tramontare. L’aver centrato l’attenzione su Falstaff è forse il difetto principale di un film per il resto notevole, innanzitutto dal punto di vista formale. La grandezza del Welles attore, che ovviamente interpreta magistralmente Falstaff, accentua paradossalmente il limite del film. Dietro tale limite c’è, tra l’altro, anche il limite di Welles, che pretende di contrapporre il proprio sé, la propria legge del cuore a un sistema in cui non può riconoscersi e dalla inesorabile logica finisce per essere travolto. Scrive Welles: «Mi sembra che Falstaff sia più un uomo di spirito che un pagliaccio. È il personaggio cui credo di più, è l’uomo più buono di tutto il dramma. Le sue colpe sono colpe da poco, e lui se ne fa beffe. È buono come il pane, come il vino. Per questo ho trascurato un po’ il lato comico del personaggio: ogni volta che l’ho interpretato mi sono persuaso sempre di più del fatto che rappresenta la bontà e la purezza» (Il Castoro, p. 70).

Welles è, tuttavia, troppo realista per impersonarsi pienamente nel suo eroe. Anzi con un eccezionale effetto di straniamento, frutto della sua cooperazione con Brecht al tempo di Vita di Galileo, ne mostra costantemente anche i limiti. Ma è anche un attore troppo grande per, nonostante l’effetto di straniamento, non dare rilievo al suo personaggio, che non a caso nella traduzione italiana del titolo del film diviene il vero protagonista.

Il comportamento del nuovo re Enrico V è pienamente comprensibile e giustificabile sulla base di quella concezione classica dell’autonomia della politica sviluppata da pensatori del calibro di Tucidide, Machiavelli, Rousseau e Hegel. Il capo del governo (il Principe) è al servizio del sovrano  e della la volontà generale e deve mettere in secondo piano la propria soggettività e il proprio particolarismo. Il particolarismo di Falstaff va messo al bando e rieducato. Il film, tuttavia, accentua la naturale nostalgia per la giovinezza perduta per sempre con la sua ingenuità e leggerezza, dinanzi alla dura serietà dei compiti etici.

Welles, ora richiesto soprattutto dai grandi registri, partecipa in dieci anni a molti film sia per il cinema che per la televisione. Ed è proprio grazie alla televisione francese che riesce a girare il mediometraggio Storia immortale (Histoire Immortelle, 1968) su un soggetto di Karen Blixen, scrittrice da lui amata. Il film, molto bello e raffinato, è privo dei consueti barocchismi ed è girato in modo più classico e pulito rispetto a quanto siamo abituati da Welles che, in questo caso, non stravolge come di consueto la storia da cui è tratto, storia a cui pare più del solito legato. In Italia il film non viene valorizzato e passa come un normale film televisivo, cioè di serie B.

Il protagonista, un vecchio e ricchissimo mercante interpretato dallo stesso Welles, vuole rendere reale una leggenda che raccontano i marinai, immaginando di annullarla “comprandola” con la sua onnipotenza economica. Emerge il tema dell’accumulazione originaria e di come il capitalismo sia distruttivo sia verso gli altri che verso se stesso. Il vecchio capitalista, infatti, si è fatto strada facendo fuori i suoi rivali e soci, ma l’ossessione verso l’infinita accumulazione porterà anche alla sua fine. Egli finirà per vivere nella sola logica nichilista dell’essere per la morte, visto che nella sua ristretta visione delle cose non c’è spazio per il principio speranza, per un finale diverso da quello che si è immaginato. La storia si deve avverare così come è stata raccontata e gli attori destinati ad interpretatala sono ridotti a forza-lavoro alle dipendenze del padrone, pura merce. Ma anche all’interno delle regole stabilite dal padrone vi è spazio per la ribellione: i salariati giocano la loro partita, anche perché essi rappresentano il futuro, la vita, mentre il capitalista è necessariamente in fin di vita e rappresenta in modo esemplare il dominio del lavoro morto sul lavoro vivo.

La successiva fatica di Welles è F for Fake  (1975) ovvero «un “riassunto” del programma artistico seguito da Welles costretto – nel corso della sua carriera avventurosa – a improvvisare, a inventare, a “turlupinare” (con gioia, sua e nostra)» (Il Castoro, p. 85).  Welles qui indaga sul rapporto tra arte, denaro e ciarlataneria mettendoci molto della sua esperienza personale, ma il personaggio su cui tuttavia ruota il film è De Hory, un famoso pittore falsario di post-impressionisti.

F for Fake non è un grande film, ma è sicuramente un film che dà da pensare anche al di là di quanto dica o faccia vedere. Le riflessioni che produce sono soprattutto di natura estetica. L’opera di un falsario, infatti, non è da condannare in sé, in quanto lo diviene unicamente nell’ottica del mercato dell’arte dove domina l’estetica dell’autorialità ridotta a merce, ovvero un’opera non diviene un’opera d’arte (e quindi di estremo valore) perché bella in sé, ma solo perché opera di un certo artista famoso e quotato tot sul mercato. A questo punto l’aspetto quantitativo diventa più importante di quello qualitativo, ovvero più opere ci sono di quell’artista più affari fa il mercante d’arte. Ecco che entra in gioco il falsario che si rivela il pesce piccolo di un sistema, la cui forza lavoro finisce per essere sfruttata dai mercanti d’arte. Questa logica porta a un’inversione della logica che vorrebbe un autore giudicato sulla base della sua opera. In tale mondo rovesciato, infatti, un’opera ha un determinato valore perché attribuita dal mercante d’arte a un determinato autore quotato un tanto sul mercato dell’arte. Questa logica assurda finisce per coinvolgere anche grandi pittori o grandi registi, da Matisse, a Picasso a Woody Allen, per fare qualche esempio, che finiscono per produrre opere “alla loro maniera” (nel film lo stesso Picasso ammette di essere stato falsario di se stesso), non molto diverse da quelle di grandi falsari come rappresentato nel film di Welles.

L’ultimo film realizzato da Welles è Filming Othello; il progettorisale al 1952, ma per le solite difficoltà economiche va in porto solo nel 1977; in sostanza Welles monta materiali vecchi e nuovi del film. Il regista, come nel film precedente, sembra un po’ aver perso la vena creativa, non si sente più all’altezza di rappresentare filmicamente la propria epoca e, quindi, riflette sulle precedenti sue rappresentazioni.

Welles sostiene a ragione che un’artista è il meno indicato per essere il critico del proprio lavoro. Ma poi diviene il critico di se stesso, da una parte testimoniando la sua crisi espressiva, dall’altra denunciando la difficoltà di trovare le forze per produrre qualcosa di nuovo. Il regista mostra anche la sua genialità, la sua capacità di superare le difficoltà oggettive che gli impedivano di realizzare l’opera secondo i suoi progetti. Certo da grande prestigiatore, Welles insiste moltissimo, anche per farsi beffe di certa critica, sul ruolo del caso, ma in realtà proprio la sua opera e il suo piacere a narrarla testimoniano del contrario, ossia della validità della celebre tesi di Machiavelli, per cui certo il caso pesa, ma è essenziale la capacità di prevenirlo e di saper tenere testa agli imprevisti.

Uno spunto piuttosto significativo è che Welles non avrebbe messo in scena nel suo film la sola tragedia di Otello, ma di un’intera epoca storica; un’epoca storica rappresentata dalla contraddizione fra Otello e Iago, ossia da una dialettica servo-padrone che si risolve solo con il comune precipitare dei due contendenti, che rischiano di far precipitare con sé tutta una civiltà nella barbarie. Da qui la grande attualità di quest’opera.

Un po’ come Shakespeare, Welles non riesce a trovare la catarsi di questa tragica contrapposizione fra signoria e servitù. Shakespeare perché è vissuto troppo presto, ossia prima che tale contradizione si risolvesse dal punto di vista storico, Welles perché vive troppo tardi, quando la soluzione moderna capitalista di tale contraddizione mostra già tutta la sua limitatezza, un non rappresentare una reale soluzione del rapporto servo padrone che sembra destinata a riprodurre. Da qui sia in Shakespeare che in Welles vi è una certa nostalgia, un’aura romantica che avvolge l’antico che muore.

Questo aspetto, tipico di un’attitudine da socialismo reazionario, per usare una celebre definizione di Marx, se è ancora contenuto nell’Orgoglio degli Amberson, rischia di divenire invece dominante sia nell’incompiuto film su Don Chisciotte, sia in Falstaff e, appunto in Otello. Probabilmente Welles con il passare degli anni ha perso progressivamente la fiducia che aveva negli anni giovanili, gli anni del New Deal, nella possibilità di rifondare democraticamente la società capitalista. Da qui l’identificarsi con Don Chisciotte, metafora anche della lotta condotta fino all’ultimo in modo solitario da Welles contro i mulini a vento dell’industria dell’intrattenimento borghese.

11/09/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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