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Infanzia. No al sistema integrato 0-6

La legge 107 non distingue più tra prima e seconda infanzia del bambino. Ciò comporterà un enorme passo indietro.


Infanzia. No al sistema integrato 0-6

La legge 107 disegna un sistema integrato da 0-6 anni che non distingue più tra prima e seconda infanzia del bambino, che prevede al contempo un forte ingresso dei privati nel sistema educativo, proponendo un modello decisamente lontano dal dettato costituzionale. Ciò comporterà un enorme passo indietro rispetto al cammino fatto dall’unità d’Italia a oggi.

di Antonia Sani

Ma voi siete cristiane, o Maddalene!/foste da’ preti a scola/Siete moderne! portate ne le vene/l’Aretino e il Loiola. Così tuonava Giosuè Carducci stigmatizzando l’ambiguità e l’ipocrisia frutto dell’educazione impartita nei collegi retti da religiosi alla prole della società dorata. Istruzione e educazione, ancora retaggio privato di chi ne conosceva la portata e aveva la possibilità di accedervi, nonostante l’affermazione, non contestata, dei principi illuministici. “Al contadino non far sapere come è buono il formaggio con le pere” è un detto trasmesso di generazione in generazione, ancora oggi acriticamente ripetuto.

Ma alla popolazione serviva che anche i più umili, oppressi dalle fatiche quotidiane, sapessero “leggere, scrivere e far di conto”. Se ne resero conto i piemontesi che alle soglie dell’Unità d’Italia, nel Regno di Sardegna, (legge Casati 1859) affidarono ai Comuni la gestione delle Scuole Elementari. Fu un primo importante passo, che tuttavia rivelò ben presto la sua fragilità. I Comuni non sono, non erano, tutti uguali !. L’obbligo di frequenza stabilito con la Legge Coppino (1877), a causa dell’inadeguatezza di gran parte dei piccoli Comuni a fornire strutture, sostegni economici in grado di garantirne l’esercizio, frenò ben poco l’analfabetismo dilagante. L’istruzione privata, lasciata nella legge Coppino alla libera scelta dei genitori, non ebbe in tutte le scuole comunali di allora una valida alternativa. Si rese dunque necessario il passaggio dai Comuni allo Stato.

Il passaggio avvenne nel 1911 con la legge Daneo-Credaro. Non si trattò tanto di un riconoscimento del “diritto allo studio”, allora invisibile nel concetto di istruzione/educazione obbligatoria, ma dell’ espletamento di un “dovere” dello Stato per adeguare l’Italia ai paesi più evoluti. Da quel momento l’attività educativa della Scuola Elementare venne garantita direttamente dallo Stato. L’età dei 6 anni come inizio del percorso scolastico corrispondeva a quella stabilita nel Codice Canonico per l’avvio di fanciulli e fanciulle al catechismo.

Altro - e assai più complesso - è il percorso della Scuola dell’Infanzia, che vedrà l’assunzione della responsabilità dello Stato nei suoi confronti soltanto nel 1968 con la legge 444.

Il passaggio dalla mano esclusiva di istituzioni religiose e enti filantropici ai Comuni, per la scuola dell’Infanzia richiese tempi ben più lunghi di quanto era avvenuto per la Scuola Elementare. La ragione è presto detta. L’educazione infantile non rappresentava un impegno educativo per il nuovo Regno d’Italia. I neonati fino ai primi segnali di autonomia venivano accuditi nelle famiglie, allora non mononucleari; in seguito, ci si rivolgeva a istituti privati di diverso livello, nella gran parte gestiti da religiosi, più nell’intento di sollevare la famiglia, o la madre lavoratrice, che di proporre percorsi educativi al di là del rispetto delle tradizioni della religione cattolica.

Tuttavia, i primi passi, in assenza di disposizioni ufficiali, furono compiuti da donne attente all’evoluzione di bambini e bambine intorno ai 3 anni. Le sorelle Agazzi in Lombardia già nel 1896 prefigurarono l’importanza e la necessità di “Scuola Materna” (il termine fu qui usato per la prima volta), da loro stesse realizzata in piccole comunità di bimbi tra i 3 e i 5 anni per valorizzarne attitudini e comportamenti rivolti soprattutto al “saper fare”; Maria Montessori, fondatrice delle Case dei Bambini, nei primi decenni del ‘900, dimostrò come in luoghi appositamente strutturati i bambini e le bambine riuscissero ad acquisire un primo livello di “responsabilità” dei propri comportamenti, affidati alle loro libere scelte, nonché di prima percezione dei propri sentimenti.

Eppure i vari governi continuano a dimostrarsi sordi a questi percorsi.

Nel 1896 l’istituzione dei “giardini di infanzia” annessi alle Scuole Normali (le future Magistrali della Riforma Gentile) avevano lo scopo esclusivo di fornire alle future insegnanti occasioni di tirocinio. Nel 1914, il R.D. n. 27 stabilisce un insieme di regole per scuole materne, asili comunque definiti, norme che non entrano nel merito dei contenuti, lasciati all’iniziativa delle singole istituzioni, spesso improntate più a intenzionalità assistenzialistiche che a finalità educative, più “servizio sociale” che “scuola”.

Bisogna arrivare al T.U. del 1928 per ottenere una definizione formale della Scuola Materna, definita “scuola di grado preparatorio”, di durata triennale, propedeutica al grado inferiore della Scuola Elementare. Con questo provvedimento si dà l’avvio alle Scuole Materne Comunali, comunemente denominate “asili comunali”. Riguardo alle Materne private, in grande maggioranza, lo Stato si limitava ad esercitare vigilanza per la parte didattica, qualora si fossero messi in atto percorsi didattici di apprendimento, tendenti a “disciplinare” “le prime manifestazioni dell’intelligenza e del carattere dei bambini”.

È evidente lo schiacciamento della Scuola Materna sul primo livello di Scuola Elementare. Continua peraltro il carattere umanitario-assistenzialistico degli interventi rivolti all’infanzia con l’istituzione dell’ONMI (Opera Nazionale Maternità Infanzia), istituita nel 1925 - e divenuta poi fiore all’occhiello del regime fascista - per soccorrere donne in disagiate condizioni economiche e sociali in stato di gravidanza, e per accogliere i loro figli dalla nascita ai 5 anni. Nello statuto dell’ONMI non vi è traccia di interventi educativi per la seconda infanzia, ma l’impegno dell’ente è tutto proteso a interventi di carattere sanitario per salvaguardare i bambini dalla nascita ai 5 anni dalle insidiose malattie dell’epoca. Un sistema integrato in chiave assistenzialistica!

Al riconoscimento generalizzato dei caratteri autonomi della Scuola Materna si arriva soltanto nel secondo dopoguerra, grazie alla conoscenza di opere di pedagogisti come Piaget, Winnicott, Erikson, Frabboni, Pontecorvo… che seppero nettamente distinguere nell’ambito dell’età evolutiva la Prima Infanzia 0-2 anni (nozione di oggetto, funzione simbolica del pensiero, comparsa del linguaggio.) dalla Seconda Infanzia 3-5 anni (scoperta, gioco, autonomia imitativa, egocentrismo, classificazione…). Nella Scuola Materna si era finalmente in grado di tener conto dello scarto cognitivo e affettivo che avviene in età evolutiva tra i 3 e i 4 anni e della necessità di tempi distesi, non pretendendo che un vantaggio cognitivo comporti anche una direttamente proporzionale crescita affettivo-relazionale. Su questi presupposti agirono le più qualificate Scuole Materne Comunali del nostro paese nell’ultimo trentennio del secolo scorso, in particolare quelle nei Comuni retti da Giunte di sinistra, tra le quali si segnalò a livello europeo - come è noto - la scuola materna di Reggio Emilia oltre ad altre scuole di quel territorio.

Questo spiega la diffidenza dei Comuni di sinistra contro l’istituzione della “Scuola dell’Infanzia statale”. A tal proposito giova ricordare il noto convegno promosso a Modena nel 1973 dalla Lega per le Autonomie e i Poteri Locali e dall’UDI "Il diritto allo studio comincia tre anni". La legge 444 veniva definita un abile strumento per togliere finanziamenti ai Comuni consentendo di fatto l’affermazione delle scuole private, cattoliche, che potevano impedire con la loro presenza il bisogno in loco di scuole pubbliche. Si contarono negli anni ’70 varie proposte di legge provenienti da forze laiche e di sinistra che avevano come denominatore comune l’istituzione di scuole pubbliche dell’Infanzia comunali (o di reti di Comuni), a gestione sociale. Ma non poteva essere questo il futuro della Scuola dell’Infanzia.

Divenuta scuola a tutti gli effetti, sia pure non obbligatoria, con le specificità che sono proprie di ciascun ordine e grado di scuola, la Scuola dell’Infanzia non poteva continuare a rimanere retaggio di Comuni, soggetta a frammentazioni, differenze tra le realtà delle varie amministrazioni, in una parola: non poteva rinunciare alla sua natura divenuta quella di Scuola dello Stato, disciplinata dall’Art.33 /Cost., con pari opportunità e diritti su tutto il territorio nazionale.

Prospettive

Oggi i titoli d’accesso richiesti alle insegnanti sono gli stessi sia per le Scuole dell’Infanzia comunali che per la Scuola dell’Infanzia statale, gli stessi i programmi educativi riassunti nelle Indicazioni Nazionali del 2012… Perché dunque non apprestarci al grande passo? Perché non sconfessare l’Art.1 della Legge di Parità (Legge 62/2000) rifiutando l’aggettivo paritario per le scuole pubbliche dell’Ente Locale?, perché non rifiutare di essere equiparati alle scuole private, che la recente sentenza del Consiglio di Stato ha definito alla stregua di “imprese commerciali”? Le scuole dell’infanzia statale e comunali, in quanto scuole pubbliche, devono essere unificate in un unico percorso che identifichi la scuola della Repubblica; in prospettiva, un’unica graduatoria statale del personale docente; attualmente, sollecitare Stato e Comuni per una sinergia che impedisca a chi non trova posto in una Scuola pubblica dell’Infanzia di doversi rivolgere obtorto collo a scuole private, di tendenza, con cui il Comune avvia convenzioni.

La difesa della laicità dello Stato ha qui un grande banco di prova. Quanto “il sistema integrato 0-6” sia in contrasto col percorso che nel corso degli anni siamo venuti delineando è facilmente verificabile. Quasi contestualmente alla legge 444/68, era stata promulgata la Legge 1044/71 per l’istituzione di asili nido pubblici e comunali con il contributo dello Stato. Il carattere di “servizio sociale di interesse pubblico”, si impegnava a garantire ai bambini 0-3 anni sicure condizioni igienico-sanitarie. Il referente era il Ministero della Sanità, non il M.P.I.!

È questa una distinzione fondamentale tra i due segmenti. Anche se Regioni, Province, Comuni hanno variamente inserito nei Nidi interventi educativi che rispondono ai caratteri evolutivi della Prima Infanzia, il Nido resta servizio socio- educativo, mentre la Scuola dell’Infanzia è scuola, non ancora obbligatoria, ma parte del percorso 6-18 anni. Il sistema integrato 0-6 proposto in una delle deleghe in bianco assegnate al Governo prevista dalla legge 107 è contenuto nel ddl 1260 “sistema integrato di educazione e istruzione dalla nascita fino a 6 anni”, da noi già fortemente contestato nel corso delle audizioni nella Commissione Parlamentare.

La Scuola dell’Infanzia, con l’attuazione dei “poli per l’infanzia” dai 3 mesi ai 6 anni, in un sistema misto in cui i privati contribuirebbero alle spese, con compresenze, interscambiabilità di ruoli tra docenti e educatrici, riassumerebbe inesorabilmente i tratti di servizio educativo.

È tempo che un intervento legislativo riconosca i servizi 0-3 anni come servizio collettivo e non più servizio a domanda individuale. Ma ciò non significa integrare impropriamente questo servizio di pertinenza comunale con la Scuola dell’Infanzia, confondendo le sue specificità coi bisogni - anch’essi specifici - della Prima Infanzia, svendendo il tutto per soli fini economici, come ci è stato più volte ripetuto a mo’ di giustificazione.

La nostra lotta continuerà fino a che non avremmo realizzato l’obiettivo: Scuola dell’Infanzia statale, finanziata dallo Stato, programmata dalle Regioni, gestita dai Comuni. Crediamo sia questo il modello di Scuola dell’Infanzia conforme ai principi costituzionali.

12/02/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Antonia Sani

presidente WILPF Italia, Womens International League for Peace and Freedom

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