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La resistenza della collettività multietnica di Casal Boccone

Reportage sulla comunità multietnica di Casal Boccone nella Capitale.


La resistenza della collettività multietnica di Casal Boccone Credits: foto di Alba Vastano

Una comunità formata da famiglie di diversa nazionalità, soprattutto provenienti dall’Africa del nord, che ha occupato l’ex casa di riposo per anziani di Casal Boccone, a Roma, nel gennaio 2012. La collettività, tutelata dal movimento per la lotta alla casa, vive intensamente l’accoglienza delle diversità culturali e la solidarietà verso i più deboli. Le mire della speculazione edilizia sul territorio del centro e le minacce di sgombero.

di Alba Vastano

L’effetto è immediato. Entri e respiri aria di socialità, aria pulita. Comprendi subito che in quel luogo vivono persone che non chiedono altro se non che i loro diritti umani e sociali siano rispettati. Non dovrebbe essere complesso assecondare le loro richieste, se non fosse che nel nostro Paese vigono leggi anticostituzionali, per cui il diritto alla casa, al lavoro e all’accoglienza agli immigrati, sono costantemente minati da politiche avverse.

Parliamo della comunità multietnica di Casal Boccone nella Capitale, composta attualmente da ben 143 famiglie, formate variegatamente da gruppi provenienti dal Nord Africa, ma anche da famiglie rom e da sfrattati. Persone che della difficoltà di vivere in un tessuto sociale che non li riconosce fanno il loro amaro pane quotidiano. Dal giorno dell’occupazione, l’otto gennaio del 2012 , si sono insediate in quel luogo, alla periferia della città. Un luogo che ha una triste storia pregressa che denota quanta corruzione si annidi nei cunicoli dell’amministrazione capitolina.

Gli edifici, due palazzine, sono immerse in un comprensorio lussureggiante. Dalle terrazze la vista si perde nel verde. Un luogo in cui l’ambiente naturale è ancora prevalente. Un’oasi naturalistica ai margini della città. Qui ci vivevano fino a dicembre 2011 oltre 70 anziani, trovandovi riposo e assistenza. Uno sgombero feroce voluto da Alemanno li ha dispersi con tutti i loro ricordi di una vita e molti di essi sono deceduti per il trauma subito nel perdere un riferimento così essenziale per la loro salute come un alloggio. Nella faccenda c’erano di mezzo la Fimit e Ligresti che avrebbero voluto mettere in campo l’ennesima speculazione edilizia, adombrando per sempre quell’oasi di tranquillità e danneggiandone irrimediabilmente il paesaggio naturale.

L’occupazione dell’8 Dicembre 2011 organizzata dai Bpm, ha arrestato il processo di speculazione edilizia. Da quel giorno l’insediamento di tanti immigrati presidia quel luogo, affinché non venga messo in atto il progetto urbanistico dei palazzinari e con la speranza, specie nel primo anno di occupazione, che il maltolto potesse essere restituito ai fini originari. Oggi, a quattro anni di distanza, gli occupanti sperano che quella resti la loro casa e che vengano abbattuti, da parte della giunta capitolina, tutti i paletti che possano annientare questo primario diritto. Dopo il primo tentativo forzoso di sgombero, avvenuto nel marzo 2012, durante il quale la maggior parte delle loro cose, fra mobilia, suppellettili e apparecchi tv, sono andate distrutte per mano delle forze dell’ordine e dopo una strenua resistenza degli occupanti che ha condotto alla resa gli incursori, non sono più avvenuti altri tentativi di sfollamento Ma il timore di nuovi attacchi costringe la collettività ad una permanente vedetta e al presidio costante del luogo.

L’organizzazione della vita collettiva è un esempio mirabile di come le diversità culturali e le tradizioni etniche possano essere un elemento di rinforzo e di arricchimento. C’è uno scambio assiduo di cultura e modalità di gestione della quotidianità che non apre ad un comportamento divisorio e settario, ma costituisce le fondamenta per la costruzione di una fervente società multietnica, in cui ognuno trova il suo spazio e ognuno se ne sente partecipe, arricchendosi delle esperienze diverse dell’altro. Qui è il vero luogo dell’integrazione umana, latente però quella sociale a causa dell’emarginazione che subiscono nell’inclusione dei luoghi di lavoro. Provvedono alla sussistenza adattandosi a fare qualsiasi “lavoretto” e il sentirsi anche marginalmente operativi è un supporto fondamentale per continuare a resistere al disagio dell’esclusione dal tessuto sociale che mina la loro personalità e la loro stessa vita.

Appena arrivo ai cancelli trovo una comprensibile diffidenza nell’accoglienza da parte delle vedette in guardiola. “Chi sono e cosa voglio da loro”, mi chiedono. Li rassicuro, dichiarandomi una di loro, nel senso che ho partecipato all’occupazione e che sono assolutamente schierata dalla loro parte. Qualcuno mi riconosce e sono abbracci e manifestazioni di stima e riconoscenza, perché ho scritto già molto per perorare la loro causa. Mi chiedono di parlare di loro e della loro vita serena, fattiva e includente sia pur ai margini di una società che non li riconosce, se non con il marchio degli immigrati invasori e accaparratori di un bene che non gli appartiene, riferendosi a questo spazio urbano che, grazie all’occupazione, non è finito in mano alla speculazione dei palazzinari.

Parlo con Mohammed, del Marocco. È lì dall’occupazione, con la sua famiglia, e intende restarci. È un giovane uomo, di grande vivacità intellettuale. “Sono qui da quattro anni. Siamo subito andati a contestare al Cipe (Comitato internazionale programmazione economica) e, a seguito, hanno arrestato alcuni compagni e c’è stato il tentativo di sgombero. Finalmente ci hanno concesso la residenza, la maggioranza di noi ha avuto questa concessione, tranne gli ultimi arrivati fra cui gli sfrattati a cui non è stata concessa per l’infame articolo “5” del decreto Lupi di cui stiamo chiedendo la modifica. Per quel decreto siamo tutti soggetti a sgombero. Grazie ai movimenti per la lotta per la casa siamo riusciti due mesi fa a strappare la delibera regionale per le occupazioni. C’è un minimo di sicurezza oggi, ma ancora non ci fidiamo per quell’atteggiamento che ancora ha la polizia nei nostri confronti. A novembre 2015 sono venuti a fare l’identificazione a tutti gli occupanti. Minacce di incursione ci sono sempre. Ogni giorno vediamo la polizia qui davanti e ci chiedono informazioni su quanti siamo e quanti bambini e anziani vivono nella nostra collettività. In quattro anni qui sono nati 30 bambini e in tutto sono oltre 100 i minori che fortunatamente sono tutti scolarizzati. Qui viviamo in auto-organizzazione. Nessuno impone nulla. Abbiamo accolto ultimamente tanta gente sfrattata che viveva in macchina. Accogliamo e aiutiamo tutti quelli che ne hanno bisogno. Gli spazi comuni, come la ludoteca, il parco, la sala per le assemblee sono curati da tutti. Ogni settimana facciamo un’assemblea per discutere dei problemi comuni e abbiamo stabilito delle regole comportamentali per un vivere civile, a cui tutti si adeguano. Se qualcuno non le rispetta e minaccia la nostra quiete viene estromesso dalla comunità. Abbiamo anche cinque famiglie rom e, nonostante la cultura profondamente diversa, siamo riusciti ad integrare anche loro”.

Anche Mercedes, un’occupante di nazionalità argentina, ha riacquistato il sorriso, dopo la primaria diffidenza verso la giornalista sconosciuta. Scopriamo che abbiamo amicizie e circostanze che ci accomunano e mi accompagna a visitare il centro. “Le aggressioni del governo verso le fasce deboli sono sempre più pesanti. Lo stato di diritto il governo lo riserva solo al capitalismo - dice Mercedes - In questo luogo ci vivo da quattro anni e mi sento a casa, ma dalla società per quanto riguarda i diritti mi sento esclusa, perché non posso permettermi di avere una casa mia e mi devo arrangiare così. Io sono cittadina italiana. Nell ’84 ho fatto domanda per una casa popolare, ma non l’ho mai ottenuta, per questo sono qui, almeno qui i diritti umani sono rispettati”.

M’inoltro negli interni accompagnata dagli ormai amici (ndr: qui si fa prestissimo a fare amicizia) residenti nel centro. E incontro Diego, un giovane cantante dell’Ecuador, che ha in braccio la sua bambina. Parla perfettamente l’italiano e sorride molto.“Qui i bambini crescono in modo sano, imparando a socializzare prestissimo”. E nello spaccio alimentare della comunità c’è Zahra, una giovane etiope. Viene da Addis Abeba. Mi dice che si trova “così così, né tanto bene né tanto male. Ma meglio di niente”. Lo dice sorridendo, ma si comprende che ha nostalgia della sua terra, che ha lasciato perché costretta dall’indigenza. E poi c’è Adua, una signora italiana che ha avuto seri problemi di abitazione. Mi fa vedere il suo appartamentino. Camera, cucina e bagno. Un terrazzino floreale grazie al suo pollice verde, che si affaccia su uno spazio verde che lascia stupiti. Una cura meticolosa nell’arredo e nella pulizia. Qui ha trovato la sua serenità, strappata a chi gliel’aveva tolta.

Il silenzio e la tranquillità invadono piacevolmente anche me, specie quando visito il parco rigoglioso che circonda l’area edificata. Il glicine sovrasta il grande gazebo. Uno spazio insolito di civiltà e di bellezza naturalistica al confine di una città che rinnega questi valori. In questo spazio vive una collettività multietnica che ha trovato una dimensione di vita, basata sul rispetto delle diversità. Una comune per necessità, ma che nella scala dei valori umani e civili è al primo posto.

07/04/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: foto di Alba Vastano

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L'Autore

Alba Vastano

"La maggior parte dei sudditi crede di essere tale perché il re è il Re. Non si rende conto che in realtà è il re che è il Re, perché essi sono sudditi" (Karl Marx)


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