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Sulla condizione produttiva e di classe in Italia

Un primo tentativo di fare chiarezza sulla situazione di classe nel nostro paese, in risposta a chi si interroga sul ruolo delle classi medie, sulla condizione dei contadini e sull’effettiva esistenza, oggi, di una “classe operaia”.


Sulla condizione produttiva e di classe in Italia

Il seguente articolo è stato scritto nel marzo 2021, in un periodo in cui le mobilitazioni della piccola borghesia e di chi lavora nel mondo dello spettacolo erano all’ordine del giorno, ma non è stato mai pubblicato. Lo si propone ora in quanto si ritiene che la sostanza del discorso sia ancora attuale, come contribuito ad una comprensione del ruolo delle comuniste e dei comunisti nei confronti dei settori di classe media.

La serie di mobilitazioni esplose a Napoli lo scorso autunno e continuate in tutto il paese, sebbene in modo differenziato [1], mostrano una reattività dei settori della piccola borghesia, da molto tempo in corso di proletarizzazione, estremamente alta. Questa reattività stride con la passivizzazione generalizzata dei lavoratori salariati, che hanno perso molta della loro forza con il crollo delle loro organizzazioni di riferimento e dopo decenni di smobilitazione. Alla sostanziale inesistenza di strutture organizzative valide si unisce per il momento il prevalere, nei settori della classe lavoratrice, della paura per il Covid più che della rabbia; i settori dei lavoratori (tranne alcuni casi, ad esempio i lavoratori della cultura) non si percepiscono al centro di quanto sta avvenendo, e restano in attesa continua, sperando di non dover pagare, come invece è sempre stato, i costi della crisi [2]. Constatata la momentanea smobilitazione dei lavoratori e delle lavoratrici, alla quale è prioritario opporsi per rigenerare il conflitto sociale dal basso, è fondamentale capire per i marxisti come porsi rispetto alle mobilitazioni di altri settori sociali, come quelli delle classi medie, che come sempre nelle crisi tendono a proletarizzarsi e si oppongono a questa tendenza in vario modo. A tal fine è fondamentale partire da un’analisi della composizione e della storia recente di questi settori sociali.

La storia dei ceti medi italiani è molto ampia, considerando che si tratta di settori sociali che hanno sempre caratterizzato il tessuto produttivo del nostro paese, influenzandone significativamente le possibilità di sviluppo economico e l’andamento politico. È indubbio, comunque, che il periodo che va dalla fine della Guerra Fredda alla crisi del 2008 abbia segnato una decisiva accelerazione del peso effettivo e della percezione condivisa della dimensione dei ceti medi in Italia. Parallelamente alla distruzione del patrimonio industriale italiano, infatti, in questo quindicennio e sull’onda dell’apertura di nuovi mercati durante il processo di globalizzazione si è assistito alla nascita di un numero elevatissimo di piccole imprese, specialmente nel settore dei servizi, che si sono caratterizzate per l’atteggiamento ipercompetitivo e di rifiuto della politica

Le questioni più salienti emerse dallo scorso autunno sono essenzialmente due: se da una parte non si può dimenticare la feroce critica di Gramsci alla piccola borghesia reazionaria che costituì la base di massa del fascismo, schiacciata tra la crisi di riconversione del primo dopoguerra e l’avanzata del movimento dei lavoratori, frustrata dall’aver perso il ruolo di comando avuto durante la guerra; dall’altra è importante ricordare un fattore oggettivo: quasi la metà dei lavoratori italiani a contratto lavora in imprese di piccolissima dimensione (fino a 9 addetti [3]) [4]. E se pertanto come diceva Gramsci la proletarizzazione della piccola borghesia dovrebbe essere vista con favore, in quanto da una parte si eliminano dal campo sociale le imprese meno produttive ed a più alto tasso di sfruttamento [5] e dall’altra si purifica il terreno di lotta rendendo evidente lo scontro centrale, ovvero quello tra borghesi e proletari [6], questa considerazione strategica non può trasformarsi immediatamente in una tattica conseguente in una fase in cui la mancanza di coscienza di classe in ampi settori lavorativi ha portato, e lo dimostrano le proteste di questi mesi, tante lavoratrici e tanti lavoratori a mobilitarsi al seguito delle proteste della piccola borghesia e per gli interessi della propria (o così percepita) piccola impresa. 

A questo punto è necessario chiamare in causa, al fine di essere chiari, l’enorme varietà di rapporti interni e di organizzazione complessiva delle tante piccole imprese presenti sul suolo nazionale; non sono infatti tutti i settori piccolo borghesi quelli in mobilitazione, né è sempre possibile dire che i subalterni si siano aggregati a queste mobilitazioni. Parlando delle proteste, non si può non notare come il fenomeno di adesione di cui sopra si sia manifestato nei confronti di un tipo di piccola borghesia molto precisa, che è anche quella che più di tutti gli altri settori si è mobilitata, ovverosia quella del settore dei servizi (specie di ristorazione, bar, etc). Questi settori, sebbene necessari al mantenimento della domanda delle imprese agroalimentari, sono stati considerati sacrificabili durante la crisi, della quale per ora stanno pagando forse il costo maggiore. Sempre in questo settore, peraltro, il numero delle microimprese [7] è incredibilmente alto per numero di lavoratori occupati (3/4 degli addetti del settore sono in questa categoria di imprese, per quanto verrebbe da chiedersi quanti di questi siano salariati e quante imprese siano invece a conduzione familiare o simili). Il fatto che in questi ambiti sia stata forte la convergenza tra lavoratori e padroncini non può che far riflettere i comunisti sulla tattica da portare avanti per poter organizzare la classe lavoratrice, superando le contraddittorie parole d’ordine dei settori di classe media, che in questa fase sembrano esercitare una sorta di “egemonia debole” sui subalterni e che trovano sponda anche in vaste aree della sinistra extraparlamentare, complice di aver ceduto teoricamente di fronte all’ideologia dominante, abbandonando ogni teoria rivoluzionaria e quindi ogni prospettiva di movimento rivoluzionario.

L’attenzione posta specialmente al settore dei servizi di ristorazione e simili nell’esposizione di questo processo non è casuale, ma rispecchia in realtà una tendenza che ha carattere sia settoriale che territoriale in Italia, e che ha una forte controparte nel settore dell’industria in senso stretto. Qui la congiunzione “spontanea” di intenti tra i settori della classe lavoratrice e quella piccolo e medio borghese non si è realizzata e le cause si possono ricercare in un’ampia varietà di ragioni, come la diversa dimensione media delle imprese, che è tre volte superiore alla media generale, e la più facile attività che in questi settori hanno le organizzazioni sindacali e di classe. Se poi si analizza la questione da un punto di vista della collocazione sul territorio nazionale, appare evidente come la maggioranza delle imprese di servizi ed a basso valore aggiunto, la cui piccola borghesia si trova in alto rischio di proletarizzazione, siano imprese del Sud, mentre sono del Nord le imprese un po’ più grandi e dove i settori di classe medio e piccolo borghese godono di una relativa stabilità. Questo ultimo passaggio sembra fondamentale nel momento in cui si analizza l’andamento delle proteste recenti, che hanno avuto il loro zoccolo duro, con parole d’ordine di sinistra, al Sud, e solo imitazioni fasciste nel Nord industriale. Emerge con forza la necessità di distinguere per tipo di attività le imprese, che presentano tendenzialmente atteggiamenti molto differenziati nei rapporti con i lavoratori al proprio servizio e che quindi necessitano differenziati atteggiamenti da parte dei comunisti. Va aggiunta a questa sostanziale differenza di tendenze sul piano nazionale, anche la partecipazione di lavoratori a nero o “indipendenti” nelle proteste, che sono senza dubbio tra i più colpiti dalla crisi che è stata alla base della pandemia e che ora quest’ultima ha controalimentato. In sintesi, la borghesia più povera, urbana, e più al di fuori dal circuito strettamente produttivo si è saldata con i propri lavoratori (in aziende spesso gestite sul modello familiare o semifamiliare, nelle quali quindi non sempre si può dire si parli realmente di classe propriamente lavoratrice) e con gli interessi di lavoratori senza contratto o che si percepiscono essi stessi, egemonizzati dall’ideologia dominante, come padroni (ovvero lavoratori indipendenti) nel rivendicare ampie tutele economiche, utilizzando i soldi prodotti in ambito produttivo; mentre i lavoratori dei settori già chiusi per decreto (spettacolo) o più profondamente interni al circuito produttivo e all’interno di impianti più ampi hanno iniziato sporadiche lotte contro i propri padroni, che a loro volta non si sentono parte di un variegato “popolo” ma si percepiscono come ancora privilegiati di poco impoveriti e che trovano nell’ordine la migliore risposta alle proprie insicurezze. E si potrebbe anche fare un passaggio ulteriore, ricercando in questa distinzione tra la piccola e media borghesia produttiva del Nord e la piccolissima borghesia dei servizi del Sud l’origine di quella divisione nazionale tra l’interesse federativo e razzista delle regioni più ricche (raccolto dalla Lega) e l’astratto giustizialismo di cui il Movimento 5 Stelle si è fatto portatore; costituendo un modello politico di distribuzione geografica del voto ricorrente nel nostro paese e che solo negli ultimi tempi sta traballando, con continui slittamenti a destra dello scenario politico. Detto tutto questo, è importante notare come solo tenendo chiara questa divisione per settori di impresa e geografici delle risposte piccolo borghesi alla crisi sia possibile comprendere come porre in termini comprensibili alla classe il superamento delle posizioni comunque contraddittorie della piccola borghesia; evitando quindi che i lavoratori si sottomettano completamente alle richieste dei padroncini organizzati che sono comunque, in ultima istanza, ben felici di scaricare i propri lavoratori se questo gli garantisce tutele, e sono pronti ad utilizzare i soldi dati alla singola azienda e non nominalmente ai lavoratori non certo per tutelare i dipendenti, ma anzi per garantirsi la sopravvivenza aziendale.

È per quanto detto poc’anzi che la nostra risposta non può ridursi alla lotta per il mantenimento delle piccole imprese ad ogni costo, le quali sono anzi, specialmente nell’ambito strettamente produttivo, oggettivamente discutibili; al contrario la nostra battaglia dovrà essere quella di comprendere il processo in corso e le prospettive di chi si sta mobilitando per offrire prospettive alternative (questione che è impossibile senza rilanciare un movimento più generale possibile a partire da questi piccoli fuochi accesi) e soprattutto, e di conseguenza, per evitare che la lotta dei lavoratori interni alle piccole imprese rimanga una lotta locale e di settore, sostanzialmente svolta dalla singola impresa per il proprio singolo interesse immediato (e quindi interesse dei proprietari). Ogni mobilitazione di lavoratori, anche se sviluppata al seguito della mobilitazione di altri settori sociali, deve trasformarsi per noi in un’occasione per riorganizzare chi si mobilita, per rompere le barriere settoriali, per porre sul piatto la questione generale, per strappare al controllo dei padroncini i lavoratori ed invertire, con la forza dei lavoratori organizzati, la tendenza egemonica attualmente esistente, costruendo in questo processo il blocco sociale alternativo a quello dominante.

Resta da capire quale sia oggi l’andamento ulteriore delle imprese nel loro insieme, per comprendere in quale modo la crisi e la chiusura forzata continueranno a modificare la composizione interna ed i rapporti che la piccola borghesia esprime con sé stessa e con le altre classi. Su questo punto appaiono al momento evidenti i forti danni che la pandemia sta esercitando in termini di chiusure proprio sulle microimprese e nello specifico sul settore dei servizi e della cultura, mentre le imprese industriali (che come già detto sono mediamente di maggiori dimensioni) continuano a restare aperte (in vari casi in deroga) perché rientrano nell’ambito dei settori considerati essenziali, assieme alle imprese di area commerciale [8]. Questa dinamica, che privilegia l’ambito strettamente produttivo e dove già si manifesta il conflitto capitale lavoro, può essere estremamente importante per invertire la tendenza di cui sopra, per permettere quindi ad un movimento dei lavoratori, organicamente saldato e naturalmente contrapposto a quello borghese in senso esteso, di rovesciare il rapporto egemonico settoriale nell’area dei servizi, unificando i lavoratori delle piccole imprese e spingendo a fare egemonia sulla piccola borghesia urbana in funzione di costruzione del blocco sociale alternativo, mentre si critica contemporaneamente la piccola industria, la quale non ha alcun interesse, neppure contraddittorio, nell’espansione del conflitto (in quanto come settore produttivo sarebbe l’unica a poterne pagare i costi, non producendo, gli altri settori borghesi, alcun valore) e si richiude su posizioni sempre più reazionarie. 

 

Note: 

[1] Le proteste più massive e di carattere progressivo si sono concentrate al Sud, mentre al Centro-Nord si è spesso trattato di uscite di gruppuscoli organizzati, solitamente legati agli ambienti dell’estrema destra. Ci sarà modo più avanti di proporre una motivazione per questa divisione sul piano nazionale.

[2] Questa attesa si è fatta ancora più incerta con l’arrivo di Draghi al governo, che, nonostante la propaganda portata avanti a reti unificate, porta brutti ricordi ai lavoratori.

[3] L’ISTAT definisce gli addetti come somma di tutti i lavoratori (dipendenti o “indipendenti”), a qualsiasi contratto (quindi chiaramente senza contare chi lavora al nero). Si tratta complessivamente della somma di titolari e cooperatori dell’impresa, coadiuvanti familiari, dirigenti, quadri, impiegati, operai, apprendisti.

[4] Dati ISTAT del 2017, a cui faccio riferimento dove non diversamente specificato.

[5] Le microimprese (il 95% delle imprese, che impiegano il 44,5% degli addetti) producono poco più di un quarto del valore aggiunto complessivo. Per poter sopravvivere nel mercato i padroncini, specialmente in ambito produttivo, devono necessariamente sfruttare a tassi di sfruttamento più alti di quelli dei grandi industriali la propria forza lavoro.

[6] Dal testo “La piccola borghesia” di Gramsci, pubblicato su L’Ordine Nuovo nel dicembre 1919.

[7] Sempre l’ISTAT definisce microimprese quelle con meno di 10 addetti.

[8] Dati ISTAT al 15 giugno 2020.

04/12/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Simone Rossi
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