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La posta in gioco della guerra in Siria - Parte I

Per un’interpretazione non ideologica del conflitto siriano dopo la presa di Aleppo


La posta in gioco della guerra in Siria - Parte I Credits: http://www.mandelaforum.it/

Per comprendere realmente gli eventi siriani occorre uscire dalla tenebra del quotidiano e interpretare i fatti in una più ampia prospettiva storica. È indispensabile tener presenti le ragioni socio-economiche del conflitto, che rendono possibile interpretare in modo non ideologico gli aspetti sovrastrutturali della guerra. È necessario, infine, inquadrare gli eventi nella dinamica dialettica del conflitto sociale, che caratterizza le società in guerra.

Rimanere legati alla narrazione dei fatti del giorno è certo utile a conoscere nuovi particolari del conflitto in corso in Siria, ma rischia di far perdere di vista la complessa, in quanto dialettica e intimamente contraddittoria, contestualizzazione storica in cui i singoli eventi debbono venir ricompresi. Per poter provare a ricostruire tale contesto è necessaria una certa distanza non solo spaziale, ma anche temporale dagli eventi. La riflessione, infatti, non può che essere successiva all’azione storico-politica, per quanto diviene poi decisiva, quale fondamento razionale delle nuove azioni politiche. Inoltre rende necessario uno sguardo di insieme, per così dire dall’alto degli eventi, che consente di comprendere, dopo aver fatto esperienza dei singoli alberi (i diversi eventi di cui sono state piene le cronache di questi anni), che essi sono davvero intellegibili solo all’interno della foresta (la totalità del contesto storico) di cui sono parte costituente. Tanto più che – sino a quando non si assume tale posizione per così dire sopraelevata e, per quanto possibile distaccata – non si può che rimanere prigionieri della logica intrinseca a ogni conflitto, in cui diviene in qualche modo necessario prendere parte, ossia assumere una posizione partigiana e, quindi, parziale che non può che comportare una interpretazione ideologica, funzionale all’azione politica. In tal modo si assiste a interpretazioni tutte necessariamente unilaterali degli eventi, che impediscono il reciproco riconoscimento e non possono che sfociare in un conflitto, per così dire, per la vita e per la morte.

Tale conflitto e tale logica partigiana hanno finito per dividere e, dunque, ulteriormente indebolire il fronte della sinistra, rendendolo ancora più inefficace a contrastare la resistibile ascesa al potere delle forze della reazione. Così le forze della sinistra moderata hanno, ancora una volta, preso posizione a favore delle potenze imperialiste che, in quanto democratiche e liberali, favorirebbero in ogni modo il progresso e la pacificazione in territori dominati da Stati totalitari e da un fondamentalismo che non può che sfociare nel terrorismo. Le forze della sinistra radicale si sono schierate dalla parte delle vittime, dei civili schiacciati fra opposti interessi, entrambi egualmente esecrabili. Da qui la classica posizione del né, né, ossia con il regime di Assad, con i ribelli egemonizzati dai fondamentalisti e, dunque, con i paesi del Golfo, la Turchia e le potenze occidentali schierate con questi ultimi, né con Russia, Iran, Hezbollah e milizie sciite schierate con il governo siriano. Ciò ha portato diversi esponenti di tale sinistra – per uscire dalla contraddizione propria dell’anima bella che si pone al di sopra e contro il conflitto, senza però fare nulla di concreto per consentirne la soluzione, limitandosi appunto a compiangerne le vittime innocenti – a schierarsi con la componente più sinceramente democratica, individuata nella sinistra kurda. La sinistra comunista a sua volta si è divisa, ancora una volta, fra i post-stalinisti che, legati alla logica campista e frontista, necessaria a isolare e battere le forze della reazione, si sono schierate a difesa del governo siriano e i post-troskisti che hanno al contrario, in nome della centralità della rivoluzione, preso posizione a favore dei ribelli.

È forse possibile superare tali inconciliabili posizioni grazie alla mutata situazione che si è venuta a creare sul terreno dopo la riconquista di Aleppo da parte delle forze governative. Tale riconquista pare assimilabile alla riconquista di Stalingrado che ha segnato la svolta decisiva nella seconda guerra mondiale. Se, dunque, per quanto dura e sanguinosa e ancora lunga possa essere la guerra, le sorti del conflitto sono in qualche modo segnate, ciò rende finalmente possibile assumere la necessaria distanza critica fra le parti in conflitto, congedandosi dalle interpretazioni ideologiche funzionali alla lotta politica, per assumere il punto di vista obiettivo e dialettico proprio dell’interpretazione scientifica.

A questo scopo non si può che partire dal contesto strutturale, ovvero socio-economico, caratterizzato dall’ultima e sempre più catastrofica crisi che sta sconvolgendo da oltre quarant’anni i paesi dominanti, a capitalismo avanzato. Tale crisi, fondata sulla caduta tendenziale del saggio del profitto, ha prodotto la crisi della tattica della coesistenza pacifica, fra chi intendeva sviluppare la transizione al socialismo e chi mirava a sviluppare l’economia capitalista. I margini di mediazione, ossia le politiche riformiste, che hanno prodotto lo “stato sociale”, ossia il Welfare State, si sono progressivamente ristretti e l’ideologia della coesistenza pacifica è stata travolta dalla dura realtà che imponeva, ai sostenitori del modo di produzione capitalistico, di rilanciare la spesa militare e la politica aggressiva neocolonialista e imperialista a livello internazionale. Così chi si è ostinato a difendere la prospettiva sempre più idealistica della coesistenza pacifica ha finito per soccombere senza colpo ferire alla implacabile logica della guerra fredda.

Tale logica della coesistenza pacifica è stata reinterpretata e aggiornata, alla luce della nuova fase, dalla principale potenza che si era fatta paladina delle forze antimperialiste e anticolonialiste: la Repubblica popolare cinese. In tal modo, con l’autodissoluzione del blocco sovietico e la politica di distensione portata avanti dalla Cina, il principale nemico – necessario a giustificare la spesa militare, le nuove guerre post-guerra fredda, e il rilancio su grande scala della politica neoimperialista – sono divenuti i paesi governati da forze fondate sul movimento di lotta al colonialismo e all’imperialismo. Non a caso le guerre post-guerra fredda hanno travolto paesi come la Jugoslavia, l’Iraq, la Libia e la Siria, oltre a colpire la resistenza libanese e palestinese e a minacciare in modo sempre più diretto paesi come l’Iran e il Venezuela.

Principale testa di ponte di tale politica neoimperialista non poteva che essere la distopia sionista volta a imporre con la forza la costruzione di uno Stato confessionale ebraico all’interno del mondo arabo-musulmano. Fra le vittime di tale distopico progetto vi è certamente la Siria, la quale vive dal 1967 la tragedia dell’occupazione delle alture del Golan che, elevandosi proprio al di sopra della capitale Damasco, costituisce una vera e propria spada di Damocle che minaccia di abbattersi su questo paese. Perciò la Siria, anche dopo il crollo del blocco sovietico – il suo principale alleato – non ha potuto che portare avanti, pur con tutte le contraddizioni del caso, la propria posizione di fattuale antagonismo alle politiche neoimperialiste. Proprio per questo il paese è rimasto fra i principali target del maggiore sponsor della politica neoimperialista, ovvero gli Usa, che hanno definito tale paese uno Stato canaglia, in quanto tale al di fuori di qualsiasi tutela da parte del diritto internazionale e, quindi, sempre a rischio di una aggressione imperialista.

Ciò ha portato la Siria a mantenere salda l’alleanza con la Russia, alla quale ha lasciato il controllo di una decisiva base, l’unica sul Mediterraneo, obiettivo storico della politica estera russa. Dal momento che la Russia resta l’unica potenza in possesso di un deterrente militare in grado di costringere a scendere a patti lo strapotere della Nato, un’aggressione diretta, per quanto voluta e preparata, non è stata possibile. Da qui i piani elaborati dagli Stati Uniti e portati avanti dalla Nato di aggirare il problema mirando all’implosione del paese, fomentando le contraddizioni sul piano etnico e religioso, sulla base della tradizionale logica imperiale del divide et impera. Da qui il costante sostegno ai principali rappresentanti degli islamisti sunniti, tradizionali nemici del governo laico, prodotto dal movimento di decolonizzazione, e da sempre sostenuto dalla minoranza alauita, fautrice di una concezione della religione più moderna e razionale. Ciò ha portato a sostenere la Fratellanza musulmana, attraverso il suo principale sponsor a livello internazionale, la Turchia di Erdogan, e i fondamentalisti wahabiti, principali responsabili del terrorismo internazionale, che hanno come principali sponsor i regimi teocratici delle petromonarchie del Golfo. Più complesso è stato il supporto alla principale minoranza etnica, ossia i kurdi siriani, in quanto egemonizzati dalle forze della sinistra laica.

D’altra parte l’ordine nel quale colpire i propri nemici dipende anche essenzialmente dalla loro debolezza. Questo spiega, almeno in parte, perché la guerra ha travolto l’Iraq, la Jugoslavia, la Libia, ha sconvolto e devastato la Siria, ha colpito il Sudan, mentre ha solo lambito altri stati definiti egualmente “canaglia” come Cuba, Venezuela, Iran e Repubblica Democratica Popolare di Corea. La debolezza dipende non solo dal mancato possesso di armi in funzione di deterrenza, di cui si è dotata la Rdpc e in parte l’Iran, dal sostegno internazionale di cui hanno goduto Cuba e Venezuela, ma dalla capacità di egemonia del blocco sociale al governo del paese. La crisi di tale egemonia ha reso relativamente facile sconfiggere paesi come la Jugoslavia, l’Iraq e la Libia e ha, sino a questo momento, impedito di colpire gli altri obiettivi nel mirino del neoimperialismo.

La Siria rappresenta un caso intermedio e questo spiega perché, pur essendo stata duramente colpita, non è stata piegata. Il governo di Assad non ha fatto, in effetti, i gravi errori dei governi iracheni e libici, che si sono troppo isolati a livello internazionale e hanno puntato troppo – per mantenere il potere – sul monopolio della violenza legittima e troppo poco sull’egemonia. La Siria, pur piuttosto isolata fra i paesi arabi, ha potuto godere del supporto indispensabile della Russia e poi del fronte sciita capeggiato dall’Iran. Inoltre il suo governo, oltre che mediante il controllo dell’esercito, ha potuto resistere in quanto gode tuttora di una capacità di egemonia su una parte non trascurabile della popolazione siriana anche perché, al contrario, i ribelli hanno troppo contato sulla forza, sulla violenza, sulla guerra di movimento, fidando sul supporto delle potenze reazionarie e imperialiste, piuttosto che sulla egemonica guerra di posizione.

07/01/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo
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