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La fabbrica della paura

La frontiera della contraddizione storica è tra la libertà inefficace delle democrazie illiberali e restrittive e le democrazie autoritarie del socialismo asiatico nonché quello popolare dell’America Latina.


La fabbrica della paura

Lo stato d’emergenza è ormai la forma ordinaria delle cosiddette democrazie rappresentative nel XXI secolo: una limitazione/sospensione/restrizione dei diritti che rappresenta la mutazione riduzionista del liberalismo, verso forme ridotte, ristrette. Questo processo va avanti da anni: nei diritti e nella riorganizzazione del lavoro (nella produzione e nelle modalità del lavoro), con perdita di salario, occupazione, diritti e la formalizzazione del precariato come strutturale. Ma perché fino a quando si è trattato di questi diritti sociali, premessa e condizione di quelli individuali, quasi nessuno nella sinistra – a parte i comunisti – ha denunciato l’arretramento della democrazia?

Da anni nei regimi occidentali – a sistema economico-sociale capitalistico e istituzionale liberal-democratico rappresentativo – i governi hanno adottato una strategia (la cosiddetta governance) per gestire e governare la crisi sistemica: lo strumento adottato è quello della paura, che si declina in molti modi (dal timore della perdita del livello economico e dello stile di vita, a quello degli attentati derivanti da nemici della civiltà e della libertà occidentale, fino al disorientamento per la perdita delle certezze nei valori etici, negli orientamenti culturali, nei principi ideologico-politici e perfino nelle espressioni spirituali).

Si possono individuare vari livelli e modalità dei fenomeni politico-sociali che tra fine Novecento e inizio XXI secolo, fino agli ultimi mesi, hanno caratterizzato questa strategia:

  1. risposte militari, a carattere neo-colonialista e neo-imperialista, a fenomeni progettati per rispondere al coacervo di interessi industrial-militari ed economico-finanziari, secondo una prospettiva storico-politica evidente, dominata dal capitalismo nella sua fase di liberismo selvaggio. Ad esempio: crisi provocate per contrastare situazioni politiche in cui regimi politici non funzionali agli interessi occidentali sono stati aggrediti – e nella maggior parte dei casi distrutti (Jugoslavia, Iraq) – con interventi finalizzati a ripristinare un controllo politico-militare (quasi mai raggiunto) in regioni geopolitiche strategicamente rilevanti;
  2. risposte a processi indotti, determinati da contesti e cause strutturali, come ad esempio quelli migratori, fomentati dalle crisi ambientali, economiche e militari (guerre civili o forme di repressione militare), o quelli terroristici, in cui organizzazioni dai tratti ideologicamente neonaziste (con tutte le variazioni sul tema: dal fondamentalismo integralista religioso all’iper-nazionalismo etnico xenofobo razzista) sono state fomentate, foraggiate e utilizzate in funzione strumentale per disarticolare regimi non omogenei agli interessi occidentali (Libia, Siria), con dinamiche diversificate, ma saldate e ricondotte ad un unico scenario, per alimentare insicurezza;
  3. risposte a situazioni di emergenza non prevista (o quantomeno non prevista nelle forme in cui si sono manifestate), come ad esempio la crisi economica o la pandemia: ciò non significa che non ci siano responsabilità politiche in queste crisi (le crisi economiche sono strutturali e per certi versi indotte, ma non prevedibili nelle forme specifiche, così come le crisi sanitarie, che sono il prodotto tanto indesiderato quanto prevedibile di un sistema e di uno stile di vita sempre più improntato alla mercificazione di ogni aspetto dell’esistenza); queste crisi, come quella pandemica di questi mesi, hanno consentito di adottare forme di decisionismo accelerato, o di piegare le costituzioni, per introdurre una legislazione emergenziale, con tratti di restrizione delle procedure democratiche, se non istituendo elementi autoritari: la democrazia non è annullata formalmente, ma sono stati sospesi o rinviati il dibattito parlamentare o i processi di formazione del consenso, sono stati ristretti diritti e principi democratici, vi sono restrizioni dell’agibilità politica (dalle misure di partecipazione nelle piazze agli spazi di discussione e confronto politico);
  4. risposte che aprono la strada a svolte neofasciste, con la demolizione della democrazia rappresentativa e l’accentramento del potere in esperimenti che si fondano sull’investitura diretta del popolo e incoronano leader che intendono incarnare il ruolo di referenti degli interessi consolidati delle classi dominanti, con il rafforzamento degli interessi privati (delle multinazionali o delle aziende piccole e medie) che chiedono di sottrarre i profitti alla distribuzione della ricchezza verso le classi popolari e lavoratrici tagliando lo Stato Sociale, o addirittura di spremere ancora di più le classi subalterne, impoverendole fino all’inverosimile.

Il processo che sta avvenendo in Occidente è esattamente contrario a quelli che stanno emergendo nell’area asiatica, dove i Paesi a regime comunista (Cina o Vietnam), con tutte le contraddizioni e limiti di quelle esperienze, esercitano un potere autoritario, ispirato ad una centralizzazione decisionale del partito comunista, ma non finalizzato (prioritariamente, almeno) al profitto privato. La nuova frontiera della contraddizione storica è tra la libertà inefficace delle democrazie illiberali e restrittive, che rischiano la svolta neofascista, e le democrazie autoritarie del socialismo asiatico nonché quello popolare dell’America Latina.

25/07/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Giovanni Bruno
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