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Giochi politici in Brasile

Come contro vari leader progressisti latinoamericani, anche contro Lula viene adottata la guerra giudiziaria per ristabilire il cosiddetto “ordine”.


Giochi politici in Brasile

Il 7 ottobre prossimo si svolgeranno le elezioni presidenziali in Brasile, il cui esito avrà conseguenze su tutta l’America Latina, dato che potranno confermare la svolta a destra, realizzatasi con la cacciata di Dilma Rousseff, l’incarceramento di Luis Inacio Lula da Silva, la vittoria di Mauricio Macri in Argentina, quella di Lenin Moreno in Ecuador, di Sebastián Piñera in Cile, antico ministro di Pinochet [1], oppure rafforzare il fronte progressista del subcontinente assai indebolito dopo gli anni del miglioramento delle condizioni di vita degli strati più poveri della popolazione.

Il 16 agosto scorso migliaia di attivisti del Partito dei lavoratori brasiliano si sono recati, insieme ai vertici dello stesso, a registrare la candidatura di Lula da Silva, che potrebbe non essere accettata dal Tribunale Supremo Elettorale, dato che questi è stato condannato a 12 anni di reclusione per corruzione e riciclaggio. Il verdetto dovrà messere emesso entro il 17 settembre. Il rigetto della candidatura potrebbe avvenire, richiamandosi alla cosiddetta legge della scheda pulita, in base alla quale chi è stato condannato in seconda istanza da un tribunale collegiale (come Lula appunto) non può presentarsi ai comizi elettorali. Tuttavia, dal momento che i sondaggi dicono che il Partito dei lavoratori perderebbe molti voti senza la candidatura di Lula (cui è attribuito il 37% dei voti), esso è intenzionato a fare di tutto perché il suo esponente incarcerato partecipi alle elezioni presidenziali. La cosa è assai laboriosa, perché il Partito di Lula si trova di fronte anche un altro attacco, quello della Procuratrice generale del Brasile, Raquel Dodge, la quale ha subito dopo presentato la richiesta di impugnazione della candidatura.

Nello specifico Lula è accusato di aver ricevuto in dono un appartamento e di riciclaggio di denaro; accuse non comprovate nonostante l’intensa attività del giudice Sergio Moro, e la sua condanna, passata attraverso una serie di istanze, presenta connotazioni più politiche che giuridiche. Chiaramente essa costituisce il prosieguo del colpo di stato “costituzionale” rivolto contro Dilma Rousseff, decaduta dalla presidenza, mentre il governo guidato da Michel Temer (anche lui condannato nel 2016 ma solo ad una multa per finanziamenti illeciti al suo partito), che l’ha sostituita, è sotto indagine.

Ma come si è potuta creare questa sconcertante situazione? In primo luogo, mi sembra opportuno sottolineare che, se il Partito dei lavoratori si è formato su impulso della CUT (Centrale unica dei lavoratori) nel 1980 per dar vita ad un’organizzazione di tutti i salariati, i disoccupati, i proletari, nel corso degli anni, nel processo di avvicinamento al potere, ha subito una lenta trasformazione, che lo ha condotto ad accettare alcuni aspetti delle trasformazioni economiche in senso neoliberale, e a dialogare più strettamente con il ceto politico-imprenditoriale. Tale comportamento ha prodotto la frammentazione del blocco sociale, che lo appoggiava (per esempio il Movimento dei senza terra ha aspramente criticato Lula durante il suo secondo mandato nel 2006), e lo ha costretto ad avvicinarsi ai partiti di destra. Cosa del resto del tutto evidente, se si pensa al fatto che nel 2014 Dilma Rousseff si è presentata alle elezioni presidenziali insieme a Temer come vicepresidente [2], il quale è stato poi uno dei protagonisti della sua caduta ed è assai poco apprezzato dalla popolazione brasiliana.

La Izquierda Diario così commenta quegli avvenimenti: “Il colpo di Stato non è stato casuale. Le alleanze e la matrice ideologica, che aveva riuniti i militanti sindacali, dal cui compattamento era nato il PT, erano entrate in crisi, esaurendosi” (Ibidem). Inoltre, era finita quella congiuntura economica favorevole che aveva consentito un rafforzamento delle politiche sociali verso i meno abbienti, e si facevano sempre più forti le pressioni degli Stati Uniti e delle loro istituzioni internazionali che volevano reincorporare pienamente il Brasile nella loro sfera.

Tornando a Lula, la Commissione dei Diritti umani delle Nazioni Uniti ha fatto conoscere la sua opinione a proposito della sua partecipazione alle elezioni presidenziali, invitando lo Stato brasiliano a far sì che, pur dalla prigione, l’aspirante presidente sia messo nelle condizioni di esercitare tutti i suoi diritti politici, avendo libero accesso alla stampa e portando avanti senza ostacoli la sua campagna elettorale. E ciò fino a che la sua condanna non sia definitiva. Parere che però non è stato accettato dal governo brasiliano sorto dal colpo di Stato contro Dilma Rousseff, perché considerato non vincolante.

Alcuni giuristi osservano che la legge della scheda pulita, votata a suo tempo dallo stesso PT, non rispetterebbe i principi democratici perché consente ai giudici di decidere chi debba presentarsi dinanzi agli elettori, togliendo a questi ultimi il diritto fondamentale di scegliere il loro governante. Cosa che d’altra parte è stata possibile in altri contesti: si pensi per esempio al caso di Bobby Sands [3] che fu eletto nel 1981 mentre stava in prigione e che non poté mai assumere la sua carica di deputato, perché morì un mese dopo la vittoria.

Anche sondaggi recentissimi confermano la forza di Lula, il quale sarebbe contrastato dal reazionario ex militare Jair Bolsonaro del Partito social liberale con il 18%, che però non potrebbe farcela al ballottaggio. Il mondo imprenditoriale e quello giudiziario, che utilizzano questa strategia della cosiddetta lawfare (guerra giudiziaria) per far fuori i loro nemici, puntano, invece, sul candidato Geraldo Alckmin, che tuttavia per ora si aggiudica solo un insignificante 4,9%, ma potrebbe riscattarsi al secondo giro.

Ma andiamo a vedere le caratteristiche di questi due candidati. In particolare, Bolsonaro può essere incluso nella categoria che già comprende figuri come Donald Trump, Matteo Salvini, Viktor Orban etc., ossia tra quei leader reazionari, che riescono a sedurre parte delle masse popolari impoverite e spaventate, per esempio, in Brasile, dove ogni anno si verificano 60.000 omicidi, insistendo sul problema della sicurezza. Per ripristinare le condizioni di sicurezza l’ex militare si richiama addirittura agli anni truci della dittatura (1964-1985), durante la quale a suo parere “si è torturato ma non si è ucciso abbastanza”.

Sembra che, nonostante la sua scialba insignificanza, egli ottenga successo soprattutto tra i giovani, che non hanno conosciuto la dittatura, sia delle periferie sia dei quartieri bene, suscitando addirittura entusiasmo tanto che lui, il cui secondo nome è Messias, è chiamato dalla folla “Mito”. Profondamente anticomunista e razzista, è ossessionato dall’emersione dell’omosessualità, dalla volontà di riscatto femminile [4] e da ogni forma devianza dalla “norma”. Intende facilitare l’acquisizione delle armi per difendersi dalla diffusa criminalità e si propone di rompere ogni intralcio all’azione repressiva della polizia (Ibidem). Di educazione cattolica, tuttavia, è assai vicino al mondo evangelico, avendo sposato una pentecostale ed avendo stretto forti rapporti con gli appartenenti a questo settore religioso, noto per il suo fondamentalismo e rigorismo.

Raramente chi si occupa di politica latino-americana mette in risalto l’accresciuto ruolo delle Chiese pentecostali, che raccolgono in Brasile circa 42,3 milioni di fedeli (il 22,2% della popolazione) e che hanno dato vita a potenti organizzazioni politiche grazie anche al controllo di reti televisive e radiofoniche. In Brasile i pentecostali occupano alla Camera 90 scranni (la bancada evangélica), che ha sostenuto il processo di destituzione della Rousseff, votando in nome di Dio o della loro chiesa.

Ho analizzato in un’altra occasione lo stretto legame tra la diffusione del pentecostalismo nelle sue varie forme e le condizioni economico-sociali delle masse popolari latino-americane; legame instauratasi per l’inurbamento dei contadini nelle megalopoli, il loro ingresso nell’economia informale, l’adesione al neoliberismo individualistico. A ciò aggiungo anche l’antica volontà delle amministrazioni statunitensi di favorire la protestantizzazione della regione per agevolare una trasformazione ideologica che la vincolerebbe ancora di più al potente vicino [5].

Concludo, dando qualche elemento sull’altro candidato, sostenuto dai golpisti, Geraldo Alckmin, che appartiene al Partito della socialdemocrazia brasiliana, capeggia la coalizione Per unire il Brasile e che fu sconfitto da Lula al ballottaggio nelle presidenziali nel 2006. Si presenta come un moderato che intende riformare il paese e lottare contro l’endemica corruzione, ma la sua vicepresidente Ana Amelia è stata paragonata a Marine Le Pen per le sue posizioni politiche.

Nel caso in cui, Lula fosse impossibilitato ad entrare in lizza, i suoi voti confluirebbero su Fernando Haddad, di origine libanese, che è stato sindaco di San Paolo e ministro della Pubblica Istruzione nei governi del PT, e probabilmente la sua vice sarebbe l’esponente del Partito comunista del Brasile Manuela d’Avila. Una significativa inclinazione a sinistra.


Note

[1] Si potrebbe aggiungere anche la sconfitta del referendum per la pace in Colombia frutto di un trattato, cui hanno lavorato esponenti della guerriglia e del governo.

[2] La Izquierda Diario fa parte della Red Internacional che pubblica in 7 lingue diverse, ma non in italiano. Le citazioni sono tratte da qui.

[3] Membro dell’IRA deceduto per aver attuato lo sciopero della fame contro le condizioni dei carcerati irlandesi.

[4] Avrebbe dichiarato che le donne debbono guadagnare di meno perché impegnate nelle gravidanze.

[5] Per approfondire questi temi rimando chi ne abbia voglia ai miei precedenti articoli sul fattore religioso in america latina (prima parte e seconda parte).

01/09/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Alessandra Ciattini

Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. Ha studiato la riflessione sulla religione e ha fatto ricerca sul campo in America Latina. Ha pubblicato vari libri e articoli e fa parte dell’Associazione nazionale docenti universitari sostenitrice del ruolo pubblico e democratico dell’università.

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