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Quale innovazione per la Pubblica amministrazione?

Per innovare la Pubblica amministrazione servono tecnologie più efficienti, ma non bastano. Occorre un’imposta patrimoniale, un recupero delle funzioni pubbliche e nuove assunzioni di personale.


Quale innovazione per la Pubblica amministrazione?

Il bivio di fronte a cui, secondo il solito consunto refrain, si troverebbe la Pubblica amministrazione (Pa) è tra l’innovazione, passante per la digitalizzazione, e l’esclusione dei cambiamenti e delle innovazioni. 

Messa in questi termini la discussione vedrebbe contrapposte due tendenze: da una parte favorire lo smart working ripensando la modalità del lavoro e di erogazione dei servizi, dall’altra procedere ignorando la pandemia e soprattutto le richieste esplicite delle associazioni datoriali. 

Il condizionale è d’obbligo. Semplificare il ragionamento con l’antitesi tra detrattori e fautori dello smart working, tra innovatori e conservatori, sarebbe fin troppo facile: chiunque sceglierebbe il nuovo avendo toccato con mano le croniche inefficienze della Pa.

Ma tali inefficienze hanno cause ben precise. Per trent’anni il comparto pubblico è stato il salvadanaio delle politiche di austerità, non solo attraverso la contrazione dei servizi e la riduzione della spesa previdenziale, ma soprattutto con la perdita di circa 500mila posti di lavoro, senza dimenticare i nove lunghi anni di blocco della contrattazione. 

Da inizio secolo a oggi la Pa ha accumulato grandi ritardi in confronto con altri paesi europei. Le politiche di austerità nei paesi economicamente più deboli dell’Unione Europea hanno colpito soprattutto lavoratori e servizi pubblici. I governi succedutisi erano ben consapevoli delle difficoltà della Pa ma nulla hanno fatto per assicurare personale e investimenti, perché ogni loro azione avrebbe contraddetto le politiche del risparmio pubblico e dell’austerità

La presunta lotta tra innovatori e conservatori rappresenta pertanto l’ennesimo luogo comune per non prendere atto delle politiche di austerità che da una parte hanno appiattito le aliquote fiscali, determinando un minor gettito fiscale a vantaggio dei redditi elevati, accompagnato da maggiori oneri per i bassi redditi, e dall’altra, di conseguenza, hanno depotenziato i servizi della Pa, sanità in primis. 

Quando si parla di digitalizzazione occultiamo una realtà fatta di strumenti informatici inadeguati o vetusti, scarsi collegamenti alle banche dati e fra banche dati, formazione spesso carente se non addirittura inesistente, assenza della fibra in intere province del paese. Se lo Stato non assicura agli studenti e ai lavoratori della Pa adeguati strumenti informatici, se le banche dati risultano inaccessibili e le tecnologie informatiche spesso introdotte in modo anarchico senza rispettare gli standard che consentirebbero di agevolare l’interscambio di informazioni, come pensiamo di accelerare i percorsi innovativi?

I mesi della prima ondata pandemica non sono serviti ad attrezzarci per il ritorno a scuola e al lavoro e per consentire al trasporto locale di operare in sicurezza, tanto che le assunzioni annunciate in primavera arriveranno solo a fine anno con lentezza insopportabile. E anche quell’insano numero chiuso all’università per accedere alle professioni sanitarie, mentre mancano medici e infermieri, è ancora vigente e ormai nessuno parla di cancellarlo.

Quando arriverà la fine del blocco dei licenziamenti, a marzo 2021, capiremo di avere fatto ben poco per formazione, riqualificazione, orientamento e ricollocazione, un po’ come è accaduto con scuole e sanità in questo inizio di autunno, caratterizzato dalla rimozione della prima ondata pandemica e da decisioni inadeguate e troppo tardive assunte da enti locali, regioni e governo.

Anche senza mettere in agenda la rivoluzione, potremmo pensare al potenziamento dei servizi sanitari, delle politiche attive e formative in materia di lavoro, argomenti sempre in bocca ai politici ma del tutto trascurati nella realtà delle decisioni materiali assunte.

Molti dei presunti innovatori si comportano alla stregua dei peggiori conservatori: ignorano la necessità di una patrimoniale scoprendosi invece fautori dei prestiti europei e dell’ampliamento del debito pubblico; sono gli stessi che, per anni, hanno demonizzato il debito e, in nome di questo tabù, tagliato la spesa per previdenza, welfare, istruzione e sanità. I novelli fautori degli aiuti europei sono acerrimi nemici di una legge patrimoniale, tanto da avversare anche la timida proposta presentata in parlamento da parlamentari Leu. Poi c’è chi, come il Movimento 5 Stelle, giudica, senza averne ragioni, i prelievi sui grandi capitali una manovra contro il lavoro.

Chi oggi agogna la modernizzazione della Pa accoglie le istanze della Ue e di Confindustria ma al contempo non rivendica i presupposti necessari per raggiungere questo obiettivo, ossia assunzioni, investimenti e un’idea del pubblico non funzionale alle logiche del profitto.

Gli innovatori, o presunti tali, sono degli ignavi che all’occorrenza si scoprono detrattori della Pa e dei suoi dipendenti, dimenticando che lo smart working rappresenta una necessità padronale e allo stesso tempo è fonte di grande risparmio (sulle utenze, sulle attrezzature, sulle spese di pulizie e manutenzione, sullo stesso costo del lavoro). Inoltre questa sorta di lavoro a cottimo fa risparmiare gli stessi oneri per la sorveglianza dei lavoratori, visto che sono questi ultimi costretti ad autocontrollarsi.

Se oggi avessimo a cuore la Pa dovremmo evitare di commettere gli stessi errori dei mesi scorsi quando era del tutto evidente che il solo modo per evitare migliaia di morti e di contagi sarebbe stato quello di effettuare un tracciamento efficace dell’epidemia, attraverso tamponi mirati, e di contenere i focolai così individuati, assumere migliaia di infermieri e medici, riaprire gli ospedali dismessi e requisire le strutture private.

Con la stessa demenzialità oggi si parla di ammodernare la Pa senza prima decidere quale sia il fine di questi processi e gli strumenti per realizzarli. Un puro ricorso indistinto agli strumenti che ci offre la tecnologia, senza la messa a punto di una strategia di sviluppo delle prestazioni pubbliche, si traduce, nel migliore dei casi, nella razionalizzazione dei disservizi e delle ingiustizie esistenti.

Nel caso delle politiche attive del lavoro la soluzione sarebbe cancellare la riforma Del Rio e far capo alle regioni e agli enti locali di secondo livello, le ex province, per attuare politiche di formazione e orientamento. Nel caso degli enti locali sarebbe sufficiente predisporre assunzioni e favorire il rilancio in toto dei servizi e non solo degli uffici collegati ai servizi per le imprese. 

La riforma dei centri per l’impiego italiani potrebbe essere anche all’insegna di un ritorno al passato ma con le dovute correzioni, ricordando che le vecchie province negli ultimi anni non garantivano più orientamento e formazione, prevalentemente delegati ai privati, anche se lautamente foraggiati da soldi pubblici, e che con le privatizzazioni dei servizi le opportunità di trovare un lavoro, pur precario, si erano ridotte al lumicino.

Da mesi ignoriamo che a marzo 2021 molte aziende potrebbero chiudere i battenti e, qualunque sia l’esecutivo, esso dovrà fare i conti con migliaia di esuberi e forza lavoro da ricollocare previa formazione e orientamento. 

Avere delle idee su come rilanciare i servizi pubblici dovrebbe essere dirimente a partire dalle politiche attive del lavoro e da un ambizioso piano di risanamento e manutenzione del territorio. Al contrario, invece, si continua a privilegiare la politica dei bonus e degli sgravi alle imprese rinunciando a un piano pubblico di intervento che non può ridursi ad aiuti a fondo perduto o all’erogazione degli ammortizzatori sociali.

12/12/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Federico Giusti
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