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Lavorare meno, lavorare tutti

Diritti o profitti? Il governo Conte fin qui è stato dalla parte dei profitti, ma per uscire dalla crisi e aprire una prospettiva socialista occorre un ruolo attivo degli investimenti pubblici e la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.


Lavorare meno, lavorare tutti Credits: https://cdn.pixabay.com/photo/2019/01/15/09/36/stopwatch-3933686_960_720.jpg

La crisi economica conseguente alla pandemia ha aggravato pesantemente il sistema occidentale, devastato da più di un trentennio di restaurazione di capitalismo liberista selvaggio.

Il rinvio dei licenziamenti operato dal Governo Conte sono un piccolo provvedimento che ha coperto, temporaneamente, una parte esigua di lavoratori (quelli delle aziende che hanno avuto la possibilità di ricorrere alla Cassa Integrazione Straordinaria con l’accesso al Fondo d’Integrazione Salariale, tra cui i casi indecenti di aziende che hanno fatto richiesta senza avere avuto flessioni significative di fatturato, quando non lo hanno addirittura incrementato), ma che ha lasciato scoperti la stragrande parte di lavoratori precari – a contratto determinato o dipendenti da cooperative o aziende in appalto – completamente abbandonati a se stessi.

Una soluzione semplice, che ha un sapore antico, ma sarebbe invece una novità straordinaria in questa fase storica, è la strutturale riduzione dell’orario di lavoro per i dipendenti, mantenendo almeno gli attuali livelli salariali (già non particolarmente soddisfacenti, per usare un eufemismo), che permetterebbe una riorganizzazione delle attività produttive e degli addetti nelle aziende (le “risorse umane”) e introdurrebbe elementi di civiltà nel mondo del lavoro subordinato. La riduzione dell’orario di lavoro è una delle prime rivendicazioni del movimento operaio e socialista nella seconda metà dell’Ottocento: ridurre l’orario settimanale permetterebbe a lavoratori e lavoratrici di riappropriarsi di una porzione del proprio tempo di vita liberato dal lavoro, consentendo di evitare gli esuberi conseguenti a flessioni economiche e di non avere contrazione occupazionale, nonché di creare le condizioni per nuove assunzioni nelle auspicabili fasi di ripresa espansiva.

La condizione fondamentale per avviare un processo di riduzione dell’orario di lavoro è, ovviamente, che si mantenga un livello salariale adeguato, la parità di ritmi e salario rispetto alle attuali ore di lavoro, per non gettare milioni di lavoratori sotto la soglia di povertà (ampliando la platea dei working poor generati dalla precarizzazione delle relazioni contrattuali di lavoro). La precisazione è determinante perché il padronato, a partire dall’arcigno Presidente di Confindustria Bonomi che agisce la lotta di classe come una clava, è disponibile ad accogliere la proposta perché vi vedono l’opportunità di ristrutturare gli organici e tagliare così i costi del personale senza conflitto.

Il tabù della riduzione di orari a parità di salario è stato infranto dalla IG Metal, la federazione metalmeccanica tedesca, che ha avviato una campagna e una trattativa con la controparte per un processo di riorganizzazione del lavoro che non pesi sui lavoratori creando esuberi come conseguenza della pandemia. In Italia i timidi passi intrapresi dalla Triplice confederale CGIL-CISL-UIL hanno trovato un interlocutore arcigno e arroccato su posizioni nettamente iperliberiste, determinato a mantenere lo scontro di classe aperto e senza minime concessioni: il neo-Presidente di Confindustria Bonomi, interprete inflessibile della lotta di classe condotta dal padronato per mantenere, ed accrescere, la rendita di posizione acquisita in questi decenni.

La questione della riduzione dell’orario di lavoro in Italia, infatti, non trova un’interlocuzione interessata, poiché la linea politica impressa da Bonomi si concentra sul rimettere in discussione l’accordo del 2018, il Patto per la Fabbrica, in modo da impedire aumenti salariali che non siano legati ad incrementi della produttività. In altre parole, la Confindustria di Bonomi è scesa in campo per recuperare sul piano dei profitti le concessioni salariali che arriveranno con la tornata dei rinnovi contrattuali, a partire da quello degli alimentaristi, che con i 119 euro sottoscritti a luglio faceva da apripista ad una stagione contrattuale importante, ma che è stato contestato dai vertici di Confindustria.

Negli incontri che si sono svolti in queste settimane, sono rimasti fuori dalla discussione tra sindacati e associazioni padronali proprio i temi più caldi e strategici, quello dei licenziamenti al termine del blocco imposto dal governo per l’emergenza sanitaria e quello della riduzione dell’orario di lavoro. Sono temi che hanno un valore politico determinante, che può trasformare la “normale” dialettica economico-sindacale in una nuova prospettiva sistemica (che può aprire scenari di trasformazione degli equilibri capitalistici se la leva pubblica viene orientata verso la redistribuzione della ricchezza anziché verso l’estrazione del profitto).

La partita che si pare è perciò determinante sul piano politico: il modo in cui verranno utilizzati  i miliardi del Recovery Fund ci dirà in che direzione l’esecutivo Conte può orientare la politica economica della prossima fase post-pandemica. Senza alcun dubbio, la fase che si apre vedrà la leva pubblica dello Stato avere un ruolo determinante: non è casuale che si stia aprendo la partita per portare alla Presidenza del Consiglio (o in un posto di potere in cui gestire la fase di ristrutturazione del capitale) Mario Draghi, l’uomo ispiratore delle privatizzazioni degli Anni ’90, il difensore dell’Euro nella crisi sistemica più grave dopo il 1929, e infine oggi il “cavallo di razza” garante del capitalismo di Stato in un neo statalismo misto.

La leva pubblica è l’unico strumento per sostenere l’economia di mercato in questa fase: è per questo che l’accerchiamento a Conte è sempre più incalzante, anche se finora ha perfettamente incarnato le prospettive di un neocentrismo conservatore sul piano politico e neostatalista sul piano economico. Tuttavia, non basta invocare l’intervento dello Stato sul piano del controllo: negli ultimi dieci anni vi è stata una caduta di quasi il 19% degli investimenti pubblici (fonte ISTAT), che evidenzia come non sia sufficiente conferire allo Stato un ruolo di semplice controllo, occorre invece che esso assuma un ruolo attivo nella sfera economico produttiva attraverso una programmazione degli investimenti e delle risorse che garantiscano gli interessi di tutta la collettività. Solo così si potrà ottenere una prospettiva che contrasti la logica del puro profitto come guida delle scelte politiche. Così, l’unica occasione che potrebbe avere l’attuale esecutivo per reggere è una radicale scelta di campo: l’utilizzo di interventi pubblici che sottraggano il controllo economico e finanziario alle aziende private, restringendo il campo del mercato fino a ridurlo alla marginalità sistemica.

Che l’attuale esecutivo Conte – sia per la personalità neocentrista e interclassista del Primo Ministro, sia per la compagine neoliberista del PD e quella statalista a-rappresentativa del M5S – possa dare una svolta di sistema è assolutamente improbabile: il governo Conte, come lo potrà essere un eventuale esecutivo guidato da Draghi, agirà la leva pubblica dello Stato in funzione di rilancio dell’accumulazione nei settori produttivi in cui dominano le aziende private, come è già accaduto negli anni tra il 2008 e il 2012 quando lo Stato si fece garante del sistema finanziario proteggendo le banche dal fallimento. La reale svolta – che potrebbe portare ad un utilizzo della leva pubblica in chiave di un riequilibrio tra pubblico e privato, con un ritorno ad un’economia mista a partecipazione statale – può darsi se si va ad incidere sull’orario di lavoro, a parità di salario e senza oneri per lo Stato (se non in misura marginale), e nella riappropriazione del controllo pubblico statale delle aziende dei settori economico-produttivi e finanziari strategici per il Paese, nel contesto del sistema di concorrenza commerciale internazionale sempre più squilibrato.

Per ottenere questo risultato, cioè l’avvio di un processo che vada oltre il keynesismo redistributivo o peggio il mero assistenzialismo e incida con riforme strutturali nel corpo del capitalismo globalizzato imperial-liberista, sarà necessario sviluppare una mobilitazione straordinaria dei lavoratori, e riprendere la lotta di classe da parte delle fasce subalterne che finora l’hanno subita, praticata dalle classi dominanti ed esercitata da élites sempre più esclusive, che impongono il caos della concorrenza di mercato per mantenere il proprio dominio.

Riorganizzare le masse popolari è compito di un sindacato non più prono agli interessi confindustriali e compatibile con le logiche del sistema vigente, come di una organizzazione politica che indichi chiaramente nell’anticapitalismo e nella prospettiva del socialismo l’unica strada praticabile, e indifferibile, per uscire dalle crisi periodiche e sempre più violente che scuotono l’Occidente capitalistico.

21/09/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Giovanni Bruno
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