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Come va l’economia? Ne parliamo con Domenico Moro

La pandemia sta modificando gli equilibri e le strategia e livello internazionale. In Europa sarà un pretesto per ulteriori tagli ai salari e ai diritti sociali. Il Mes e il Recovery Fund sono inadeguati e l’uscita dall’Unine Europea è una condizione necessaria per la realizzazione del socialismo.


Come va l’economia? Ne parliamo con Domenico Moro Credits: https://torange.biz/it/fx/world-earth-dark-background-covid-19-coronavirus-art-3d-render-219244

Con questa a Domenico Moro, iniziamo una serie di interviste rivolte a quadri di lavoratori comunisti ed economisti. Domenico Moro è ricercatore presso l'Istat ed è stato consulente della Commissione Difesa della Camera dei deputati. È autore di diversi volumi di carattere economico, politico e militare. Abbina al lavoro scientifico la militanza politica.

Domanda. La pandemia da Covid-19 ha senz’altro fatto da detonatore della crisi economica e l’ha inasprita. Secondo noi, però, la pandemia è intervenuta in un momento già critico per l’economia mondiale per cui non può essere considerata l’unica responsabile dei problemi economici che stiamo vivendo. Per te qual è la natura di questa crisi?

Risposta. Al momento dello scoppio della pandemia, l’economia mondiale e quelle dei principali Paesi, con poche eccezioni, erano già nella fase fase discendente del ciclo economico, essendo la crescita del Pil in rallentamento nel 2018 e ancor di più nel 2019. Secondo i dati dell’Unctad, l’economia mondiale è passata da una crescita del 3,31% nel 2017 a una crescita del 2,52% nel 2019. La crescita della Ue è scesa dal 2,58 all’1,46%, in particolare la Germania è passata dal 2,47% allo 0,56% e l’Italia dall’1,72% allo 0,30%. Persino la Cina era in rallentamento, essendo passata dal 6,76% al 6,10%. Di fatto alcuni Paesi, come la Germania e l’Italia, erano già in recessione.

Inoltre, bisogna considerare che la Pandemia si è inserita in un quadro mondiale già segnato negativamente dallo scontro commerciale tra Usa, Cina e Ue, che ha visto l’innalzamento di numerose barriere protezioniste. In questo senso, la pandemia accentua la tendenza a un certo rallentamento della globalizzazione e dello scambio internazionale di merci. Secondo Eurostat, tra gennaio e giugno 2020, rispetto allo stesso periodo del 2019, le esportazioni dell'Ue verso il resto del mondo sono diminuite del 12,4% e le importazioni sono calate del 12,6%, entrambe contrazioni senza precedenti. Di fatto, quando la crisi pandemica è scoppiata, il mondo capitalista, soprattutto la triade composta da Usa, Ue e Giappone, non si era ancora del tutto ripreso dalla crisi del 2008-2009.

La natura di fondo della crisi è quella di una crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale, cioè dovuta ad un eccesso di investimenti rispetto alla capacità del capitale di valorizzarsi in termini di profitto. In ogni caso la crisi è una crisi del capitale, perché dimostra che una economia basata sui rapporti di produzione privati non riesce a far fronte a emergenze come quella pandemica anzi, a voler essere più precisi, le sfrutta a proprio vantaggio contro la maggioranza della popolazione, ossia i lavoratori salariati e i disoccupati.

D. La pandemia ha messo in evidenza alcuni grandi limiti dell’internazionalizzazione dei processi produttivi. Pensi che questa crisi possa indurre le grandi aziende ed i loro governi a rivedere questo modello?

R. Anche in questo caso la pandemia interviene a rafforzare una tendenza, quella alla reinternalizzazione delle produzioni, che era già nei programmi di alcuni governi come quello Usa. Quanto a fondo si spingerà la reinternalizzazione è però tutto da vedere, perché le catene del valore, ossia la divisione del lavoro a livello mondiale, sono molto articolate ed è difficile fare sostanziosi passi in direzione di una reinternalizzazione. Di sicuro, fino ad ora, c’è l’internalizzazione della produzione di alcuni dispositivi di sicurezza, ad esempio le mascherine, e la produzione di certi farmaci, come il vaccino anti Covid-19.

D. Pur con differenze tra gli Stati, il sistema mondiale continua a essere di tipo capitalistico. Pertanto, gli imprenditori non possono che affrontare la crisi scaricandola sui lavoratori e innescando un processo di centralizzazione che vede i grandi capitali fagocitare i più piccoli. Quale ti sembra la strategia dei grandi gruppi transnazionali per recuperare profitti e quali le misure concretamente adottate per realizzarla?

R. La pandemia del Covid-19 rappresenta per il capitale, o meglio, per alcuni suoi settori, quelli più internazionalizzati e grandi, un’occasione importante di riorganizzazione in modo solo apparentemente paradossale. Come ho detto sopra, il mondo, e in particolare i paesi più avanzati capitalisticamente, scontano ancora una sovraccumulazione di capitale. Ebbene la crisi consente di eliminare quella che Marx chiamava la pletora di capitale, cioè l’eccesso di capitale, permettendo, in questo modo, di “resettare” il sistema e riavviare il ciclo di accumulazione. Il fallimento di imprese o il loro inglobamento in aziende più grandi può risolvere, almeno temporaneamente, la sovraccumulazione di capitale.

Davanti al calo dei profitti e alla concorrenza sempre più agguerrita, e per di più su una scala internazionale sempre più ampia, si rende necessario un nuovo ciclo di fusioni e acquisizioni, che produca campioni a livello europeo. Di questo processo abbiamo in Italia due esempi importanti: la fusione di Fca e Psa, nel campo automobilistico, e la acquisizione di Ubi da parte di Intesa, che è solo il primo esempio di un processo di consolidamento che attraverserà tutto il mondo bancario italiano e anche europeo, reso necessario dalla costituzione del mercato unico finanziario e dall’unione bancaria, che è uno dei prossimi obiettivi dell’integrazione europea.

Inoltre, la pandemia rappresenta anche un’occasione per licenziare e ridurre i salari, oltre che per ridurre parte dei costi fissi e aumentare la produttività, come avviene con il cosiddetto lavoro agile o smart working, che atomizza i lavoratori rendendoli ancora meno capaci di quanto accada oggi di costruire un fronte unito contro il capitale. Grazie alla pandemia il lavoro agile si è diffuso a livello di massa in molti settori, rendendolo una modalità standard del lavoro salariato, come ha ribadito recentemente la ministra del lavoro, Nunzia Catalfo. Infine, la pandemia, anche grazie all’enorme liquidità immessa dalle varie banche centrali e ai prestiti concessi da organismi europei come la Bei (Banca europea per gli investimenti), farà fluire ingenti finanziamenti, anche sotto forma di garanzie statali ai prestiti bancari, di cui si avvantaggeranno le grandi imprese, come Fca, che beneficerà di 6 miliardi di euro di prestiti con garanzia dello Stato.

D. Come giudichi la reazione dei lavoratori che vivono in questo paese, dei loro sindacati e dei partiti che dovrebbero rappresentarne gli interessi?

R. È ancora presto per fare una valutazione. Attualmente la situazione è ancora sterilizzata, oltre che dalle misure di distanziamento dovute alla pandemia, dalla cassa integrazione e dal blocco dei licenziamenti. Già da oggi, però, si prevedono eccezioni al blocco dei licenziamenti in sei casi, tra cui la cessazione definitiva dell’attività dell’azienda, l’accordo aziendale di incentivo all’esodo, il fallimento senza esercizio provvisorio dell’impresa, la modifica strutturale dell’organizzazione, il termine di fruizione delle 18 settimane di cassa integrazione, e dopo aver fruito dell’esonero contributivo, al posto della cassa integrazione, per 4 mesi. Quando verrà eliminato del tutto il blocco dei licenziamenti vedremo cosa succederà. Sicuramente in autunno e in inverno la situazione diventerà molto più “calda”.

Per quanto riguarda i sindacati, la triplice (CGIL-CISL-UIL) sta portando avanti la solita linea concertativa, che oggi si traduce nel concetto che dalla crisi se ne esce insieme, lavoratori e imprese. La verità è che la pandemia, come ho detto sopra, offre maggiori possibilità di licenziare e di ricattare i lavoratori. Dall’altra parte, la pandemia e la crisi che la sta seguendo sarà anche l’occasione per vedere se il sindacalismo di base e conflittuale saprà superare le sue divisioni interne e se sarà possibile costruire un fronte unito dei lavoratori contro il capitale e la sua crisi.

D. Pensi che sia vincente una strategia che unifichi le rivendicazioni dei lavoratori dipendenti con quelle delle altre classi, inclusa la piccola borghesia, che stanno pagando il prezzo di questa crisi?

R. Il discorso è molto complesso e delicato. Bisogna dire che, in primo luogo, ci sarebbe bisogno di una strategia che unifichi i lavoratori dipendenti, che sono molto frammentati al loro interno, tra lavoratori pubblici e privati, tra i vari settori d’attività e all’interno di ciascun settore per la molteplicità delle forme contrattuali esistenti. Ma divisioni ci sono anche su base territoriale, tra Nord e Sud del Paese, e sulla base della nazionalità, tra lavoratori italiani e stranieri. Se non si fa prima questo e se non si costruisce una reale autonomia di proposta politica e economica del lavoro salariato è impossibile pensare a una qualche forma di alleanza con la piccola borghesia, perché si ricadrebbe sotto l’egemonia di quest’ultima.

In secondo luogo, bisogna vedere cosa si intende per piccola borghesia, un conto è parlare di imprenditori con decine di dipendenti ben altro conto è parlare di chi è un lavoratore autonomo senza dipendenti. Non credo che possano esserci le basi per una strategia comune con i primi, mentre credo che un ragionamento vada fatto sui secondi, specialmente su quelle partite Iva che in realtà sono lavoratori dipendenti mascherati e che scontano una situazione di mancanza di tutele spesso peggiore di molti lavoratori salariati.

D. La crisi ha fatto tornare all’ordine del giorno un modello di capitalismo dove lo Stato non ha più soltanto il ruolo di controllore ma anche quello di imprenditore, anche se in Italia e in molte altre nazioni lo Stato pare svolgere prevalentemente una funzione assistenziale verso il capitale, socializzandone le perdite. Come giudichi questa svolta?

R. Anche su questo si potrà giudicare quando avremo maggiori evidenze fattuali. Al momento, però, si può osservare che non si tratta di vere e proprie nazionalizzazioni, ma di ingresso in talune aziende, tramite aumenti di capitale, da parte della Cassa depositi e prestiti, con l’attenzione a non sostituire la governance privata con quella pubblica. Inoltre, la presenza del capitale pubblico sarà a tempo determinato. In pratica, stiamo assistendo al solito schema che prevede la privatizzazione degli utili quando le cose vanno bene, e la socializzazione delle perdite quando le cose vanno male.

È da notare, inoltre, che, tramite il rafforzamento del golden power, lo Stato nazionale in tutta Europa si sta preoccupando anche di difendere il capitale a base nazionale da incursioni di imprese estere, specialmente (anche se non solo) di quelle al di fuori della Ue, che possono approfittare della situazione di crisi per fare shopping di imprese in settori di punta o strategici.

D. Tra le misure adottate da vari governi c’è il reddito di emergenza. Noi pensiamo sia una risposta indispensabile per chi ha perso fette importanti di salario durante la chiusura delle attività ma non può essere la strategia da perseguire anche dopo l’emergenza, quando bisognerà puntare a creare posti di lavoro e a ripartire equamente il lavoro attraverso la riduzione dell’orario. Tu che ne pensi?

R. Sì, certamente non bastano le pur necessarie misure assistenziali, bisogna che lo Stato entri nella produzione diretta di beni e servizi con delle vere nazionalizzazioni, con aziende che non siano società per azioni quotate in borsa e quindi soggette a tutte le regole del mercato, compresa l’ottimizzazione dei profitti, ma enti pubblici che abbiano come finalità lo sviluppo economico e la crescita di posti di lavoro. Ma questa è un’operazione che richiede rapporti di forza e un contesto istituzionale, politico e sociale, nonché un’ampia strategia di lotte organizzate da parte dei lavoratori che, per ora, la rendono soltanto una prospettiva, ma che, però, è bene cominciare a porsi, già da ora, come obiettivo tattico-strategico da parte delle forze che aspirano a costruire un cambiamento in direzione socialista della società.

D. Draghi ha proposto di rispondere all’emergenza in atto trasformando il debito privato in debito pubblico e anche le istituzioni europee non sono più così intransigenti e hanno allentato di gran lunga la stretta verso i paesi indebitati. Finita l’emergenza sarà possibile tenere sotto controllo i conti pubblici e a quali costi per i lavoratori?

R. I vincoli dei trattati europei, in particolare il limite del 3% al deficit e del 60% al debito pubblico non sono stati eliminati, ma solo sospesi momentaneamente. Il vice presidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, ha specificato che, dopo la fase di emergenza più acuta, bisognerà necessariamente ritornare a una politica di riduzione del deficit e del debito, secondo quanto stabilito dai trattati europei. Quanto ciò sarà possibile è tutto da vedersi, perché già oggi si parla di un debito pubblico italiano al 157% sul Pil. Sarà molto difficile ridurre il debito a fronte di una crisi di proporzioni senza paragoni (in Italia il Pil è previsto dalla Commissione europea al -11,2% nel 2020), se non con gli anni finali della Seconda guerra mondiale, e non sembra che se ne prospetti un andamento a V, cioè non si prevede una robusta ripresa né nell’immediato né nel prossimo biennio.

D. Nonostante l’emergenza, è durata mesi a livello Ue la trattativa sui meccanismi, l’entità, le modalità e i tempi di restituzione o meno degli aiuti agli stati membri. È adeguata la risposta europea alla gravità della situazione? È opportuno mettere in campo la rivendicazione di un’uscita dell’Italia dall’Ue (e quindi dall’euro)?

R. La risposta della Ue alla crisi non solo è lenta e insufficiente, specie se confrontata con le cifre messe in campo da Usa e Giappone, ma tende a rafforzare il controllo esterno sulla spesa e sulle politiche pubbliche dei singoli paesi, che è il vero mantra dell’integrazione europea, insieme alla deflazione salariale.

Il Recovery fund, il cui varo è stato sbandierato come un grande successo dell’Ue, è di fatto un Mes rafforzato. In cambio dei fondi, il Paese richiedente è obbligato a presentare dei piani che contemplino le riforme raccomandate dalla Commissione europea. Le varie tranche dei fondi saranno pagate dopo l’accettazione dei piani da parte della Commissione e dal Comitato economico e finanziario, dove sono rappresentati tutti i Paesi. Basta quindi che un solo Stato fra i 27 della Ue si opponga per rimettere la decisione al prossimo Consiglio europeo. In pratica, si tratta di uno strumento per costringere all’implementazione di quelle controriforme che non sarebbero state effettuate per la via “nazionale”. In particolare, per quanto riguarda l’Italia, verrà implementato il taglio del costo del lavoro e l’attuazione piena delle passate riforme pensionistiche, in particolare della Fornero, al fine di ridurre il peso della pensioni sulla spesa pubblica.

Inoltre, i fondi del Mes, del Sure e, in parte anche quelli del Recovery fund, sono prestiti che andranno non solo a incrementare il debito pubblico, ma andranno anche ad ampliare lo spread. Infatti, i prestiti europei sono senior, cioè hanno la precedenza nel rimborso rispetto al resto del debito pubblico, cioè i titoli emessi dallo Stato, che di conseguenza vedranno aumentare i tassi d’interesse per compensare i creditori dell’ipotetico maggiore rischio di insolvenza. Se a tutto questo aggiungiamo che i vincoli al deficit e al debito sono stati solo momentaneamente sospesi, come dicevamo sopra, e che la Banca centrale europea non può svolgere la stessa funzione di prestatore di ultima istanza delle altre banche centrali, non possiamo che chiederci se abbia ancora senso l’esistenza della Ue e dell’euro.

Per sintetizzare, credo che per i lavoratori l’uscita dalla Ue e dall’euro sia un condizione necessaria anche se non sufficiente. Necessaria, perché i trattati e l’euro sono un chiaro strumento del grande capitale multinazionale contro il lavoro salariato, oltre a introdurre rigidità che impediscono di far fronte a shock esterni come la pandemia. Non sufficiente perché, una volta usciti, il sistema rimane capitalistico e perché bisogna accompagnare l’uscita con alcune importanti misure come la realizzazione di vere nazionalizzazioni e la trasformazione della banca centrale italiana in prestatore di ultima istanza, così come lo era prima del 1981, quando si sancì il famoso divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro. In sostanza l’uscita dalla Ue e dall’euro non può che essere, dal mio punto di vista, un passaggio, che è necessariamente fondamentale, nella lotta, di lunga durata, per la realizzazione del socialismo in Italia ed in Europa.

30/08/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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