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Chiunque vincerà le elezioni saranno guai per i lavoratori

Il Sole 24 ore scrive che sono stati creati 939mila posti di lavoro. Ma i nuovi contratti sono solo frutto dei regali fiscali alle imprese. l'Italia è in zona retrocessione per occupazione giovanile e precarietà. Chiunque vincerà le elezioni sarà nemico dei diritti dei lavoratori.


Chiunque vincerà le elezioni saranno guai per i lavoratori Credits: https://pixabay.com/it/uomo-lavoro-saldatore-industria-2164172/

Occupazione. Sulle pagine de Il sole 24 ore si scrive che dal 2014 a fine 2016 sono stati creati 939mila nuovi posti dei quali la metà a tempo indeterminato.

Dati o non dati, l'Italia è agli ultimissimi posti, potremmo dire in zona retrocessione, per occupazione giovanile e contratti a termine. I posti di lavoro creati non sono dunque frutto del jobs act ma degli sgravi fiscali destinati alle imprese, gli ultimi mesi dell'anno sono di solito, come i mesi estivi, quelli con il più alto numero di contratti a tempo per sostituire il personale di ruolo in ferie e far fronte all'aumento dei carichi di lavoro.

Su base annua crescono comunque gli occupati soprattutto per i contratti a tempo, crollano gli autonomi, aumentano gli occupati ultracinquantenni a discapito dei 45enni, forse perché la richiesta del mercato è quella di una forza lavoro già specializzata, insomma si continua a spendere ben poco per formazione e orientamento.

Il lavoro, il reddito saranno tra gli argomenti più gettonati in campagna elettorale, per il Pd la ripresa dell'occupazione e l'uscita dalla crisi (ma dati alla mano si capisce bene che la ripresa non c'è e gran parte dell'occupazione è legata agli incentivi fiscali) sono risultato della precarizzazione dei rapporti di lavoro, della riscrittura, o meglio dello stravolgimento, dell'art 18 con il rito Fornero e le cosiddette tutele crescenti. Ovviamente le parole usate da Renzi o da Gentiloni sono ben diverse, per loro la mancata reintegra sui posti di lavoro per un licenziamento ingiusto o il lavoro gratuito sono valori aggiunti, espressioni della modernità.

Le parole di Renzi e Berlusconi, ma anche quelle degli altri leader ruotano attorno a uno stesso fine: per vincere le elezioni devi essere legittimato dai poteri che contano, esempio emblematico è il fatto che nessuno, tranne Potere al Popolo, ha criticato la Buona scuola, l'alternanza scuola lavoro, chi più e chi meno la ritiene innovativa, da migliorare ma non da sopprimere. Mentre prosegue lo smantellamento del welfare e delle dinamiche salariali, mentre si scambiano incrementi contrattuali con i bonus, il Pd sta lavorando alla ennesima proposta complessiva sul lavoro da circa 1-1,5 miliardi, incluso il salario minimo.

Non ci sembra che nell'arco parlamentare si faccia molto per una valutazione obiettiva delle politiche intraprese in materia di lavoro: tuonano contro la legge Fornero da destra (gli stessi che l'hanno votata in Parlamento tanto per capire serietà e coerenza di certi personaggi), ma se dovessero vincere le elezioni dubitiamo che tengano conto ai loro propositi pre elettorali. Dal canto suo il Movimento 5 stelle parla di «quota41», per uscire dal lavoro dopo 41 anni di contributi senza legame tra tempo di lavoro e età pensionabile, ma attenzione si tratta di 41 anni di contributi, quota difficilmente raggiungibile per molti\e, vista la difficoltà di trovare un lavoro stabile.

La riforma del mercato del lavoro del 2014 è stata fortemente voluta dal Governo ma soprattutto da Bce, Fondo monetario internazionale, commissione Europea, Bankitalia, Ocse, tutti a invocare regole meno ferree, nel senso che tutelare la forza lavoro è sinonimo di rigidità mentre la libertà di licenziamento è invece espressione di incentivo al mercato. Quella pessima legislazione sul lavoro è il punto di riferimento, la strada da seguire anche per la Francia di Emmanuel Macron che sta studiando un'alternanza tra scuola e lavoro analoga a quella italiana.

C'è poi un altro tema che rischia di essere particolarmente caldo, è quello della flexsecurity, delle politiche attive e della loro prevalenza sugli ammortizzatori sociali tradizionali, da qui ridurre ulteriormente le misure del welfare per incrementare misure di sostegno al reddito ma soprattutto favorire la cosiddetta occupabilità attraverso politiche di formazione, di orientamento e reinserimento lavorativo, politiche destinate a spostare ricchezza a favore delle imprese. Stando ai dati Eurostat, nel 2007 l’Italia spendeva 6,8 miliardi per i servizi e le politiche attive, nel 2015 (ultimo dato disponibile) sono diventati 7,6 miliardi di euro, una cifra comunque inferiore a quanto spendono Francia e Germania.

Ma se guardiamo le spese passive si capisce che la spesa italiana è comunque di gran lunga inferiore a quella di altri paesi europei. La disputa quindi riguarda pochi soldi a disposizione e il loro utilizzo, non è uno scontro su come indirizzare il welfare e le politiche occupazionali, si tratta piuttosto di ridurre la spesa sociale e con la scusa della ripresa destinare fondi illimitati alle imprese.

Se è deficitaria la rete italiana dei centri per l’impiego, la responsabilità è di chi ha cancellato le Province e messo in ginocchio le politiche pubbliche in materia di lavoro, orientamento e formazione che sono un appetibile business su cui si precipitano soggetti privati. Un discorso analogo andrebbe fatto per il bonus Renzi, quei soldi avrebbero potuto creare anche dei lavori socialmente utili per la manutenzione del territorio, ma la parola lavoro ormai non ha diritto di cittadinanza nelle politiche del Governo italiano e ciò a prescindere da chi sarà il vincitore delle elezioni di marzo. Quindi non lasciamoci sedurre dal canto delle sirene del voto utile.

20/01/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: https://pixabay.com/it/uomo-lavoro-saldatore-industria-2164172/

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L'Autore

Federico Giusti
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