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Pandemia, la crisi rimossa

Per non cambiare le regole europee si preferisce voltare la testa dall’altra parte e non vedere la crisi. Ma basterà?


Pandemia, la crisi rimossa

Mussolini, nel dicembre del 1944, radunò a Milano i fascisti del Norditalia e al “Lirico” tenne un discorso spettrale e delirante nel quale, negando la realtà evidente di una guerra ampiamente perduta e delle truppe angloamericane a ridosso del Po, affermava che le “armi segrete” della Germania avrebbero ribaltato il corso degli eventi bellici e permesso di vincere la guerra.

Nel diciassettesimo secolo, durante la peste di Milano, il personaggio manzoniano don Ferrante metteva in dubbio l’esistenza stessa della peste che dilagava in città e in gran parte della Lombardia, ponendosi il quesito se essa fosse “sostanza” o “accidente”.

Una cosa analoga, cioè la totale negazione e il ribaltamento della pressante realtà esterna, è avvenuta il 26 marzo scorso nella riunione in videoconferenza del Consiglio dei capi di stato e di governo dell’UE. Tale data, a distanza di 63 anni esatti dai trattati di Roma, potrebbe essere la data simbolica del decesso di questa organizzazione finanziario-economica capitalistica.

A differenza delle crisi degli ultimi vent’anni che erano nate come crisi finanziarie e diventate presto economiche (crisi del net-com dei primi anni Duemila, crisi dei “subprime” in USA e poi in Europa del 2007/2008, crisi del debito in Europa del 2011/2012, crisi del debito greco, crisi bancarie in Irlanda, Spagna, Italia, Cipro, etc.), questa in corso è una recessione, anzi una depressione che nasce da una pandemia e affonda le sue radici in un assetto finanziarizzato da circa cinquant’anni.

Perché cinquant’anni? La finanziarizzazione capitalistica, cioè la grandissima diffusione e la dominanza delle istituzioni e delle attività finanziarie, nasce e si sviluppa dagli anni Settanta agli Ottanta del secolo scorso, quando comincia a decrescere la spinta dei “trent’anni d’oro” dell’espansione economica post-bellica e nasce come manifestazione di tale rallentamento in Occidente (allora esistevano ancora le aree separate sovietica, cinese e dei paesi loro alleati). Cominciava a incrinarsi l’architettura che aveva chiamato le proteiformi istituzioni capitalistiche a preservarsi e a garantirsi un buon margine di accumulazione nella ricostruzione e nella crescita.

1) Bretton Woods e l’egemonia del dollaro;
2) la convertibilità del dollaro in oro, elemento di forte stabilizzazione delle relazioni internazionali che aveva alimentato la “fame di dollari” di quegli anni e in tal modo il finanziamento, da parte del resto del mondo, del deficit della bilancia dei pagamenti del “paese vincitore della guerra” e dell’alto livello medio di vita degli americani;
3) un sistema di cambi fissi tra le valute;
4) il controllo dei movimenti dei capitali, non abbondantissimi e necessari alla ricostruzione. I più anziani ricorderanno in Italia “Cambital”, l’ente che accentrava il monopolio dei cambi, le “causali” nei trasferimenti di capitale e di denaro da e per l’Italia. L’Italia, come ogni altro paese occidentale, applicava nella sua ricostruzione la politica monetaria che riteneva più appropriata alle sue esigenze, attingendo, se necessario, a prestiti presso le istituzioni finanziarie internazionali nate da Bretton Woods o finanziandosi presso il mercato domestico o presso la Banca d’Italia.

Non esistevano problemi, perché la crescita impetuosa permetteva pagamento dei debiti e stabilizzazione a livelli assai bassi del deficit statale in quanto il denominatore del rapporto (prodotto nazionale) si elevava costantemente e la valuta, cioè la lira, era una valuta richiesta in quanto legata a un’economia in sviluppo e di pressoché piena occupazione (questo valeva anche per il marco e lo yen).

Come ricorderanno i più anziani, le teorie “sviluppiste” impegnarono allora anche i paesi del terzo mondo, cioè quei paesi che dopo la guerra si erano liberati dal giogo coloniale (conferenza di Bandung del 1955 dei paesi “non allineati”).

Con gli anni Settanta gli indicatori economici cominciarono a segnalare un rallentamento della crescita. Che fare? Si domandarono i gruppi dominanti. Le risposte furono le seguenti:

a) fine della convertibilità del dollaro in oro (inizio anni Settanta);
b) fine del sistema dei cambi fissi e la libertà di circolazione dei capitali. In Italia la scomparsa di Cambital e dei “benestare” bancari all’import, all’export, alle transazioni chiamate “invisibili” (senza passaggio di merci).
c) In Italia e in Europa, nell’avviato processo che doveva portare all’UEM, il divieto di finanziamento dei deficit di bilancio da parte delle banche centrali a sostegno dei programmi di spesa degli stati (inizio anni Ottanta).
d) Introduzione degli ulteriori “dogmi” liberisti del ridimensionamento del peso dello stato “gestore” (privatizzazione del patrimonio industriale pubblico), della riduzione della spesa pubblica (non crescendo abbastanza o crescendo poco il denominatore della crescita, bisognava ridurre il numeratore del rapporto), della riduzione del debito pubblico.
e) Riduzione dei “costi” dello stato, cioè drastica riduzione delle imposte alle imprese (anni Ottanta/Novanta);
f) fine della piena occupazione e arretramento dei ceti subalterni;
g) politica economica antiinflazionistica (falcidia della spesa pubblica) per contenere o limitare gli effetti delle “svalutazioni competitive” dei paesi capitalisticamente più deboli;
h) finanziamento del debito pubblico degli stati viene affidato ora ai mercati finanziari e alla “speculazione”;
i) introduzione e istituzionalizzazione, con i Trattati degli anni Novanta, dei paletti-feticcio del cosiddetto “patto di stabilità e crescita” e il divieto degli “aiuti di stato”.

Tale impalcatura, sorta e affermatasi senza particolari resistenze dei subalterni, ha permesso al Proteo capitalista di adeguare a una prospettiva di tendenziale stagnazione le esigenze dell’accumulazione e di consentire l’estrazione proficua di plusvalore relativo, attraverso l’attacco in profondità, ben riuscito, al salario diretto, differito e “sociale”. Il capitale ha dovuto adeguare, in gran parte, la sua riproduzione al circuito “fittizio” D-D’.

Tracciata a grandissime linee, è stata questa, nel mondo precedente l’epidemia, l’evoluzione proteiforme del capitalismo negli ultimi settant’anni.

I subalterni (e quelle che si presentavano come loro rappresentanze) sono esclusi dalle decisioni di questi processi e non li hanno contrastati nelle loro svolte strategiche. Hanno cercato solo di mitigarne qualche effetto, denominando tale atteggiamento come “governo della precarietà” o “governo della flessibilità”, oppure hanno cercato di giocare al rilancio del +1 di qualche frammento o particolare che riguardava i ceti popolari, ma senza alcuna visione d’insieme.

Ricordo solo un certo travaglio, ritengo sincero, alla fine degli anni Settanta, di Berlinguer e del gruppo dirigente del PCI, sulla cruciale questione dell’adesione o meno al “serpente monetario”, prodromica al processo UEM. Alla fine fu adesione.

Ora c’è la pandemia. Ora c’è uno sconvolgimento profondo nelle relazioni capitalistiche, uno sconvolgimento delle relazioni con gli stati, un radicale, anche se non nuovo, cambiamento del ruolo dello stato nell’attuale fase critica del modo di produzione vigente. Siamo in una “economia di guerra”, dicono in tanti. Ancor prima che l‘economia, la drammatica situazione che stiamo vivendo scompagina il tessuto sociale, la convivenza dello stesso consorzio umano.

Osserviamo con sgomento i primi scontri determinati dalla carenza dei mezzi di sussistenza in alcune aree e fasce sociali; il grave malcontento per le tante, troppe morti, che non trovano riscontro in altri paesi; la totale delegittimazione e perdita di credibilità dei gruppi dirigenti politici ed economici: uno scenario generalizzato di potenziale guerra civile per gruppi e per bande.

Economicamente, i vari paesi sono già in depressione; molte istituzioni e case di investimento parlano di un 10-15% di crollo del reddito. Senza rimedi, senza contrasto, tante forme di precariato si dissolveranno, la disoccupazione esploderà.

I sicofanti dei gruppi dominanti sono terrorizzati. Che fare? Si domanderanno i meno ciechi in quest’ora per essi così grave e densa di pericoli.

I più lucidi dicono, in primis, di buttare al macero l’accozzaglia di dogmi, “rigori”, paletti e politiche economiche degli ultimi quaranta/cinquant’anni. Cioè tutto quel ciarpame di chiacchiere e menzogne che ha permesso lo sfruttamento dei subalterni e l’accelerazione dell’accumulazione capitalistica nell’età della finanziarizzazione. Tutto sì, come dopo vedremo, tranne l’essenza della stessa economia capitalistica finanziarizzata.

Della sospensione del cosiddetto “patto di stabilità e crescita”, dello sforamento dei parametri/feticcio e degli “aiuti di stato” abbiamo detto. Aggiungiamo ora che l’acquisto da parte della BCE, a tutela del sistema bancario e dello spread, di titoli pubblici (compresi quelli greci) non è più condizionato al doppio limite dell’emittente e della singola emissione di stati ed enti sovranazionali (come Mes e Bei), rispettivamente del 33% e del 50%. E prevede anche l’acquisto di titoli a brevissimo termine e fino a 30 anni. Saranno quindi possibili, nell’ambito della somma stanziata di oltre mille miliardi per il 2020, acquisti illimitati. Ma qui si ferma l’ambito delle azioni condivise dai 27 paesi dell’UE.

Torniamo ora al quadro iniziale del “Lirico”, delle “armi segrete” e di don Ferrante. Per quanto riguarda l’indebitamento pubblico, con lo “sforamento” è stata concessa una maggiore flessibilità di bilancio. Scrive Luca Pandolfi su “il Manifesto” del 26 marzo “...i paesi possono espandere i loro bilanci con l’emissione di nuovo debito, ma con un grosso rischio: chi avrà speso molto (in assenza di mutualizzazione del debito), si ritroverà solo e impotente di fronte ad eventuali assalti della speculazione”.

In sostanza la Germania, l’Olanda e gli altri, chiudendo gli occhi di fronte alla tragica realtà esterna e negando gli eurobond, ritengono che la situazione possa tornare quella di prima e pensano così di affossare (dato un rapporto deficit/pil per l’Italia poniamo al 170%) sia l’Italia sia gli altri paesi che si saranno comportati analogamente.

Siamo nell’ottica di un regolamento di conti che permetterebbe a Germania e alleati, che implicitamente si ritengono indenni da contagi di Coronavirus e dai contagi finanziari, di affossare un paese concorrente e di ripristinare l’architettura precedente al Coronavirus. Come don Ferrante la Germania nega l’esistenza della peste in casa sua - o pensa, a differenza degli altri, di saperla governare - oppure ritiene che la peste sia solo un “accidente”.

Nella riunione del Consiglio europeo dei capi di stato e di governo dell’UE del 26 marzo scorso non è stata accolta, almeno per il momento, la richiesta avanzata da nove paesi membri (tra i quali Italia, Francia e Spagna), dell’emissione di eurobond, cioè di titoli europei (chiamati da Conte “european recovery bond”), anche nella versione più modesta di titoli vincolati alla crisi del virus ed emessi “una tantum”. Si tratta dei cosiddetti “corona bond” necessari a mettere in campo migliaia di miliardi che forse serviranno, nella guerra in corso, a salvare il sistema nel suo complesso. Tali titoli, nella proposta, sarebbero presentati ai mercati appunto una tantum, con la mutualizzazione del solo debito nascente da tale operazione, senza alcuna “mutualizzazione generale” come ha voluto pretestuosamente interpretare il cancelliere austriaco Kurz. Infatti non si è parlato mai in queste giornate di una mutualizzazione del pregresso debito pubblico dei paesi membri.

Sono in molti, direi giustamente, a stigmatizzare il comportamento dei miopi “weberiani” e un po’ razzisti giudici dell’ “azzardo morale” dei cosiddetti paesi mediterranei e della giusta punizione loro toccata per il comportamento tenuto negli anni precedenti. Basti qui l’aggettivo “repellente”, usato dal premier portoghese nei confronti di un politico di spicco olandese. Autorevolissimi esponenti politici e istituzionali dei nove (ora diventati quattordici) sono scesi in campo (vedi Mattarella, Macron, Prodi) per dire ai “weberiani” che stanno giocando col fuoco, che l’Europa è a una svolta, che potrebbe finire. Che forse è già finita.

Ma cos’è in realtà questa proposta di strumenti di debito comune dell’Eurozona? Significa senz’altro più spesa pubblica, oggi per l’urgenza, domani per la ricostruzione.

Nella lettera dei nove si legge che tali strumenti consentirebbero di raccogliere risorse sul mercato per il finanziamento stabile e a lungo termine delle politiche economiche necessarie a contrastare la crisi. Qualcuno ha scritto che la formula del debito europeo contenuta nella lettera si basa su due aspetti chiave: che l’approvvigionamento delle risorse avverrebbe sul mercato e che il rischio verrebbe condiviso in solido e proporzionalmente dagli stati membri. Questa posizione consegna i paesi all’umore e al calcolo dei mercati. Ancora una volta. Non sarebbe forse venuto il momento di pensare a un finanziamento monetario diretto da parte della Banca centrale del deficit di bilancio dello stato? Sappiamo che la BCE, in base ai trattati, non può essere finanziatrice di ultima istanza. Non ci sono, mi pare, paesi che lo propongano con chiarezza. Non è nell’attualità politica. E invece dovrebbe essere una proposta forte di una forza progressista.

Macron, nell’intervista a “la Repubblica” del 28 marzo, mette a fuoco meglio del nostro governo una doppia opzione che sembra escludere la necessità di un ricorso ai mercati finanziari. “...Si agisce insieme per finanziare le nostre spese, i nostri bisogni in questa crisi vitale? Voglio che si faccia pienamente questa scelta di solidarietà ... attraverso l’indebitamento comune o il bilancio comune”. E nemmeno Draghi nell’intervista di cui parleremo più avanti sembra prevedere la BCE come finanziatrice diretta del deficit di bilancio degli stati. Sembra che tutti gli esponenti, anche i più illuminati, dei gruppi dominanti si fermino davanti a questo tabù. Infatti anche nel caso di accettazione della proposta degli eurobond questa si realizzerebbe, macchinosamente, nel modo che segue: gli stati dovrebbero ricorrere al Meccanismo di stabilità (Mes), che oltre ad erogare i suoi 410 miliardi ai governi, dovrebbe convertirsi in emittente dei corona bond per migliaia di miliardi. Il tutto, contrariamente quanto sostengono i “paesi del nord”, senza condizionalità (troika). L’acquisto dal Mes di tali titoli da parte della BCE, per migliaia di miliardi, servirebbe a finanziare, oltre l’emergenza sanitaria, la salvaguardia dell’apparato produttivo e la sua ricostruzione. Si farebbe così salvo il tabù del finanziamento diretto schermandolo con l’acquisto dal Meccanismo di stabilità.

Il 25 marzo scorso il “Financial Times” ha pubblicato un articolo di Mario Draghi: Se “una profonda recessione è inevitabile” bisogna evitare che essa “si trasformi in depressione prolungata”. Per far questo è necessario “un aumento significativo del debito pubblico”. I bilanci pubblici dovranno assorbire la “perdita di reddito sostenuta dal settore privato e qualsiasi debito accumulato per colmare la perdita”. E ancora: “Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato”. Salvare quindi a spese dello stato l’apparato produttivo e i posti di lavoro. Si propone un gigantesco trasferimento di risorse dal pubblico al privato e “un immediato sostegno di liquidità” attraverso il circuito bancario e la sua creazione “istantanea” di denaro. “Le banche devono prestare denaro a costo zero con garanzie statali su tutti gli scoperti di conto e prestiti aggiuntivi...”. Solo “le aziende con portafoglio ordini” le cui “perdite possono essere recuperabili ripagheranno il debito”. L’alternativa - una permanente distruzione della capacità produttiva e quindi della base fiscale - sarebbe molto più dannosa per l’economia e per lo stesso gettito del bilancio pubblico. Quello che conta non è la salute dei conti pubblici ma la salute dell’economia reale.

Scrive Federico Rampini su “la Repubblica” del 26 marzo “Si riscopre il manuale d’emergenza scritto da Roosevelt e ispirato da Keynes: solo lo stato ha i mezzi per riempire il vuoto improvviso di reddito, di consumi e di investimenti”. È la socializzazione delle perdite private, abilmente presentata da Draghi come “protezione delle persone dalla perdita del lavoro”. Come è stato giustamente scritto, in poche righe Draghi smonta decenni di menzogne sul debito pubblico. Nulla viene però detto sulla partecipazione dello stato finanziatore agli assetti proprietari delle attività sanate a debito. Nulla o poco viene detto sulla pubblicizzazione dei servizi sociali. Nulla viene detto su un futuro ridimensionamento delle grandi ingiustizie sociali e sul buon diritto dello stato, ora regolatore, a ridiventare gestore di settori importanti dell’economia. Per Draghi, in definitiva, il sostegno pubblico deve solo permettere la conservazione e il ripristino dell’apparato produttivo preesistente, fermi restando anche in futuro gli assetti proprietari e gestionali pregressi.

04/04/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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