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Alcune considerazioni sulle assemblee di Potere al popolo di Roma e Ardea

Due assemblee molto partecipate hanno dibattuto di programma e candidati con esiti non scontati che ci devono far riflettere.


Alcune considerazioni sulle assemblee di Potere al popolo di Roma e Ardea Credits: poterealpopolo.org

Giovedì 11 gennaio si sono svolte due importantissime assemblee di potere al popolo nella provincia di Roma, una al CSA Intifada a Casal Bertone e una ad Ardea per discutere e approvare la lista dei candidati in alcuni collegi del Lazio. Nella prima sono passati, senza difficoltà, i nomi proposti dal gruppo di coordinamento mentre ad Ardea l’assemblea ha ritenuto più opportuno trovare la sintesi su altre figure. In entrambi i casi, si è trattato di due assemblee molto partecipate, sia dai militanti e dirigenti delle organizzazioni che a Roma stanno dando vita a Potere al popolo - Clash city workers, Partito della rifondazione comunista, Sinistra anticapitalista, Partito comunista italiano, Rete dei comunisti, Risorgimento socialista - sia dai collettivi e singoli simpatizzanti.

L’epilogo delle assemblee - il cui esito a questo punto non può essere messo in discussione se non per volontà degli stessi candidati - è indice di una vitalità interna ai partiti che deve essere coltivata, soprattutto là dove è stata capace di risolvere i problemi creati altrove, se non si vuole correre il rischio di perdersi per strada altri validi militanti, come recentemente successo a Gaeta. Se a Casal Bertone, infatti, si era arrivati con proposte parzialmente calate dall’alto a causa di incapacità endogene - e che rappresentano, in tutta onestà, una parziale negazione dell’impostazione originaria che prevede(va) solo candidature legate al mondo del lavoro e delle lotte sociali - ad Ardea la verifica democratica delle proposte legittimamente pervenute ha dimostrato la validità del metodo delle assemblee aperte. D’altronde, come ha ricordato Laura dei CCW di Roma, “dopo due mesi dal lancio di una iniziativa che punta a ricostruire un movimento di massa rivoluzionario, è impensabile non avere contraddizioni al proprio interno”.

In linea di principio, l’esistenza di una centrale che agisce su basi democratiche è quanto di più salutare esista per dirimere i conflitti che sorgono nei diversi livelli o tra i diversi gruppi che compongono una lista. Il problema, semmai, è verificare i criteri con cui si popola il centro regolatore ed i criteri utilizzati al suo interno nelle negoziazioni e compensazioni. Questa non è questione secondaria dal momento che nei casi in cui nella costruzione del centro regolatore e nei rapporti tra le dirigenze delle diverse organizzazioni che la compongono a prevalere non sia il criterio democratico, ci troviamo di fronte ad un metodo da intergruppi che non consente di imporre all’assemblea dei militanti la disciplina di partito e, come la storia insegna, è destinato a far perire ogni sforzo di unità tra i comunisti e di costruzione di un fronte ampio di sinistra.

Ma anche ammesso che la metodologia seguita sia stata corretta e dunque non si ponga una questione di principio, se le candidature spurie non venissero adeguatamente compensate, il rischio per la riuscita del progetto sarebbe grande, anche solo dal punto di vista elettorale. A scanso di equivoci, è bene ricordare che una lista di lavoratori rappresenta una fase di sviluppo della coscienza operaia più arretrata rispetto ad una lista socialista o comunista o ad una coalizione fatta da tali partiti e organizzazioni. Qui ed oggi, tuttavia, siamo di fronte ad una classe lavoratrice fortemente disarticolata sia sul piano strutturale che coscienziale tanto che non riesce neanche a crearlo un partito comunista degno di questo nome. Per questa ragione, invece di candidare le massime figure dei partiti oggettivamente socialdemocratici - sebbene attraversati da contraddizioni e da componenti operaie e comuniste (se non altro anagraficamente e per tradizione storica dei molti militanti anziani) - è preferibile candidare direttamente i lavoratori che stanno nelle lotte.

Non si sta qui parlando di rifiutare sic et simpliciter i nomi degli appartenenti alle burocrazie partitico-sindacali ma di riconoscere che essi si sono formati nelle lotte dei territori cui appartengono le mobilitazioni che hanno promosso e che li hanno fatti crescere, facendoli divenire, appunto, dirigenti. Ciò consentirebbe di evitare un atteggiamento massimalista che punta ad osservare l’universale trascurando il particolare. Non basta infatti aggrapparsi alla generica parola d’ordine, di per sè arretrata, “lottare contro il neoliberismo”, ma occorre mostrare nel particolare il suo significato dando importanza centrale a tutte le rivendicazioni particolari maturate nelle lotte sui luoghi di lavoro e nei territori.

Per i burocrati, invece, se proprio li si deve accogliere, si sarebbe dovuto depotenziarne la carica demoralizzatrice e strumentalizzatrice di cui sono oggettivamente e loro malgrado portatori, collocandoli in posizioni di mera testimonianza, dandogli dunque la possibilità di poter comunque portare acqua al mulino della lista senza dover mettere i militanti di base nell’incomoda posizione di stare a giustificare una loro presenza in posizione potenzialmente eleggibile e senza offrire argomenti strumentali ai mass media padronali, pronti a dare una valenza sinistra al grande e pregevole lavoro che Rifondazione, ad esempio, ha fatto con e nel centro sociale napoletano fin da tempi non sospetti.

Anche in questo caso non si tratta di appoggiare l’antipartismo populistico di stampo grillino, bensì di intendere la natura del “partito” come strumento della classe e non come il suo “cappello”. Anche perché, è bene ricordarlo, stare in parlamento non è un fine in sé. Per di più in un parlamento svilito nelle sue funzioni da governi sempre pronti a ricorrere alla decretazione d’urgenza, da presidenti della Repubblica sempre pronti a firmare, e da istituzioni internazionali, in primis l’Ue, che dettano il bello ed il cattivo tempo di tutti gli esecutivi di qualunque colore. Ecco, in un parlamento del genere, a rappresentare le lotte e a mostrare l’inganno della democrazia formale borghese e su quello che davvero rappresenta, è bene che a questo giro vadano i lavoratori. Gli unici che non hanno nulla da perdere, al di fuori delle loro catene.

Il compromesso raggiunto, al contrario, rischia di portare demoralizzazione e smobilitazione all’interno del vasto mondo della militanza che si sta costruendo oltre i circoli degli aficionados e dei professionisti, i più avvezzi alle campagne elettorali perché più integrati nelle strutture esistenti. È dai compagni dispersi ritrovati, dai giovani che i Clash, i partiti, le organizzazioni e i collettivi sono riusciti a coinvolgere per la prima volta che proviene una forza e un entusiasmo che potrebbe risultare decisivo (molto più dei soldi) e che la lista non può permettersi di perdere.

Tuttavia, nonostante le contraddizioni insite nel processo, e che è nostro dovere analizzare e non nascondere, è pur vero che questa lista, per la prima volta dopo diversi anni, pare vicina a raggiungere il risultato insperato di unire una parte consistente del variegato mondo della sinistra radicale. Ancorché deficitario perché di carattere elettorale, questo fronte rappresenta un passaggio importante nel lungo e tortuoso processo di costruzione di una soggettività di classe che sappia nei prossimi anni, tra le altre cose, far fronte alla necessità di difesa verso la repressione. Molti compagni e collettivi validi devono ancora unirsi e il loro contributo potrà essere decisivo proprio per costruire e saldare quella “anima” che ancora manca e che sarà necessaria soprattutto a partire dal dopo elezioni.

13/01/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: poterealpopolo.org

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