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Noterelle sul lavoro estraniato

La presa di coscienza che nella società capitalistica sia il lavoro morto a dominare sul lavoro vivo spinge Marx a una critica scientifica dell’economia politica in funzione della riappropriazione, in un’altra società, dell’autentica dimensione del lavoro umano, di un vivere che produca nuova vita.


Noterelle sul lavoro estraniato

Segue da: Marx e il lavoro estraniato.

È certamente utile analizzare quali sono le motivazioni profonde che hanno portato il giovane Marx a spostare l’ambito di ricerca da una problematica filosofica a una indagine economica certamente più empirica e storicamente determinata. Interrogando a questo fine il celebre frammento sul lavoro estraniato dei Manoscritti parigini, appare evidente la forte motivazione morale che sostiene l’intera indagine marxiana. Riportiamo qui alcuni brani a sostegno di questa tesi: “con la valorizzazione del mondo delle cose cresce in rapporto diretto la svalorizzazione del mondo degli uomini” [1]. “Quanto più l’operaio lavora, tanto più acquista potenza il mondo estraneo oggettivo, che egli si crea di fronte, e tanto più povero diventa egli stesso, il suo mondo interiore, e tanto meno egli possiede” (XXII). “Il risultato è che l’uomo (il lavoratore) si sente libero ormai soltanto nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare nel bere e nel generare, e nelle sue funzioni umane si sente una bestia. Il bestiale diventa l’umano e l’umano il bestiale” (XXIII). “Il lavoro, l’attività vitale, la vita produttiva, appare all’uomo solo come un mezzo per la soddisfazione di un bisogno, del bisogno di conservazione dell’esistenza fisica. Ma la vita produttiva è la vita della specie. È la vita generante la vita. Nel modo dell’attività vitale si trova l’intero carattere di una specie, il suo carattere specifico. E la libera attività consapevole è il carattere specifico dell’uomo. Ma la vita stessa appare nel lavoro alienato, soltanto mezzo di vita” (XXIV). La presa di coscienza che nella società capitalistica sia il lavoro morto a dominare sul lavoro vivo, spinge Marx a una critica scientifica dell’economia politica in funzione della riappropriazione, in un’altra società, dell’autentica dimensione del lavoro umano, di un vivere che produca nuova vita.

Miseria del moralismo

Il nostro porre l’accento sulla dimensione etica della teoria marxiana non deve assolutamente far perdere di vista l’impostazione scientifica e la netta presa di distanza del giovane Marx da ogni rifiuto moralistico del reale nel nome di soluzioni utopistiche. Marx in questi anni giovanili rifiutava ancora di riconoscersi nel movimento comunista proprio perché esso non era assolutamente in grado di andare oltre una reazione morale al capitalismo, spesso ancora inquinata da un forte retaggio escatologico. Va altresì ricordato come in Germania il movimento comunista fosse ancora completamente egemonizzato dalla componente artigiana, sovente legata a modi di produzione ormai storicamente superati. Marx nel suo soggiorno parigino era entrato in contatto con una realtà decisamente più avanzata, dove erano già presenti in forma organizzata le componenti più radicali della nascente classe operaia. Sarà proprio il riconoscere nel nuovo proletariato moderno l’unica forza in grado di guidare il genere umano verso un più sviluppato modo di produzione, a distinguere nettamente il giovane Marx dai contemporanei critici del capitalismo. In questo manoscritto è già rintracciabile quella che sarà definita la funzione universale della classe operaia. Si legga ad esempio questo passo: “dal rapporto del lavoro alienato con la proprietà privata consegue inoltre che l’emancipazione della società dalla proprietà privata etc., dalla servitù, si esprime, nella forma politica dell’emancipazione operaia, non come se si trattasse soltanto dell’emancipazione dell’operaio, bensì, poiché nell’emancipazione di questo è implicita la generale emancipazione umana, anche questa vi è contenuta, in quanto l’intera servitù umana è coinvolta nel rapporto dell’operaio con la produzione, e tutti i rapporti di servitù sono soltanto modificazioni e conseguenze di questi rapporto” (XXVI). 

L’approccio scientifico di Marx è evidente sin dalle iniziali considerazioni di carattere metodologico. Il testo da noi preso in esame si apre, infatti, con questa emblematica dichiarazione di intenti: “siamo partiti (ausgegangen) dai presupposti (Voraussetzungen) dell’economia politica. Abbiamo accettato il suo linguaggio e le sue leggi” (XXII). Marx si serve dunque di una dimostrazione per assurdo. Il verbo tedesco ausgehen ha il duplice significato di prendere le mosse e di uscire fuori. Marx mostra, distinguendosi immediatamente da ogni tipo di critica esterna, utopista, non scientificamente fondata, di servirsi delle stesse leggi, dello stesso linguaggio dell’economia politica per metterne in luce l’intima contraddittorietà. Si sottomette (unterstellen) a questi fondamenti, per poterli criticare dall’interno. L’immensa quantità di merci prodotta dall’operaio finisce con il ridurlo al livello della più infima merce; la sua miseria è in rapporto inverso alla grandezza della sua produzione; e il risultato necessario e inevitabile della concorrenza è l’aumento della concentrazione dei capitali: i monopoli. Si è scelto di sottolineare in neretto il termine “necessario” (notwendig) per indicare come per Marx l’instaurazione del monopolio sia un frutto inevitabile dello sviluppo della concorrenza e non un puro accidente evitabile con misure keynesiane, come pretendono una fitta schiera di neo e post-marxisti. Il presunto giovane Marx umanista è così già in grado di gettare le basi della sua critica “positiva” dell’economia politica; positiva in quanto, mostrando le insuperabili contraddizioni che la minano dall’interno, getta al tempo stesso le basi per una sua rifondazione con criteri scientifici adeguati al proprio oggetto. È evidente che la critica marxiana è fondata proprio sulla considerazione del modo capitalistico di produzione come un tutto organico. Ciò permette a Marx di rovesciare ancora una volta l’ordine dato alle categorie dall’economia politica. La proprietà privata si rivela così come: “il prodotto, il risultato, la necessaria conseguenza del lavoro estraniato, del rapporto estrinseco dell’operaio con la natura e con se stesso” (XXV).

La proprietà privata risulta, dunque, dall’analisi del concetto del lavoro alienato, ovvero dell’uomo alienato, del lavoro estraniato, della vita estraniata, dell’uomo estraniato. E ancora: “come abbiamo ricavato, con l’analisi del concetto del lavoro alienato, estraniato, il concetto della proprietà privata, così possono esser spiegate, con l’ausilio di entrambi questi fattori, tutte le categorie dell’economia politica, e noi troveremo in ogni categoria – per esempio, lo scambio, la concorrenza, il capitale, il denaro – solo un’espressione determinata e sviluppata di questi primi concetti fondamentali” (XXVI).

Tornando alla critica rivolta da Marx ai socialisti utopisti, è utile notare come già in questo scritto l’obiettivo scelto sia proprio Proudhon, contro il quale due anni dopo scriverà Miseria della filosofia.

Marx, dopo aver mostrato come la proprietà privata al culmine del suo sviluppo storico abbia svelato il suo arcano, ovvero che essa “da una parte è il risultato del lavoro alienato, e in secondo luogo che essa è il mezzo col quale il lavoro si aliena, la realizzazione di questa alienazione” (XXV), indica che proprio “questo sviluppo illumina subito diverse contraddizioni finora insolute” (Ibidem). La legge del valore formulata dall’economia politica pone il lavoro al centro della produzione, tuttavia per ciò che riguarda la distribuzione è la proprietà privata a stabilirla. “Proudhon da questa contraddizione [Widerspruch] ha concluso in favore del lavoro contro la proprietà. Ma noi comprendiamo che questa apparente contraddizione [scheinbare Widerspruch] è la contraddizione del lavoro alienato con se stesso e che l’economia politica ha espresso soltanto le leggi del lavoro estraniato” (XXV). In queste poche righe ci sembrano ben riassunte le critiche di Marx a Proudhon. Quest’ultimo, in effetti, ha costruito la sua teoria sulla base della critica di un’apparente contraddizione che solo superficialmente inquina le concezioni dei classici dell’economia politica. Una più approfondita analisi mostra come in realtà l’economia politica non abbia fatto altro che illustrare la dinamica interna, intimamente contraddittoria, del modo di produzione capitalistico. 

Allo stesso modo Marx, dimostrando come il salario non sia niente altro che una conseguenza del lavoro alienato, conclude che anche la conquista di un più alto salario non è altro “che una più alta remunerazione degli schiavi e non costituirebbe la conquista, né per il lavoratore, né per il lavoro, della loro umana vocazione e dignità” (XXVI). Tanto più velleitario e ridicolo appare il preteso livellamento dei salari avanzato da Proudhon che trasformerebbe soltanto “Il rapporto dell’odierno operaio con il suo lavoro in un rapporto di tutti gli uomini con il loro lavoro” (Ibidem). Per Marx, invece, dato che il salario è una diretta conseguenza del lavoro alienato, una volta eliminato questo, quello perderebbe la sua ragione di esistere.

La maturità del giovane Marx: coerenza di un pensiero

Gli accenni fatti nei precedenti paragrafi, sia per ciò che riguarda la continuità dell’influenza hegeliana su Marx, sia per quanto concerne il distanziamento critico da Proudhon, dovrebbero essere sufficienti a mostrare l’inconsistenza di ogni tesi tendente a marcare una netta coupure all’interno del percorso teorico marxiano.

Qui aggiungeremo soltanto, per rafforzare la nostra tesi, una serie di passi nei quali il giovane Marx si distacca visibilmente dal Feuerbach, indicato dai sostenitori del Marx “umanista” come fonte principale della sua produzione giovanile.

È interessante notare, per esempio, che la religione è ormai ridotta a semplice exemplum delle inversioni che si producono a livello coscienziale, non ne costituisce assolutamente più la causa. Del resto, già nell’articolo su La questione ebraica, pubblicato appena l’anno prima, era possibile leggere: “la religione per noi non costituisce più il fondamento, bensì ormai soltanto il fenomeno della limitatezza umana” [2]. 

Il rovesciamento di causa ed effetto rispetto alla tesi feuerbachiana, che vedeva la causa prima dell’alienazione umana nella religione, è evidente anche in questo scritto. Si chiede Marx: “se la mia propria attività non mi appartiene, ma è un’estranea coatta attività, a chi appartiene allora? A un ente altro da me.

Chi è questo ente? La divinità? L’ente estraneo, al quale appartiene il lavoro e il prodotto del lavoro, al servizio del quale sta il lavoro e per il godimento del quale nasce il prodotto del lavoro, può essere solo l’uomo stesso” (XXV). E ancora, sottolinea Marx, “non gli dèi, non la natura, ma soltanto l’uomo stesso può essere questa potenza estranea al di sopra dell’uomo.” (Ibidem)

 

Note:

[1] Marx, K., Manoscritti parigini, 1844, p. XXII. D’ora in avanti citeremo direttamente nel testo fra parentesi tonde il numero della pagina del manoscritto marxiano.

[2] https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1844/2/questioneebraica.htm

15/01/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo
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