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Le origini dell’intervento comunista nel sindacato (Parte 2 di 2)

Una questione di grande attualità: il rapporto fra i comunisti e il sindacato. Gramsci, i consigli di fabbrica, la lotta contro il fascismo, le critiche della Terza Internazionale, i limiti della direzione bordighista del partito, la lotta contro le burocrazie sindacali


Le origini dell’intervento comunista nel sindacato   (Parte 2 di 2)

Una questione di grande attualità: il rapporto fra i comunisti e il sindacato. Gramsci, i consigli di fabbrica, la lotta contro il fascismo, le critiche della Terza Internazionale, i limiti della direzione bordighista del partito, la lotta contro le burocrazie sindacali

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I difficili e tortuosi inizi dell’attività sindacale comunista si ebbero, quindi, proprio nel 1921 – 1922, quando si raggiunse il massimo delle violenze squadriste ed antipopolari. Ma oltre alle violenze alcuni dati segnalano la grave sconfitta del movimento operaio e il radicale rovesciamento dei rapporti di forza tra le classi che si consumò in questo periodo: gli scioperi scesero da 453.914 nel 1920 a 148.796 nel 1921 e le giornate di lavoro perdute a causa di conflitti sindacali diminuirono addirittura da 6 milioni 218.900 a 1.264.425. Crebbe, inoltre, il numero di disoccupati da 102.156 a 388.744, sempre calcolando gli anni 1920 e 1921.

Altro segnale venne dalla FIAT, vero termometro della lotta di classe in Italia, dove si registrarono numerosi licenziamenti e la soppressione dei Consigli di Fabbrica. Il caso di Torino, d’altronde, è emblematico dal nostro punto di vista, sia per l’azione dei comunisti che per il comportamento confederale.

 All’inizio del 1921 la Lega Industriale di Torino notificò alla Camera del Lavoro (a maggioranza comunista) che occorreva procedere a licenziamenti e a riduzioni generalizzate dell’orario di lavoro per mancanza di sbocchi nei mercati esteri. La Camera del Lavoro si dichiarò disponibile a discutere dell’orario di lavoro, proponendo inoltre alle industrie non in crisi di stabilire «turni di lavoro o diminuzione di ore lavorative (…) per poter assorbire la manodopera disoccupata» con l’aggiunta che eventuali licenziamenti dovevano essere sottoposti al vaglio delle Commissioni Interne. Particolare non irrilevante per il nostro discorso, si invitava la CGL a farsi promotrice "di una agitazione nazionale per il controllo sui licenziamenti e sulla produzione". 

Tale proposta però non fu accolta dai dirigenti sindacali quando la Fiat, dopo il licenziamento di 400 operai e una concordata riduzione dell’orario di lavoro, licenziò altri 1500 lavoratori: Buozzi, infatti, in una riunione alla Camera del Lavoro di Torino sostenne che la trattativa sui licenziamenti doveva essere impostata "su un terreno puramente tecnico".      

Al di là della cronaca, ci preme sottolineare l’atteggiamento della Confederazione che, oggettivamente, alimentava la determinazione del padronato a sfruttare il momento favorevole per recuperare all’interno dei luoghi di lavoro il terreno perduto nel 1919-1920. Al contrario il PCd’I e la locale Camera del Lavoro – come nota giustamente Natoli – si resero "lucidamente conto" dello scontro politico in atto, consistente nella restaurazione del principio d’autorità e della disciplina del lavoro, attraverso lo smantellamento dell’organizzazione operaia in fabbrica. A nulla valsero, quindi, gli inviti rivolti alla CGL da Gramsci il 19 marzo in una riunione dei gruppi comunisti di fabbrica: 

La situazione deve essere affrontata non solo rispetto agli industriali, ma anche rispetto alla CGL. Si è già chiesta, da parte nostra, una parola d’ordine ai confederalisti, ma essi avevano preparato le…assicurazioni sociali (…). Di fronte ad una simile situazione, giacché la Confederazione ha ancora la maggioranza che la sostiene ed è alla direzione del movimento operaio italiano, gli organi centrali massimi riformisti devono prendere una buona volta posizione e romperla con l’agnosticismo opportunista finora seguito.

Ma la risposta dei vertici confederali rimase invariata, anzi, dopo la serrata della Fiat il 6 aprile e altri tremila licenziamenti "accuratamente scelti tra i più sovversivi», Bruno Buozzi sostenne che era «assolutamente indispensabile limitare la lotta ai soli stabilimenti serrati".

Nel frattempo i fascisti incendiarono la Camera del Lavoro; la reazione da parte operaia che ne seguì, seppure combattiva con scioperi spontanei, occupazione di alcune fabbriche e sciopero generale proclamato dalla Camera del Lavoro, rimase isolata nella sola città di Torino. Inevitabilmente si arrivò alla completa sconfitta operaia, con il padronato che impose rappresaglie politiche e licenziamenti di rappresentanti sindacali per "violenze in fabbrica e insubordinazione", avendo avuto cura, peraltro, di costruire un movimento di opinione pubblica tendente all’isolamento dei settori operai più combattivi. Il 6 maggio le organizzazioni operaie capitolavano completamente: la disciplina e la gerarchia del processo produttivo era così ristabilita su una classe operaia divisa e indebolita.

In tale clima, PSI e CGL accettarono il Patto di Pacificazione proposto da Mussolini, con il quale entrambe le parti si impegnavano a desistere dall’uso di ogni forma di violenza nella lotta politica.

La netta posizione contraria dei comunisti si espresse sul terreno sindacale, ma non su quello politico, con la proposta del Comitato Sindacale del 15 agosto 1921, indirizzata alla CGL, USI e al Sindacato Ferrovieri, per uno sciopero generale di tutto il proletariato organizzato, con parole d’ordine legate agli interessi materiali delle masse: le otto ore, il rispetto dei concordati e dei patti colonici, l’indennità di disoccupazione, l’integrità del diritto di organizzazione.

Alla risposta negativa da parte del direttivo CGL seguì un’aspra polemica a colpi di articoli sulla stampa (“Battaglie Sindacali” e “L’Ordine Nuovo”) che ebbe il suo momento centrale nel primo convegno del Comitato Sindacale Comunista tenutosi a Milano il 7 e 8 settembre. In questa sede, in contrapposizione con la linea di mediazione confederale, si agitarono obiettivi economici e sociali radicali: "i salari non debbono essere abbassati e l’indennità di disoccupazione deve uguagliare i salari".  

Tale polemica ci aiuta a capire, sin dal suo inizio, la divaricazione crescente che si sarebbe sviluppata nel corso degli anni fra comunisti e riformisti. In un articolo di risposta dell’Ordine Nuovo alle minacce di provvedimenti amministrativi da parte del gruppo dirigente della CGL contro quegli organismi sindacali egemonizzati dai comunisti che non rispettavano i deliberati della Confederazione, si scriveva:

"Il comunicato non ci fa né caldo né freddo. Ne prendiamo atto come di una nuova prova dello spirito di conciliazione e di concordia da cui sono animati i riformisti verso i comunisti, e lo giustifichiamo come una conseguenza del panico da cui sono invasi i mandarini sindacali per i successi che la propaganda comunista registra tra le masse".

Un ulteriore momento di lotta all’interno delle istituzioni del movimento operaio si ebbe nel Congresso straordinario della Fiom, convocato a Roma nei giorni 2 – 3 – 4 ottobre del 1921, essenzialmente per discutere sulla risposta operaia alla denuncia degli industriali dei concordati stipulati l’anno precedente. Anche qui, in contrapposizione alla tattica riformista del "caso per caso", i comunisti ribadirono, con l’intervento di Repossi, la necessità dello sciopero di tutte le categorie in difesa dei contratti di lavoro. 

Nessuno era disposto allo scontro frontale e, oltre i discorsi sull’unità dell’agitazione e sullo spirito di classe, la decisione della lotta veniva rinviata ai Comitati regionali di agitazione che venivano implicitamente invitati a inseguire le mosse degli industriali e a decidere volta per volta sulle iniziative da intraprendersi.         

Per una prima sistematizzazione dell’intervento comunista nei sindacati occorre attendere il 20 marzo 1922, data d’inizio del II Congresso del PCd’I. In questa assise venne definito, tra l’altro, il giudizio dei comunisti sulla fase politica e sociale degli anni 1920 – 22, ed in particolare il rapporto fascismo – socialdemocrazia. Scrive a questo proposito Paolo Spriano: "Dinanzi all''offensiva sempre più vasta e completa della borghesia', il PCd’I continua a ritenere che essa avrà, in definitiva, un approdo socialdemocratico, prima dell’urto finale".

Anche se Gramsci non intendeva escludere l’ipotesi d’un colpo di stato autoritario, l’orientamento dominante, attribuito dal Partito Comunista alla borghesia italiana era quello socialdemocratico. Ne fa fede un articolo sull’Ordine Nuovo alcuni mesi prima:

Esiste in Italia la possibilità di un colpo di stato? Cosa significa, cosa rappresenta la situazione di intere province e di intere regioni in cui è il fascismo che governa e non più l’autorità ufficiale?

Non è stata forse restaurata la pena di morte, non è stato ripristinato l’uso del bastone, e queste forme di punizione non sono state amministrate da organismi extra – legali? Questo è l’ambiente del colpo di stato, non è ancora il colpo di stato, non è ancora il colpo di stato nella sua piena efficienza. Esiste ancora il Parlamento, il Governo è ancora scelto e controllato dal Parlamento; nessuna legge eccezionale ha ancora abolito formalmente le garanzie statutarie. Ma è possibile immaginare che l’attuale condizione di cose possa durare ancora per molto tempo? Esistono oggi in Italia due apparecchi repressivi e punitivi: il fascismo e lo Stato borghese. Un semplice calcolo di utilità induce a prevedere che la classe dominante vorrà ad un certo punto amalgamare anche ufficialmente questi due apparecchi (…). La parte più reazionaria e spregiudicata della classe dirigente imporrà la sua dittatura sanguinosa, scioglierà le organizzazioni operaie, consegnerà tutti i poteri nelle mani della casta militare.

I comunisti italiani nel II Congresso continuarono, quindi, nella loro intransigente opposizione alla politica del Fronte Unico sostenuta dall’Internazionale. 

Trockij e Radek ebbero l’opportunità di esaminare le tesi congressuali e ne proposero addirittura il rigetto, in ragione dell’orientamento confermato dal Plenum del Comitato Esecutivo dell’Internazionale che indicava al partito italiano di trasformarsi in maggioranza all’interno del proletariato con la tattica del Fronte Unico.

All’interno del documento del partito della sezione italiana si collocavano l’analisi e le tesi congressuali sulla questione sindacale redatte da Gramsci e Tasca, ma non discusse nel congresso; il Fronte Unico era ritenuto valido e attuale dai comunisti italiani solo sul versante sindacale. Di conseguenza molti passaggi risultavano omogenei alla linea dell’Internazionale: rapporti partito – sindacato; partito – masse; unità sindacale. 

Nel documento si sottolineava la differenza operata dai comunisti nel tradizionale processo di formazione del movimento sindacale, nel quale ogni corrente ideologica si costituiva una propria organizzazione sindacale. Si invitavano, quindi, tutti gli oppositori dei metodi riformisti ad entrare nella Confederazione per «battere in breccia» la burocrazia sindacale. Esistevano in Italia altre organizzazioni sindacali con la tendenza ad avere carattere nazionale, repubblicane, anarchiche, locali, oltre all’USI, e tutte si esaurivano 

"in ristrette attività e che potrebbero invece più utilmente contribuire allo sviluppo unitario del proletariato italiano entrando nella Confederazione".  

La base organizzativa rimaneva per la sua capacità di aderire più strettamente alle esigenze elementari della classe oppressa la Confederazione Generale del Lavoro, mentre le altre organizzazioni (eccettuato il Sindacato ferrovieri), quantunque i loro leader "più chiassosamente insistano nelle affermazioni di carattere sindacalista e autonomista, effettivamente si avvicinano più alla natura del partito politico che del sindacato professionale".

Originale era invece l’analisi sulla burocrazia sviluppatasi all’interno dell’organizzazione grazie alla mancanza di strumenti di controllo e di verifica dei dirigenti, la cui autonomizzazione aveva provocato un’ulteriore disgregazione nel rapporto con le masse operaie: 

Gli operai divenuti dirigenti sindacali perdettero completamente la vocazione laboriosa e lo spirito di classe e acquistarono tutti i caratteri del funzionario piccolo – borghese, intellettualmente pigro, moralmente pervertito o facile al pervertimento. Gli operai meglio retribuiti e che avevano altri redditi oltre il salario formarono un sindacato nel sindacato, sostenendo i dirigenti nell’opera loro di lento accaparramento dell’organizzazione ai fini di una parte politica, che poi si rivelò essere niente altro che la coalizione di tutti i funzionari stessi.

Garanzia contro la degenerazione burocratica dei Comitati Sindacali Comunisti era il controllo del Partito che si esercitava con lo stretto collegamento tra gruppo comunista e il Comitato Sindacale: "Ogni fabbrica o azienda, ogni sindacato per quanto piccolo ha o dovrebbe avere il suo gruppo comunista. Codesti gruppi nella fabbrica avrebbero dovuto svolger la propria attività per la conquista della commissione interna; a livello locale e nazionale, avrebbero dovuto costituire comitati per ogni Camera del Lavoro e per ogni Federazione professionale ed era loro obbligo accettare il principio della disciplina democratica nelle rispettive organizzazioni; dovevano, cioè, rispettare le eventuali decisioni della maggioranza, ma mai, in ogni modo accettare limitazioni alla propria libertà di propaganda e di critica"; ed ancora: "se minoranza, essi accettano cariche negli organismi deliberativi direttamente eletti dalle masse organizzate, non dagli organismi esecutivi, eletti in secondo grado, e nei quali non potrebbero entrare che per una benigna concessione o per un compromesso". Il complesso dei comitati sindacali riceveva le direttive dal Comitato centrale sindacale. Importante, inoltre l’affermazione che "la rete dei gruppi e dei comitati sindacali deve essere considerata non come un’istituzione provvisoria, rivolta unicamente alla conquista delle centrali del movimento sindacale, ma come un’istituzione permanente che avrà i suoi compiti e svolgerà una sua attività anche dopo l’avvento della dittatura proletaria".

Fondamentale il richiamo all’idea che «un’organizzazione operaia sia tanto più vigorosa e abbia tanto più capacità di sviluppo rivoluzionario quanto più le grandi masse partecipano all’amministrazione e al governo», in modo che la struttura confederale sia semplificata e che si avvicini alla vita locale della classe operaia. Il potere della burocrazia sindacale doveva essere ridotto al minimo e strettamente collegato al problema della democrazia nell’organizzazione, tanto che "quanto più i comunisti lotteranno in questo senso, tanto essi faciliteranno l’avvento dell’unità, e avranno una corrispondenza nelle masse sindacaliste che oggi sono fuori dalla Confederazione".

A questo si collegava la riaffermazione della tematica, presente anche in queste tesi, dei Consigli di Fabbrica e del controllo operaio, vera rottura teorica con tutta la tradizione socialista precedente. Si affermava, infatti, che la classe operaia per conquistare la sua autonomia doveva superare i limiti dell’organizzazione sindacale e creare un nuovo tipo di organizzazione a base rappresentativa non burocratica che coinvolgesse tutta la classe operaia, anche quella che non aderiva all’organizzazione sindacale "Il Partito comunista deve attraverso i suoi gruppi d’azienda incessantemente svolgere un’opera rivolta a sviluppare dalle commissioni interne i consigli di fabbrica e a sistemare i consigli in una rete che sia come il rilievo dell’attività industriale capitalistica". Ed ancora "La lotta per il controllo rappresenta per i comunisti il terreno specifico in cui la classe operaia s’impone a capo delle altre classi oppresse della popolazione  e riesce ad ottenere il consenso per la propria dittatura".

Questi i presupposti dell’attività sindacale comunista svoltasi nella temperie degli anni 1921 e 1922. 

31/01/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Claudio Gambini
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