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L’arte in un giornale comunista

Perché per un giornale comunista è giusto e necessario occuparsi dell'arte


L’arte in un giornale comunista Credits: da Flickr https://www.flickr.com/photos/royaloperahouse/16667834756 (CC BY-SA 2.0)

Gli uomini generalmente prima agiscono e poi riflettono sul significato delle proprie azioni. La città futura si è quasi sempre distinta da altri giornali di ispirazione comunista per l’attenzione con cui ha seguito l’odierna produzione artistica. In questo articolo cerchiamo di chiarire e di chiarirci le motivazioni che ci hanno portato a fare una scelta al quanto contro corrente.

di Renato Caputo

Occuparsi di arte per un comunista oggi può apparire un’occupazione oziosa. In particolare può apparire decisamente futile interessarsi di estetica dinanzi a problematiche di decisiva importanza come ricostruire il Partito comunista, in mancanza del quale il comunismo resta un concetto astratto, ricostruire un sindacato di classe, in mancanza del quale non siamo in grado neppure di vendere al suo prezzo la forza lavoro e di contenere l’aumento di orario, rilanciare i consigli, in assenza dei quali la transizione al socialismo resta una pura utopia. Vi sono, poi, questioni che appaiono estremamente urgenti, come riorganizzare i lavoratori nei luoghi di lavoro per contrastare l’offensiva militare, contrastare fascismo e razzismo, battersi contro la guerra imperialista, le spese militari, la militarizzazione della società, l’attacco alla democrazia borghese, le privatizzazioni ecc. 

Resta però che senza una teoria rivoluzionaria non vi può essere una prassi rivoluzionaria, come dimostra il fatto che la sinistra prigioniera di un azionismo scarsamente fondato teoricamente ha finito per portare avanti battaglie di retroguardia o addirittura controproducenti, come il governismo, ovvero l’illusione di poter governare un Paese imperialista, il democraticismo costituzionalista, che occulta la natura di classe dello Stato, il frazionismo e il settarismo, i lavori socialmente utili, il reddito garantito, la non violenza, l’europeismo, il keynesismo e negli ultimi tempi persino il nazionalismo e il papismo.

Del resto nel momento in cui non si dispone di una propria autonoma visione del mondo non si può che subire l’influenza dell’ideologia dominante, sempre funzionale agli interessi delle classe dominanti.  Così negli ultimi anni gli intellettuali di sinistra hanno finito per formarsi sempre più su autori decisamente reazionari e irrazionalisti, da Nietzsche a Heidegger, dai postmoderni a Foucault perdendo di vista la necessità di sviluppare il marxismo e anzi finendo per dimenticare gli insegnamenti dei grandi classici del pensiero rivoluzionario, da Marx a Lenin, da Gramsci a Lukács per citare unicamente gli imprescindibili.

Si è finito così per dimenticare che è necessario conquistare il potere e non pretendere di gestirlo per conto della borghesia, e che a tale scopo nelle società a capitalismo avanzato, come la nostra, è indispensabile impegnarsi a fondo nella lotta per l’egemonia sul piano culturale delle sovrastrutture.

Da questo punto di vista uno strumento indubbiamente portentoso con cui dover fare i conti è quello dell’industria culturale che mira a detenere il monopolio dell’immaginario collettivo, facendo apparire il nostro mondo, sebbene sempre più evidentemente in decadenza e crisi, come il migliore dei mondi possibili, contrastando in ogni modo lo sviluppo dell’utopia. Al punto che in diversi settori giovanili delle classi subalterne trova terreno lo spirito distopico del fondamentalismo religioso, del razzismo, del fascismo quale unico antidoto al pensiero unico.

Da questo punto di vista non può che lasciare basiti l’attitudine snobista di una parte significativa dell’intellighenzia di sinistra che per non mostrarsi di parte e vetero marxista finisce per divenire ultra-conformista presentando come vere e proprie opere d’arte prodotti mercificati puramente culinari e d’evasione dell’industria culturale. Siamo al paradosso che per apparire anticonformisti e a la page si finisce per divenire apologeti del conformismo.

Un’altra tendenza particolarmente deleteria è quella che ha portato troppi intellettuali sedicenti di sinistra a far propria l’ideologia della classe dominante ovvero a contribuire, da vere mosche cocchiere del capitale, alla distruzione della ragione, indispensabile a impedire che dal punto di vista universalistico della ragione si possa mettere in questione un sistema sempre più contraddittorio in quanto ostacola lo sviluppo delle forze produttive per consentire un’appropriazione sempre più elitaria delle ricchezze mediante il progressivo immiserimento della maggioranza del genere umano, la distruzione dell’ambiente e guerre sempre più devastanti. Abbiamo così la tendenza a esaltare acriticamente tutto ciò che è trash, tutto ciò che è ultra-intellettualistico, ultra-elitario e generalmente anche ultra-reazionario o semplicemente irrazionale.

A tale scopo, per non essere tacciabili di una qualche complicità con il realismo socialista, si assumono posizioni ultra-formaliste che vengono presentate come unica alternativa ai prodotti dell’industria culturale. In tal modo, trattandosi di prodotti ultra-elitari, ultra-intellettualistici, privi di qualsiasi valore conoscitivo, incapaci di produrre un reale godimento estetico e tantomeno una qualsiasi forma di catarsi, si finisce per trovare rifugio nell’opposto speculare, ossia i prodotti puramente commerciali e di evasione dell’industria culturale.

In tal modo si rischiano di vanificare, anzi si contribuisce a far dimenticare, se non addirittura a demonizzare, tutti gli sforzi compiuti storicamente dall’arte e dall’estetica progressista per affermare, nella lotta per l’egemonia contro l’industria culturale e l’ideologia finalizzata alla distruzione della ragione, quelle opere d’arte che favoriscono una comprensione critica del mondo, in funzione di una sua trasformazione radicale in senso progressivo.

Da questo punto di vista assistiamo a un vero e proprio “rovescismo” estetico che porta a esaltare la mercificazione dell’arte, la produzione di prodotti dozzinali per anestetizzare lo spirito critico delle masse, l’arte per l’arte, ossia prodotti ispirati al manierismo e al barocchismo, al secentismo programmatico in funzione apertamente anti-realista. In altri termini, si finisce per trovare interessante qualsiasi prodotto dell’industria culturale per far perdere la possibilità ai non addetti ai lavori, ossia ai proletari, di poter individuare quel numero limitato di opere d’arte realiste da non perdere per poter sviluppare la propria visione critica del mondo, provare godimento estetico, educare il proprio gusto, la propria capacità di giudizio e purificare le proprie passioni.

Da questo punto di vista diviene indispensabile per una critica che intende ancora mascherarsi come di sinistra, come non allineata al senso comune dominante, omettere del tutto ogni riflessione sul contenuto sociale, politico, ideologico, storico, morale, filosofico per rivolgere l’attenzione unicamente sugli aspetti formali, quelli che tendono a venire in primo piano quando il contenuto stesso è accidentale e di scarso interesse. Del resto sempre più spesso gli artisti e i critici, per non finire nella lista nera di chi si oppone in senso progressista all’ordine costituito, tendono, quando non si limitano a confezionare o a spacciare come opere d’arte le merci alienanti dell’industria culturale, unicamente a mettere in luce le proprie competenze tecniche e formali, da addetti ai lavori, ammirandosi continuamente la lingua.

Tutto ciò è il prodotto, in primo luogo, della specializzazione e divisione del lavoro portata alle estreme conseguenze dalla società a capitalismo avanzato. Del resto, più l’artista e il critico diviene uno specialista o un tecnico, meno mette in discussione l’ordine costituito. Così sia fra gli artisti che fra i critici tendono ad affermarsi quei lavoratori della mente che tendono a estraniarsi sempre più dai problemi del mondo dei lavoratori manuali, che sviluppano le sovrastrutture celando il più possibile il loro rapporto con le strutture economiche e sociali. Cercano così in ogni modo di non dover formulare dei giudizi sulle contraddizioni del mondo reale, che per altro se non rifuggono fanno apparire come insolubili.  

In effetti uno degli aspetti preponderanti dell’offensiva reazionaria in atto anche in campo estetico a partire quanto meno dagli anni Ottanta, è la radicale negazione non solo dell’aspetto mimetico-conoscitivo dell’opera, per rescindere il nesso fra razionale e reale, ma neutralizzare qualsiasi portato catartico dell’opera. Quest’ultima, infatti, può occuparsi di qualsiasi cosa, dalla più immediata e banale alla più astratta, purché non lasci emergere le contraddizioni di fondo della realtà storica e sociale. Soprattutto, non deve fornire allo spettatore non solo gli strumenti, ma nemmeno lo stimolo ad affrontare tali contraddizioni per tentare di risolverle non solo a livello ideale, ma soprattutto reale. 

Da qui tutto il fiorire di opere, apologizzate dalla critica dominante, ossia dalla critica di regime, che affermano come non vi sia speranza in questo mondo, che il mondo reale non può che essere un mondo di lacrime e sangue, dove dominano il cinismo e la violenza. In altri termini si tratta, al solito, di naturalizzare le contraddizioni, le storture del nostro mondo storico, come se fosse l’unico reale e possibile.  Per cui, l’unica evasione possibile e tollerabile e la fuga nella fede irrazionale nel totalmente altro, nell’assoluta trascendenza in cui il puro essere è necessariamente eguale al puro nulla.

Non a caso l’apologia del formalismo, del naturalismo, in funzione antirealista, si accompagna alla campagna orchestrata dai corifei dell’ideologia dominante contro la concezione progressista dell’arte fondata sull’effetto di straniamento, ossia sulla capacità dell’arte di stimolare lo spirito critico, di far uscire dalla passività lo spettatore, di servire da antidoto alla alienazione e reificazione prodotte dalla società capitalista.

Abbiamo così da una parte una sfacciata apologetica apertamente reazionaria della mercificazione dell’arte, dell’arte puramente culinaria e di evasione propinata a una classe di lavoratori salariati che al di fuori del luogo di lavoro deve limitarsi a riprodurre la propria capacità di lavoro, dedicandosi in modo esclusivo alle funzioni istintuali. Dall’altra abbiamo una concezione irrazionalista e primitivistica dell’arte che tende a risacralizzare l’arte, a restituirle la sua oligarchica e mitico-religiosa aura. A tale concezione si lega l’idea di un’arte che porti lo spettatore alla più immediata identificazione con la vicenda narrata, alla sua partecipazione emotiva e non riflessiva. Bisogna fare di tutto per non lasciare allo spettatore il tempo per ragionare, per assumere un’attitudine critica, per sviluppare quel dubbio scettico rispetto a quanto assiste che è la base di ogni conoscenza. Da qui assistiamo al proliferare di opere sempre più rapide e immediate, che tendono a rapire lo spettatore, a farlo uscire fuori di sé, a rivolgersi alla sua sfera istintuale, pur di non consentirgli una presa di coscienza delle contraddizioni del reale, del mondo storico e sociale. 

Infine i prodotti dell’industria culturale, anche quando intendono coprire i settori progressisti del mercato, offrono opere che presentano quasi sempre soluzioni di tipo individualista a grandi problematiche storiche sociali. Tale titanismo è ovviamente sviante, in quanto ingenera l’illusione che sia possibile risolvere da soli le contraddizioni oggettive quasi che fossero degli accidenti e non delle necessità. Questo tipo di catarsi è illusoria ed è generalmente seguita da frustrazioni nella vita reale, in quanto la soluzione delle contraddizioni oggettive richiede rapporti di forza necessariamente fuori della portata del singolo individuo. 

21/05/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: da Flickr https://www.flickr.com/photos/royaloperahouse/16667834756 (CC BY-SA 2.0)

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